La Stampa, 11 novembre 2016
Intervista a Silvio Orlando: «Basta ruoli gradevoli. Finalmente esploro i miei lati oscuri»
Dopo la tv, il ritorno in teatro. Silvio Orlando si prepara ad esordire con Lacci di Domenico Starnone domenica al Civico di Tortona, data organizzata da Piemonte dal Vivo. E intanto si racconta: «Nella prima parte della mia carriera, ho interpretato personaggi molto gradevoli per il pubblico: sono napoletano, cerco sempre il consenso. Adesso, invece, sto cercando di approfondire gli aspetti più oscuri del mio carattere. E quindi scelgo storie che non siano solo di intrattenimento».
E quindi Lacci di Domenico Starnone, di cui è anche produttore.
«Il titolo si riferisce ai lacci invisibili che legano le persone le une alle altre. Il protagonista è un uomo che non riesce a dimenticare un amore ormai svanito. Ha tradito la moglie, poi è tornato in famiglia ma prova un rimpianto enorme, mentre da parte sua la moglie nutre un risentimento molto forte. Vive la sua vita come una lenta discesa verso un incubo».
Con i suoi continui avanti e indietro nel tempo, Lacci ha un taglio quasi cinematografico.
«Ma siamo soprattutto di fronte a un’operazione letteraria, quindi al teatro della parola, che si allontana molto dal cinema. La parola regna sovrana e chiede allo spettatore uno sforzo di attenzione. Il testo è un piccolo thrilling casalingo, con un finale a sorpresa. Una cosa che non si vede molto spesso a teatro».
All’opposto, The Young Pope di Paolo Sorrentino, dove interpreta il Cardinale Voiello, ha qualcosa di molto teatrale.
«Con Paolo Sorrentino, la derivazione teatrale di un attore diventa un valore aggiunto. Perché solo un attore teatrale può rendere in certe sue scene. Paolo è stato molto intelligente in questo. Ha portato la densità della comunicazione teatrale al cinema, e adesso anche in televisione».
In The Young Pope diventa quindi fondamentale la scrittura?
«Sorrentino nasce come sceneggiatore. Ha questa felicità di penna, che è una cosa rara da trovare. Allo stesso tempo è il regista italiano più attento all’immagine e alla bellezza dell’inquadratura. La nostra generazione ha messo un po’ da parte l’estetica, preferendo il contenuto: un’inquadratura era bella solo se non si notava. Paolo ha superato questo complesso ed è riuscito ad avvicinare le nuove generazioni, che alle immagini tengono parecchio».
Sembra quasi che le differenze tra cinema, teatro e televisione si stiano assottigliando.
«Si sta creando una forma di prodotto televisivo di alta qualità, che come il teatro è rivolto a un numero ristretto di persone. Intanto la televisione pubblica sta sempre meno attenta alla qualità. E questa è una cosa preoccupante per me».
Trova qualche punto in comune tra il Cardinale Voiello di The Young Pope e il protagonista di Lacci?
«Il cardinale Voiello è un uomo solo, come tutti gli uomini di chiesa. E in questa sua solitudine, sviluppa una forma di dedizione e di amore cristiano. Il protagonista di Lacci, invece, è un uomo che si inaridisce, che prova una forma di malinconia senza desiderio. Forse è nella solitudine che questi due personaggi sono vicini».
L’attore, insomma, è uno studioso dell’umanità.
«Sono parole grosse. Per raccontare l’essere umano, ci vogliono i grandi come Dostoevskij. Noi siamo solo dei piccoli suonatori di fisarmonica: abbiamo uno spartito, e da quello spartito cerchiamo di declinare la nostra memoria, quello che siamo, quella che è la nostra storia, e di metterla al servizio degli altri. Lo studio dell’essere umano, degli esseri umani anzi, è fondamentale. È tutto».
A Dostoevskji, il pubblico forse preferisce qualcosa di più popolare. E più semplice.
«È diventato poco popolare, ma nella scrittura di Dostoevskij non c’è quasi niente di intellettualistico o di barocco; la sua è una scrittura diretta, impegnata. I grandi artisti riescono ad arrivare a tutti. La semplicità è la chiave della comunicazione. È il modo più efficace per arrivare al cuore. Quello che deve venire fuori è l’essenza delle cose, senza sovrastrutture».