Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Yeti
• Nell’autunno del 1980 in una zona montuosa della Cina orientale alcuni ricercatori trovarono piedi e mani di un "uomo selvatico" ben conservati in una scuola della provincia di Zhejiang: un professore di biologia li conservava in una soluzione di acqua e sale dal 1957. Pare che fossero i resti di una creatura uccisa nel 1957 mentre cercava di rapire una bambina da un villaggio sperduto della regione, chiamato Zhuantang. Descrizione dello scimmione sul giornale "Sonyang": giovane, di sesso maschile, coperto di lunghi peli bruni, denti bianchi, sopracciglia, orecchie e lingua identiche a quelle di un uomo. Naso schiacciato, petto ampio e prominente.
• I tibetani hano questa credenza: pensano di discendere da un dio scimmia, incanazione di Tshenrezing che, presa per moglie una donna-demone, ebbe 6 figli tutti con la coda e il corpo coperto da lunghi peli. I bambini vennero nutriti con chicchi di grano benedetti finchè coda e peli non scomparvero. La versione sherpa di questa leggenda parla di una scimmia convertitasi al buddhismo che viveva in eremitaggio sui monti e sposò un demone femmina. I loro discendenti avevano la coda ed erano coperti di peli, si chiamavano yeti.
• In Tibet si crede che lo yeti, chiamato tshemo, tshemong o dremo, porti sfortuna: chi lo incontra e riesce a sopravvivere morirà comunque entro breve tempo. Secondo i racconti degli indigeni, gli tshemo sono una via di mezzo tra orso e uomo, hanno il pelo grigio, nero o fulvo, alcuni sono chiazzati, altri hanno la testa bianca. Per mangiare spostano massi in cerca di topi, o uccidono a sassate capre, pecore e yak. Sono capaci di salire fino al limite delle nevi perenni, portano i cuccioli sulle spalle, socchiudono gli occhi al sole come gli uomini.
• I tibetani considerano impuri tre mestieri: fabbro, macellaio e becchino.
Poiché la religione impone ai tibetani di disfarsi dei cadaveri il più presto possibile, i morti vengono abbandonati agli uccelli (la cremazione è molto costosa). I resti non divorati vengono bruciati o sepolti. Solo i bambini molto piccoli o molto poveri possono essere gettati nel fiume.
• I tibetani usano bere tè sbattuto col burro rancido di yak: ne deriva una bevanda leggermente salata.
• Una volta l’anno gli sherpa implorano le divinità della natura con una festa in maschera di nome ”Mani Rimdu”, che significa "Tutto andrà bene". Tra i personaggi interpretati c’è anche uno yeti.
• Gli sherpa trasmettono la leggenda dello yeti parlando di continuo di yak uccisi con una zampata, di orme gigantesche nella neve, di fanciulle rapite. Attraverso i loro racconti, la leggenda si è propagata all’Occidente. Lo yeti è entrato a far parte dei discorsi dell’uomo comune negli anni Venti e sempre di più via via che il turismo diventava la risorsa principale dei nepalesi. Attualmente nei Paesi industrializzati almeno un miliardo di persone sa cos’è uno yeti.
• Fino al 1986 Lhasa, la città santa del Tibet, è stata pressoché preclusa agli occidentali (ci hanno vissuto soltanto inglesi e il biologo tedesco Schafer ). Ancora all’inizio del secolo due viaggiatori, sorpresi nel tentativo di entrare, furono torturati e uccisi.
• Un mercenario europeo del Quattrocento racconta nelle sue cronache di un essere irsuto e selvatico che vive spostandosi da un luogo all’altro sulle montagne della Mongolia.
• Le prime notizie sullo yeti risalgono ai tempi di Alessandro Magno che nel 326 a. C. si spinse con le sue truppe fino all’attuale Kashmir. Anche Plinio il vecchio annovera nella sua Storia Naturale una creatura simile all”’uomo delle nevi” che vive "sui monti orientali dell’India". Nella mitologia tibetana lo yeti appare per la prima volta nei canti dello yogi Milarepa, vissuto da eremita sull’Himalaya più di mille anni fa.
• Nel 1951 Eric Shipton fotografò una "strana" impronta sul ghiacciaio Melung tra il Tibet e il Nepal. A tutt’oggi è la prova più convincente dell’esistenza dello yeti.
• Reinhold Massner ha indagato sullo yeti dal 1986 al 1998, compiendo lunghissimi viaggi in Himalaya: nel 1991 ha perfino attraversato a piedi il Bhutan per tutta la sua lunghezza. Parlando con sherpa e contadini, monaci e studiosi, è giunto alla conclusione che lo yeti è un orso particolarmente grande intorno al quale si sono concretizzate leggende, miti e credenze. E’ nato così il mito della creatura orribile "l’uomo delle nevi" che per gli occidentali è lo yeti. Secondo Messner, lo yeti è lo tshemo, tshemong, dremo, cioè l’uomo-orso, animale più volte catturato e del quale esistono resti ben conservati. Animale notturno, bruno, (da non confondersi con l"’orso col collare") in via di estinzione, lo tshemo attacca raddrizzandosi su due zampe e cammina facendo attenzione a posare quelle posteriori sulle orme delle anteriori (ciò spiegherebbe perché si è sempre pensato allo "yeti" come a un bipede).
• Il 19 luglio 1986, in Tibet, diretto a Tshagu, Messner scorse nella vegetazione un animale. A confermare la "presenza", un’orma nell’argilla del sentiero che lo scalatore-esploratore fotografò. Messner trovò altre 4 orme proseguendo sul sentiero, pensava potesse essere un orso e che prima o poi avrebbe lasciato impronte anche delle zampe anteriori. Poi, calata la notte, lo vide: la sagoma di un bipede correva tra gli alberi, silenziosa si nascose dietro un albero, poi sbuffò (un suono simile a un sibilo) e si voltò verso l’esploratore che lo descrive così: coperta di fitto pelame, in piedi su due gambe tozze, braccia possenti lunghe fino alle ginocchia, altezza superiore ai due metri. La bestia fuggì correndo a quattro zampe, con agilità.
• Tashi delek: formula di saluto tibetana.