Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Ma chi l’ha detto che il mondo di oggi è troppo tortuoso per il romanzo? Il Foglio 04/08/2005
• Ma chi l’ha detto che il mondo di oggi è troppo tortuoso per il romanzo? Il Foglio 04/08/2005. Sì... oh Dio, sì... il romanzo racconta una storia”. Comprensivo di puntini e invocazione, il gemito di piacere apre le conferenze che Edward Morgan Forster tenne nel 1927 al Trinity College di Cambridge. (Chi non c’era può godersele in ”Aspetti del romanzo”, da Garzanti.) Chiacchierate, più che conferenze. Punzecchiati i critici che classificano gli scrittori in Maggiori, Minori, Buoni-per-una-nota-a-fondo-pagina – ma giammai si abbasserebbero a leggere i libri per diletto – Forster immagina un gruppetto di romanzieri chiusi nella stessa stanza. Penna in mano, aria da scolaretti alle prese con un compito difficile, troviamo Samuel Richardson di ”Pamela” (il romanzo che nelle librerie italiane viaggia con la fascetta ”ha ispirato la serie tv ’Elisa di Rivombrosa’”) nel banco assieme a Henry James.
H. G. Wells della ”Guerra dei mondi” ruba la gomma per cancellare a Charles Dickens. Il reverendo Laurence Sterne scrive il suo ”Vita e avventure di Tristram Shandy, gentiluomo” mettendosi di sbieco per non far copiare Virginia Woolf.
La presenza nella classe morta di Virginia Stephen maritata Woolf (una che viaggia con la fascetta ”ma chi diavolo è Elisa di Rivombrosa?”) incuriosisce. Prima di tutto perché la signora voleva ”una stanza tutta per sé”, e altrettanto pretendeva per le consorelle scribacchine. Il fatto – noto e universalmente riconosciuto – che Jane Austen abbia cominciato e finito ”Orgoglio e pregiudizio” nel salottino della canonica, mentre amici e parenti prendevano il tè (e senza aver mai avuto in vita sua un marito o un fidanzato) non la turba neanche un po’. (Del resto Virginia pensava che Jane fosse ”la più brava tra le femmine”, ovvero la numero uno ma della serie B: insulto da lavare col sangue).
Tre anni prima delle chiacchierate forsteriane, Mrs Woolf aveva sentenziato, nero su bianco e senza possibilità di equivoci, che ”la natura umana è cambiata”. Fissava la data della Grande Mutazione attorno al 1910. Effetto collaterale: la scomparsa dei personaggi e delle trame romanzesche. Il mondo là fuori era troppo complicato e sfuggente per stare dentro una storia con un inizio, una fine, colpi di scena nel mezzo. Detto con parole sue: ”Se uno scrittore fosse un uomo libero e non schiavo, se potesse basare la sua opera su quello che sente e non sulle convenzioni, non ci sarebbe intreccio, né commedia, né tragedia, né amori, né catastrofi”. Se uno scrittore fosse un uomo libero e non schiavo, noi lettori moriremmo di noia. Chi ha voglia di leggere romanzi senza passioni, sciagure, personaggi per cui fare il tifo? Questo direbbe Forster, prima di prendere a borsettate la collega. Intanto, con perfidia, fa sedere l’altera e novecentesca Virginia vicino al pecoreccio e settecentesco Laurence Sterne: la prova provata che il modernismo – e il postmodernismo – non ha inventato nulla. Il romanzo era in culla, e già Sterne si divertiva a tormentarlo. Non in nome dell’imprendibile natura umana (che peraltro solo i romanzi aiutano a sopportare) ma in nome del nobile patto che lega chi scrive a chi legge. Come diceva Swift, i bravi acchiappano il lettore per le orecchie alla prima riga, e non lo mollano fino all’ultima. Se uno riesce a farlo senza un plot, tanto di cappello. Però si contano sulle dita di una mano. Gli altri seguano le regole.
La lagna sul romanzo che non si può più scrivere – signora mia sapesse quant’è inadatto ai tempi nostri, signora mia sapesse quanto è brutto non averci più una società, signora mia sapesse quante pene procura al nostro cuore di maestrine la televisione, rovina dei pupi e dei puponi – fa venir voglia di metter mano alla pistola. Eppur non muore. Intanto, appena dietro l’angolo, giovanotti poco più che ventenni, impermeabili ai classici e bulimici di tv, producono gioielli intitolati ”L’opera struggente di un formidabile genio”.
Volendo fare l’avvocato del diavolo: è sicuro che la Parigi di Balzac e la Londra di Dickens fossero così ben strutturate? Non è che oggi ci sembrano tali perché due tipi tosti si sono sporcati le mani e le hanno raccontate bene? I nostri antenati discorrevano di bisonti attorno al fuoco. Ma il romanzo nasce – diceva Nabokov – il giorno in cui un ragazzo uscì dalla valle di Neanderthal gridando al lupo al lupo, e non c’erano lupi dietro di lui. Se quelli che la fanno meglio la chiamano fiction, un motivo ci sarà. (1.continua)
Mariarosa Mancuso
• Madame Bovary fu uccisa dai brutti romanzi o dalla poesia dei laghi? Il Foglio 05/08/2005. Il romanzo corrompe, la poesia eleva. I romanzi sono un pericolo mortale per le signorine, le poesie sono portatrici di nobili sentimenti. ”Romanzesco” è un insulto. ”Poetico” è un complimento che nessuno nega a nessuno, utile a trarsi d’impiccio in molte situazioni, quando lo scrittore, il pittore, il musicista vogliono sapere cosa pensate della loro ultima fatica: dite la paroletta magica e i loro occhi brilleranno. Con la soddisfazione di chi finalmente è stato capito.
Il romanzo nasce e cresce bastardo, per lo più scritto da gente che non aveva ben deciso cosa fare da grande (Daniel Defoe provò tutti mestieri, Balzac cercò miniere d’argento in Sardegna e legname in Polonia, Cervantes cominciò il ”Don Chisciotte” nel carcere dov’era stato rinchiuso per debiti, dopo aver perso l’uso della mano sinistra in battaglia). La poesia era già lì, e per questo ostenta le sue aristocratiche origini fino allo sfinimento. Se pensate che non sia così, appena vi capitano a tiro più di cinque persone provviste di licenza elementare, fate un esperimento. Provate a dire ”io non leggo romanzi”. Gli astanti vi guarderanno con l’ammirazione che si deve a una personcina seria che non spreca il suo tempo in frivolezze e suda ore sui saggi storici. Provate a dire invece ”io non leggo poesie”: si alzerà un mormorìo di sdegno, quelli seduti accanto a voi sul divano vi scanseranno come un appestato, un analfabeta, uno impervio alle cose che contano davvero. (Vietato ribattere chiedendo: ”Ma quando l’hai letto l’ultimo libro di poesie?”. Sarebbe perfidia, e una signora queste cose non le deve fare per nessun motivo).
I duri e puri non leggono romanzi e tanto basta. Gli smidollati non li leggono per categorie. Frequentali oggi e frequentali domani, risulta che le categorie più gettonate dei romanzi da non leggere sono ”quelli che hanno avuto successo” e ”quelli di cui tutti parlano”. Per essere coerenti, dovrebbero guardare le partite del campionato con due anni di ritardo. I lettori professionali e gli scrittori hanno altre fisime: c’è chi legge solo quelli della sua generazione, o quelli pubblicati da almeno mezzo secolo, o solo quelli scritti in italiano, o solo quelli ripescati dalla pattumiera della letteratura.
Poi arriva uno come Stephen King, mestierante come ce ne sono pochi, e alla fine di ”On Writing” fa la sua lista della spesa in libreria: Charles Dickens e Don DeLillo, Graham Greene e Roddy Doyle, John Irving e William Faulkner. E adesso chi lo va a dire ai cannibali d’Italia che non si produce pulp leggendo solo pulp, o al massimo i romanzi degli amici del baretto? A proposito: avete notato che più brutti sono i libri, più lunghi sono i ringraziamenti? T. S. Eliot se la cava con tre parole, ”al miglior fabbro”, e dire che il ringraziando era Ezra Pound. Qualunque esordiente italiano omaggia le lasagne della mamma e ricorda tutte le ragazze che gliel’hanno fatta sospirare. Se per lo sporco lavoro si trova un volontario, potrebbe per favore anche far sapere in giro che King era bravissimo ma ora non lo è più? Le pagine che ne vantano il talento andavano scritte quindici anni fa.
I poeti possono aver vita difficile, morire di stenti, o essere perseguitati. Ma sono i romanzi a essere vietati. O a scatenare fatwa, come nel caso di Salman Rushdie. Flaubert fu processato per oscenità, dichiarò in tribunale ”Madame Bovary c’est moi”, e alla fine se la cavò. Peggio ha dovuto subire dalle volonterose che hanno cercato di riabilitare Emma, togliendola dalle grinfie dello scrittore bianco, maschilista e pure morto. O dai volonterosi che hanno portato a modello quel noiosone di suo marito. I romanzi sono pericolosi. Sta scritto anche nei romanzi, quindi deve essere vero. Dice Nabokov che Madame Bovary muore ammazzata dai brutti libri. Quelli che Flaubert – bravo scrittore che faticava tre mesi per scrivere una scena di corteggiamento – sbeffeggia così: ”Dame perseguitate in padiglioni solitari, postiglioni trucidati a ogni passo, cavalli fatti scoppiare a ogni pagina, tumulti del cuore, barchette al chiar di luna, usignoli nei boschetti, eroi sempre ben vestiti, virtuosi come non è possibile essere, sempre pronti a piangere come fontane”. Infatti Emma cade tra le braccia di Léon, uno che la conquista con la poesia dei laghi, l’incanto delle cascate, il pianista che va a suonare il pianoforte davanti alle cime sublimi per ispirarsi meglio. Tutto di seconda mano, saputo dal cugino che era stato in Svizzera l’anno prima. (2.continua)
Mariarosa Mancuso
• ”Guerra e pace” doveva chiamarsi ”1825”, ”I fiori del male” hanno rischiato ”Il Limbo”. Il Foglio 06/08/2005. Brighton, autunno 1846. Era una notte buia (e forse tempestosa). Tutti dormivano, lo scrittore dormivegliava. Non è che proprio pensasse al titolo del romanzo che stava scrivendo. Ma poiché il lavoro andava avanti già da parecchi mesi, e vari editori avevano già rifiutato il manoscritto, il tarlo faceva il suo dovere. Forse, disponendo di un titolo nuovo fiammante, si sarebbe potuto riproporlo a qualcuno. Si sa che gli editori leggono distrattamente, oggi come allora. E’ dimostrato. Chi inserisce puntini di colla nelle pagine del manoscritto, per poi gridare allo scandalo quando li ritrova intatti (ecco perché nessuna casa editrice restituisce mai i mallopponi) compri subito ”New Grub Street”, il romanzo che George Gissing scrisse nel 1891. In italiano diventò ”La via della fame”, levando di mezzo il riferimento alla vecchia Grub Street: la strada londinese che Swift e i suoi compagni di caffè satireggiavano perché abitata da stampatori senza scrupoli e da pennivendoli che in dieci giorni scrivevano i seguiti dei romanzi più venduti. Libri chiamati ”literatory”, da ”literature” e ”factory”. Basta per spazzar via tutti i fustigatori di costumi e tutte le cassandre in servizio? O vogliono ancora lamentare come se fosse nuova una cosa già lamentata tre secoli fa?
Lo scrittore che dormivegliava nella stanzetta di Brighton all’improvviso si alzò dal letto gridando come un ossesso: ”Vanity Fair, Vanity Fair, Vanity Fair”. Era William Makepeace Thackeray. Finalmente poteva eliminare i titoli provvisori – ”Romanzo senza eroe” e, dio ne scampi, ”Schizzi a penna e a matita della società inglese” – per un titolo come si deve. Forse hanno successo anche i bei romanzi con i titoli brutti, ma è meglio non rischiare. Per le poesie evidentemente c’è più margine: Jorge Luis Borges fece notare quanto fosse mal riuscito ”Les fleurs du mal”. Vero: come idea di decadenza siamo piuttosto sul versante modista, tanto che la formula è finita nelle canzonette, o forse c’era già, e proprio da lì Baudelaire lo pescò, bisognerebbe verificare. Però era sicuramente peggio il titolo alternativo: ”Il limbo”. Anche Tolstoj arrivò a ”Guerra e pace” provando e riprovando. Prima pensò a ”1825”, perché voleva ambientare il romanzo in quegli anni. Poi a ”1805”, perché gli era venuta l’idea di retrodatare vicende e personaggi all’epoca delle guerre napoleoniche. Poi pensò che i lettori amano il lieto fine, quindi lo shakespeariano ”Tutto è bene quel che finisce bene” sarebbe stato un ottimo titolo per un romanzo che oltretutto gli stava venendo un po’ lungo. ”Rumore bianco” di Don De Lillo avrebbe dovuto chiamarsi ”Panasonic”. Ma la Panasonic minacciò una denuncia (e ancora si morde le dita).
Ma come avrà fatto Tennessee Williams?
’Il titolo viene per ultimo” sostiene Tennessee Williams. Va ascoltato: tra i record vanta ”Un tram che si chiama Desiderio” e ”La gatta sul tetto che scotta”. ”Il titolo viene per primo” sostiene la sfidante Muriel Spark, che se non ha un buon titolo neanche si siede a tavolino. Tra i suoi record, ”The Prime of Miss Jean Brodie”, che a tradurlo va in malora, perché tra ”anni fulgenti” e ”anni in fiore” e ”migliori anni della vita” sfugge il fatto che la signorina Brodie ha passato i quaranta, e la fioritura tardiva fa danni. Potrebbe intervenire come paciere Anthony Burgess. Ma è troppo occupato a chiarire che ”A Clockwork Orange” viene da un modo di dire che nella vecchia Londra significava ”matto come un cavallo”. Accanto a lui il povero Beckett ripete per l’ennesima volta che il suo titolo non ha a che fare con l’Altissimo: ”Se Godot fosse dio, lo avrei chiamato con il suo nome”. Pare venga invece dal Tour de France: Godot era il più lento e vecchio ciclista in gara, transitava quando tutti erano andati a casa. L’altro compare irlandese, quello che voleva ”far scervellare i critici per anni e anni”, invece proprio sul titolo cede. Per il romanzo – o quel che ne resta, non vorremmo far arrabbiare i joyciani fanatici, che come tutti i lettori di un solo libro sono sempre un po’ nervosi – sceglie ”Ulisse”.
Era una notte buia (e forse tempestosa). Snoopy perdonerà. La frase l’aveva già rubata lui. Sottratta a Edward Bulwer-Lytton, per la precisione, famoso per ”Gli ultimi giorni di Pompei”. Il resto è farina del bracchetto e suona così: ”Ad un tratto echeggiò uno sparo. Una porta sbatté. La fanciulla lanciò un grido”. Segue nota dell’autore da cane: ”Tutto questo si chiarirà nel secondo capitolo”. (3.continua)
Mariarosa Mancuso
• Diffidate di un romanziere che non sa catturare il lettore con l’incipit. Il Foglio 10/08/2005. Se uno scrittore sbaglia la prima frase, vuol dire che è inciampato al primo gradino. Diagnosi di Edgar Allan Poe, gran maestro della suspense. E grande dispettoso. Passò una breve vita scrivendo storiacce per le riviste dell’orrore. Mise nell’imbarazzo i direttori delle suddette riviste, che quando leggevano di denti cavati alla cugina morta trovavano la scena troppo macabra (la cugina per la verità non era morta morta, solo in catalessi). Poi decise di buttarsi in poesia e scrisse ”Il corvo”. Quando tutti lodarono la malinconica bellezza dei suoi versi, fece sapere in giro che il poemetto non era ispirato dalla musa bensì fatto a macchina, scegliendo i tasselli e combinandoli per ottenere la massima cupaggine. Una bella ragazza defunta (di nuovo). I rintocchi fatali. La tenda che svolazza. I cuscini viola. L’uccellaccio nero che ripete il suo verso.
Convinto che la letteratura dovesse colpire (alla testa, al cuore, allo stomaco, dove volete voi, ma comunque colpire) Poe invitava a tagliar corto. La storia perfetta si dovrebbe poter leggere in una sola seduta, diciamo un paio d’ore. In questo era fanatico: esistono romanzieri bravi che i racconti proprio non li sanno scrivere (una è Patricia Highsmith). Però sul primo gradino aveva ragione. Perché dovremmo leggere un romanzo che inizia ”Il 1° luglio 1998 cadeva di mercoledì.”? Quali sono le promesse, le lusinghe, le avance che un lettore desideroso di molestie romanzesche possa ricavarne? Nessuna. Infatti il romanzo si intitola ”Le particelle elementari”, lo ha scritto un francese malmostoso che di nome fa Michel Houellebecq. Non solo è noioso (colpa grave). E’ anche impegnato (colpa ancora più grave). Spiega come va il mondo e indulge al porno d’autore (non ci avrà).
Perché dovremmo leggere un romanzo che comincia così: ”La creatura sgraziata che mi viene incontro dallo specchio ombrato dell’ingresso, che separa la cucina dal bagno, e quella dalla stanza del divano, sono io”. Le lusinghe ci sarebbero, ma del tipo che fa fuggire. Camera e cucina per cominciare, e noi romanzescamente parlando siamo snob: o villa o bassifondi, ma il tinello no. (A proposito: perché gli scrittori italiani, tanto affezionati alla cameretta, non ne scelgono mai una marca Aiazzone? Potremmo cedere e finalmente leggerli.) Lo specchio è detto ”ombrato”, aggettivo irritante e stantio. Poi c’è il giochino, in pericoloso bilico tra sublime e il ridicolo, del guardarsi-allo-specchio-e-non-riconoscersi. Continuare a leggere sarebbe come farsi invitare in camera da Mike Tyson, e poi lagnarsi per quel che accade. Infatti nel seguito arrivano ciabatte, vestaglia, capelli spettinati, altri aggettivi polverosi. Bonus: il libro è uscito postumo. Essendo i critici molto più necrofili di Poe – la sconosciuta morta giovane fa punti – ”Passaggio in ombra” è diventato un caso letterario, con uso di Premio Strega.
Le avance preferiamo farcele fare da Henry Fielding, romanziere a tempo perso. Avvocato e magistrato, nel 1750 fondò insieme al fratellastro John la prima forza di polizia londinese, i Bow Street Runners (per Scotland Yard bisogna aspettare il 1829). Ecco la caramellina: ”Un autore dovrebbe considerarsi non un gentiluomo che offre un pranzo o accoglie gente in casa sua per carità, ma piuttosto come chi gestisce una locanda, nella quale si fa buon viso a tutti per il loro denaro”. Evviva: parla di soldi, e non di ispirazione. Continua dicendo che nel primo caso gli ospiti devono mandar giù quel che c’è, salvo poi mugugnare quando vanno a casa. Nel secondo, l’oste deve tener conto dei gusti del lettore-padrone, che paga e vuol essere sollazzato. (Va da sé che gli osti al tempo del ”Tom Jones” erano tipi simpatici e senza la puzza al naso).
Preferiamo le avance di Jonathan Coe: ”La tragedia s’era già abbattuta due volte sulla famiglia Winshaw, ma mai in proporzioni così terribili”. O di Michel Faber, vittoriano di seconda generazione (con Sarah Waters, Peter Ackroyd, Margaret Atwood, il Peter Carey che riscrive ”Grandi speranze” dalla parte del forzato): ”Attento. Tieni la testa a posto: ti servirà”. O di Kafka, da usare come arma contundente contro chi sostiene che il cinema farà sparire il romanzo perché corre più veloce: ”Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso.” Sette secondi, anche qualcosa di meno. Se un regista ci vuol provare, la sfida è aperta. Non vale la voce fuori campo.
(4.continua)
Mariarosa Mancuso
• Titolare un capitolo è importante come scriverlo (ma più divertente). Il Foglio 11/08/2005. Se il romanziere è un oste che le pensa tutte per sollazzare i suoi lettori, i titoli dei capitoli stanno in luogo del menu. Meglio quindi bandire gli orribili ”capitolo primo” e ”capitolo secondo”, per congegnare qualcosa di più allettante. Henry Fielding, che stabilisce la regola, predica bene e razzola benissimo. La pagina dell’indice è un mini-romanzo, che salva la suspense ma fa sbavare chiunque non sia morto (chi è stanco di ”Tom Jones” è stanco della vita, ammonirebbe Samuel Johnson). Troviamo titoli che anticipano quel che accadrà: ”Breve descrizione di Allworthy, gentiluomo”, oppure ”Un terribile incidente capitato a Sophia”. Troviamo titoli autopromozionali: ”Un capitolo meravigliosamente lungo sul fantastico”. Troviamo titoli allarmanti, come i peperoncini che segnalano la piccantezza nei ristoranti indiani: ”Il lettore rischia di rompersi l’osso del collo per colpa di una descrizione”. Infatti nel capitolo in questione siamo condotti a passeggiare in cima a una collina, per poi scoprire che la scena successiva si svolge da tutt’altra parte. Lo scrittore mette fretta – in quei tempi felici la lentezza non era un valore – e se inciampiamo declina ogni responsabilità.
’Tom Jones” esce nel 1749. Non inventa niente. Cervantes sapeva già tutto nel 1605, quando scrive il ”Don Chisciotte”, e titola sfacciatamente ”Un capitolo che parla di molte grandi cose”, oppure ”Cose che riguardano questa storia e non un’altra”. Tobias Smollett, nelle ”Avventure di Roderick Random” (picaresco ma scozzese e marinaro), titola il capitolo due con un ”prossimamente” in quattro righe così congegnato: ”Cresco – Odiato dai miei parenti – Mandato a scuola – Trascurato da mio nonno – Maltrattato dal maestro – Temprato dalle avversità – Organizzo congiure contro il Pedante – Mi è precluso l’accesso al nonno – Perseguitato dal suo erede – Spacco i denti al suo tutore”. A leggerlo adesso – quando scrivere con il contagocce, pubblicare con caratteri da miopi, lasciare enormi margini bianchi trasforma uno scrittore senza idee in uno scrittore profondo – fa sognare.
Il fatto è che gli scrittori del Settecento non erano smunti e cagionevoli. Erano tipi tosti e muscolosi, come se già si allenassero per il micidiale ”three decker book”, il romanzo a tre strati che fece la fortuna delle biblioteche circolanti britanniche (prestavano le tre parti a tre diversi lettori). La moda del mattone finì per minare la salute dei romanzieri ottocenteschi, costretti a farsi di laudano, a bere litri di caffè, a sobbarcarsi micidiali tour di letture. L’unico che sopravvisse indenne al tritatutto della macchina editoriale fu Anthony Trollope: non lasciando mai l’impiego alle poste (fu lui a inventare la buca per le lettere) di romanzi ne scrisse 47. Tutti lunghisssimi. Tutti con tanti brevi capitoli irresistibilmente titolati, dal classico ”L’amore regnava ancora sovrano” al camp ”E’ orribile, ecco cosa!”.
Prima di titolarli, i capitoli bisogna saperli tagliare. Nel difficile compito si applicava perfino Henry James, romanziere poco tenero con i piaceri altrui in generale – detestava Flaubert perché lo aveva ricevuto in vestaglia – e dei lettori in particolare. Va detto a sua scusante che scriveva come parlava, con incisi e frasi a cascata. I domestici erano disperati: ogni semplice richiesta veniva così puntigliosamente formulata da richiedere almeno tre minuti. Possiamo sempre contare su James per un finale di capitolo che, compensando le molte pagine saltate, ci rimetta in pari col successivo.
’Non è una vergogna scrivere due capitoli descrivendo ciò che è accaduto scendendo due rampe di scale?”. Sarà mica un critico incazzato con il nouveau roman? No: il nouveau roman i critici lo adorano, perché si può dibatterne senza leggerlo. E’ il reverendo Laurence Sterne, che nel ”Tristram Shandy” i capitoli li apre e li chiude a caso. Li usa per sgridare le lettrici: ”Come avete potuto, signora, essere così disattenta leggendo l’ultimo capitolo?”. Scrive un capitolo sui capitoli, gemellata con la ”Digressione sulle digressioni” di Jonathan Swift. A entrambi sarebbe piaciuto Faulkner, che divide ”L’urlo e il furore” in quattro sezioni, ognuna titolata con il nome del narratore (uno demente). Astuto disegno, celeste geometria, tour de force sperimentale? ”No”, rispose Faulkner. ”Ho riscritto la medesima storia quattro volte perché le prime tre non erano venute bene”. (5.continua)
Mariarosa Mancuso
• L’insopportabile scrittore dell’Opificio di Letteratura Potenziale. Il Foglio 12/08/2005. Interrogato su quando, dove e come scrive, il romanziere italiano fa una smorfia. Dice che non sa, che non c’è una precisa routine, che dipende dai giorni, che dipende dall’umore, che dipende dal clima, che dipende dalla luce (mai da cose banali come i calli). Non dice (però lo pensa) che scrivere comporta tutto un complesso di cose tragicamente fuori portata per l’intervistatore capace di domande tanto stupide. Se proprio viene costretto – niente risposte, niente intervista – fornisce qualche stentata notiziola, ma si capisce che vorrebbe essere interrogato su tutt’altro. Sugli ultimi incontri clandestini avuti con Madama Letteratura. Su quel giorno fausto che – piccino ancora – scoprì di avere il talento che lo avrebbe condotto a vincere il concorso delle medie per il miglior componimento. Sulla molla che lo spinse in seguito a metter su un premio letterario tutto suo. Da assegnare a qualcuno che poi ricambierà il favore, in una lunga catena infernale di complimentose cortesie. Tranne che verso il lettore.
Gli Ispirati sono insopportabili. Lo sono altrettanto quelli all’altro estremo. Quelli che i romanzi o i racconti, invece di farli a mano, li vogliono fabbricare a macchina. Quelli che escogitano una regoletta, la applicano, e ammirano soddisfatti il risultato, mostrandolo agli ingegneri loro amici. Se state pensando ai bestseller – i romanzi che tutti amano odiare – siete fuori strada. I bestseller sono fatti con il sudore della fronte, puzzano, patiscono il mal di schiena, risentono della miopia che viene dopo troppe ore al computer. La letteratura fatta a macchina gira per il mondo con il marchio Oulipo, Ouvroir de Littérature Potentielle. Nacque il 24 novembre 1960, in uno scantinato di Parigi (Opificio di Letteratura Potenziale per i soci italiani, che hanno inaugurato la succursale nel 1990). Tra i soci fondatori c’era Raymond Queneau, poi arrivarono Georges Perec e Jacques Roubaud, seguiti da Italo Calvino e Umberto Eco. Imperavano lo strutturalismo e l’operaismo, mistura fatale se mai ce n’è stata una. L’opificio si riuniva regolarmente, le macchine sfornavano romanzi intitolati ”La disparition”: un giallo sulla scomparsa di qualcosa che poi si scopre essere la lettera ”e”, compilato senza mai usare la lettera ”e”.
Si usa attribuire all’olio motore marca Oulipo ”La vita. Istruzioni per l’uso”, il romanzo che Perec scrisse nel 1978. Scena: un palazzo parigino senza facciata, usato come se fosse una scacchiera. Ogni stanza, cantina, mansarda ha il suo inquilino e la sua storia. Lo scrittore si muove secondo la mossa del cavallo (che ai letterati piace da impazzire, mica possono avanzare un passetto alla volta come un banale pedone) e le racconta una dopo l’altra. Geniale, grandioso, addirittura ”l’ultimo grande avvenimento nella storia del romanzo” scrisse Italo Calvino. Che ogni tanto sonnecchiava. O forse voleva tirar la volata al compagnuccio della parrocchietta. Ma come? E il povero Emile Zola, che a mano e senza ausili meccanici nel 1882 aveva scritto ”Pot-Bouille”, dove lo mettiamo? Il romanzo – ”Quel che bolle in pentola” – racconta la vita degli abitanti di un caseggiato parigino. Cominciando dalla madre che vuol sposare le figlie bruttine e le rimprovera perché all’ultimo ballo hanno inzaccherato un paio di scarpine, non raccattato neppure un corteggiatore, e vorrebbero pure spendere soldi per la carrozza. Finendo – dopo mille altri intrighi e pettegolezzi – con il giovane in carriera che corteggia la ricca vedova, proprietaria del grande magazzino a fianco, ma non sdegna una sveltina con la commessa del sottotetto.
E’ sicuramente attribuibile all’olio motore Oulipo anche ”Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Il romanzo continuamente interrotto che nel 1979 spazzò via – e il modo ancor ci offende ”il Calvino del ”Barone rampante”, del ”Cavaliere inesistente” di ”Ti con Zero”. Il romanzo continuamente interrotto dove il Lettore si innamora della Lettrice. Ma prima di sposarla, e vivere felice assieme a lei (speriamo, leggendo romanzi con un bel finale, o anche un finale qualunque, chi apre una storia per favore la chiuda) deve vedersela con la versione chic del Codice da Vinci. Bisogna infatti smascherare una setta mondiale della letteratura apocrifa, che produce falsi Calvino. A macchina. Cento pezzi l’ora garantiti dal controllo qualità.
(6.continua)
Mariarosa Mancuso
• L’antieroe ci rovina. Il Foglio 13/08/2005. "Per fare un personaggio di romanzo servono almeno dodici persone vere”, calcolava Norman Douglas. Uno che, a giudicare dalla sua autobiografia, di gente simpatica, o interessante quando antipatica, in ogni caso di ottima conversazione, ne aveva conosciuta parecchia, quando girava il mondo prima di stabilirsi a Capri. Per questo, le notizie sulla vacillante salute del personaggio romanzesco irritano almeno quanto i ditini alzati sull’inutilità della trama, buona solo per le sciampiste che vogliono sapere ”come va a finire”.
I primi starnuti sono arrivati con l’antieroe, che però quando funziona non distrugge il conteggio di Douglas ma lo rafforza. Oblomov da Pietroburgo non esce mai di casa, fa fatica perfino a infilarsi la vestaglia, quando finalmente si decide a scrivere una lettera combatte con i ”che” e i ”quale”, finché straccia il foglio e impigrisce per altre centinaia di pagine. Se in natura esistessero pigri tanto pigri, il romanzo non sarebbe mai stato inventato. Invece i pigri che conosciamo sono pigri soltanto a metà. Anzi, a un dodicesimo, secondo i calcoli di Douglas.
Le febbricole arrivano con ”L’uomo senza qualità”. Ma Musil è così lento a spiegarsi che siamo rimasti vittime della sindrome di Stoccolma che lega i carcerati ai carcerieri. Colpa degli amici che consigliavano: basta superare le prime cento pagine. Oppure: vedrai che delizia quando arriva la sorella Agathe. Noi intanto ci eravamo incapricciati del serial killer Moosbrugger, quindi qualcosina l’abbiamo portata a casa comunque. Del resto, cosa potevamo aspettarci da un romanziere che nella prima frase tira in ballo le isoterme e le isòtere, il minimo barometrico, le fasi della luna, e va avanti per sette righe in gergo da colonnelli del meteo prima di arrivare al dunque: ”Era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913”.
William Makepeace Thackeray fece fatica a trovare un titolo, ma la sua Becky Sharp – perfetta anche nel cognome – si fa adorare appena scaraventa il ”Dizionario” di Samuel Johnson dal finestrino della carrozza che la porta dal collegio per signorine di Miss Pinkerton verso Londra. Il volume lo aveva avuto in dono Amelia, studentessa pagante, mentre Becky era in cambio merce: dava lezioni di francese in cambio della retta. E Amelia doveva essere la protagonista della Fiera delle vanità”. Ma lo scrittore se ne disamora subito, ancor prima del promesso sposo George Osborne. Quindi aggiusta il tiro, puntata dopo puntata, tenendo in conto anche le reazioni del pubblico leggente. La sciocca fanciulla facile alle lacrime e piena di virtù domestiche lascia la scena a una cattiva con picchi di stronzaggine, che piange solo per finta. E’ il bello del feuilleton. Anzi, di tutte le storie di cui ci importa qualcosa. Sotto sotto – e neanche tanto sotto sotto – i personaggi ben fatti provocano reazioni da sceneggiata napoletana: quando il pubblico in sala urla ”attento!” al bravo giovanotto, mentre malamente esce dalle quinte con il pugnale in mano.
Delirio d’ipotesi: ”Ulisse” a puntate
I modernisti non sanno cosa si perdono. Difficile immaginare che ”Mrs Dalloway” o ”Gita al faro”, per delirio d’ipotesi pubblicati a puntate (lo sappiamo, si fa peccato anche solo a pensarlo, mica è Colette con la sua Claudine), potessero essere corretti in corsa. Difficile immaginare che l’’Ulisse”, per delirio d’ipotesi pubblicato a puntate (lo sappiamo, questo è sacrilegio, ma tanto vale espiare con lo sconto quantità), potesse suscitare morti e feriti tra i lettori, desiderosi di accaparrarsi la puntata in arrivo. Accadde invece con i romanzi di Dickens, che pure questo ha sulla coscienza. Oltre le nostre notti insonni. E dire che qualcuno – nella Londra che in quegli anni era il paradiso in terra dei romanzieri – vendeva più copie di lui. Era l’amico e rivale Wilkie Collins, con ”La donna in bianco”. Protagonista: una madamigella scappata da un manicomio e molto perseguitata. Giustizia romanzesca, se non divina: per Dickens le femmine, se non morivano da piccole, erano un mistero.
Edith Warthon, snob e beneducata, si irritava con gli amici che le dicevano: ”Quel personaggio del tuo ultimo romanzo somiglia terribilmente a tua zia Harriet”. Colpa di un trauma patito da ragazzina, quando fece leggere a sua madre un racconto che cominciava così: ”La padrona di casa aveva fatto rimettere in ordine il salotto”. La mamma non andò oltre, e restituì schifata il manoscritto. Commentando: ”I salotti non sono mai in disordine”.
(7. continua)
Mariarosa Mancuso
• Banconi d’emporio. Il Foglio 17/08/2005. Si chiama ”research”. Lo diciamo in inglese, perché i romanzieri italiani d’oggi (in buona compagnia dei francesi) la praticano poco: scrivono di sé, della nonna, della fidanzata, del paesello natio dove tornano volentieri per lenire le malinconie procurate dal superamento della linea d’ombra. Lo diciamo in inglese perché gli anglosassoni la praticano e ci ridono sopra. E’ ”research” quando uno fissa per anni il foglio bianco, dopo che il primo romanzo ha fatto il botto, e per il secondo non viene l’idea. E’ ”research” quando uno bazzica i bordelli, le fumerie d’oppio, i bassifondi, le mogli degli amici, non per piacer suo ma per ricavarne materiale.
E’ ”research” quando uno impara tutto sulle fabbriche di Newark che cucivano i guanti indossati da Jacqueline Kennedy. Lo ha fatto Philip Roth per ”Pastorale americana”, che tra i suoi molti meriti ebbe quello di rivelarci i segreti della lanzetta: la losanga cucita tra pollice e indice, perché la mano umana ha il ditone opponibile, e nessuno lo sa meglio del guantaio. Balzac non ebbe bisogno di ricerche per la stamperia di Angoulême, nelle ”Illusioni perdute” (fu tipografo in gioventù, e proprietario di una fonderia che fabbricava caratteri da stampa). Le fece di sicuro per raccontare César Birotteau, profumiere e inventore dell’unica, insuperabile – venghino signori! – lozione per la ricrescita dei capelli.
Il campione fu mile Zola, nonno dei futuri romanzieri da supermercato e da centro commerciale. (Ebbene sì: i ”non luoghi” erano romanzescamente frequentati prima che i sociologi nascessero). I grandi magazzini parigini erano nuovi di zecca, sui boulevard tracciati da Haussman. Lui già riempiva pagine di appunti sul broccato, il satin, la vigogna, il calicò, il percalle, le telerie di Fiandra e d’Irlanda. Osservava l’allestimento delle vetrine: i colori devono accecare, bisogna mandare a casa le clienti con il bruciore agli occhi, mica il bugigattolo nero, umido, polveroso – giusto in uno dei passage che sarebbero piaciuti tanto a Walter Benjamin – di ”Teresa Raquin”. S’informava sull’illuminazione, sulle tecniche di vendita, sul convitto dov’erano alloggiate le commesse venute dalla provincia, sulla merceria dietro l’angolo costretta a chiudere i battenti, sulla novità del prezzo fisso, sugli effetti della réclame. Disegnava le piantine dei reparti e gli schemi degli assortimenti stagionali. Ricavandone, nel 1882, un fantastico romanzo intitolato ”Al paradiso delle signore”.’Socialisme dans la bonne acception du terme” stava scritto nel 1900 sul volantino pubblicitario che annunciava i bassi prezzi del Bon Marché, l’emporio preso a modello da Zola. Il romanziere aggiunge una bella trama – amorazzi, tradimenti, spionaggio industriale, cadavere sospetto – ma al centro c’è il meraviglioso meccanismo che porta sui banconi montagne di merci. La stessa magia raccontata da Adam Smith nella ”Ricchezza delle nazioni”: se ognuno dovesse fabbricare da sé gli spilli che gli servono sprecherebbe una vita intera. Se qualcuno si prende la briga di estrarre il metallo, e qualcun altro di fonderlo, e qualcun altro fa le punte, e qualcun altro le capocchie – tutti guadagnandoci – possiamo adoperare tutti gli spilli che vogliamo e avanza pure il tempo per leggere romanzi. Zola racconta il lusso all’epoca della sua democratizzazione. Racconta le femmine che s’accapigliano per comprare mussole, sete, merletti alla primissima fiera del bianco, spiegata in diretta da un geniale ex commesso ora megadirettore galattico, che non potendo conquistare la commessa dei suoi sogni (povera ma cocciutamente onesta) cerca di farsi tutte le clienti, testimone il registratore di cassa.
Galeotto fu il reclamo
Che sia questione di seduzione, viene chiarito subito: la signora che prova i guanti di Sassonia è turbata dall’afrore selvatico del pellame, uguale a ”una bestia in amore caduta nella scatola della cipria”. Galeotti anche i reclami: ”la moglie di un architetto gli era caduta tra le braccia il pomeriggio che era andato a casa sua per un errore di metratura”. Le cleptomani perdono i sensi appena colte sul fatto. Roba da femmine? Non disperate. Buttatevi sul banco dei formaggi nel ”Ventre di Parigi”. Tra le lune di brie, i roquefort marezzati, e il reparto dei puzzolenti: camembert che odorano di selvaggina frolla, livarot che prendono alla gola con i loro vapori sulfurei.
Mariarosa Mancuso
• Tic, intrighi e rivalità tra scrittori piagnoni (e i figli ne fanno le spese). Il Foglio 18/08/2005. Non è che uno debba per forza frugare tra le cotonine alla fiera del bianco, o sfogliare i calendarietti dei parrucchieri che usavano l’olio di nocciola come brillantina o indagare sull’arte perduta dei guantai. Potrebbe raccontare quel che sa meglio: l’orrenda fatica per arrivare in fondo alla pagina. Però la deve contar giusta. Non ne possiamo più di nobili signorini che invece di provare seriamente a fare un romanzo ricamano sugli smaneggi. E il romanzo finito sarà esattamente la misera cosa che stiamo cercando di leggere, presi dall’abbiocco già a pagina 4: un piattino dissociato come il minestrone di Ferran Adrià, ogni verdura separata dalle altre, perché di godere non se ne parla, e la nuova sapienza culinaria o letteraria sta nel reinventare non l’acqua calda bensì l’acqua fredda. Noiose pagine continuamente interrotte su uno scrittore che, mentre l’Ispirazione Veglia Benevola su di Lui, strizza l’occhio alla Musa dell’Avanguardia. A noi piacciono ignobili. Per esempio Martin Amis, che racconta il suo ombelico, e un po’ anche la sua disastrosa dentatura – con digressioni su ”Pnin” di Nabokov, gengivone felice con la nuova dentiera nel bicchiere, e su James Joyce, che disse: ”I miei denti sono marci come le mie ambizioni” – senza ripulirli. E intasca un anticipo di 500.000 sterline. Scena madre, un tremendo scapaccione. Si abbatte una domenica mattina sulla testa del piccolo Marco Tull, a pagina 36 di ”L’informazione”. Scenata da raccontare vent’anni dopo allo psicoanalista, che scomoderà per l’occasione l’incolpevole Edipo. Falsa pista: lo sganassone parte quando papà Richard Tull, romanziere, scopre che il rivale Gwyn Barry è entrato nella classifica dei best seller.
Richard è un concentrato dei romanzieri più ostinati che talentuosi. Sappiamo che ha quarant’anni e un grande avvenire dietro le spalle (è inglese, lì si svegliano prima, gli esordienti sopra i trenta sono considerati primipare attempate). Nessuno tra i recensori aveva capito né finito il primo romanzo, dall’orrendo titolo ”Premeditazione”. Ma nessuno era disposto a giurare che fosse uno schifo. Scrive un secondo romanzo, dal titolo ugualmente imbarazzante: ”I sogni non significano nulla”. Gli americani girano le spalle e non lo pubblicano. Il terzo non lo pubblicano neanche gli inglesi. Quarto e quinto idem. L’ultimo tentativo si intitola ”Senza titolo”, ci fa un pisolino sopra anche l’agente. Sfiga vuole che l’amico del cuore Gwyn Barry, dopo la solita autobiografia camuffata da libro d’esordio, pubblichi un romanzo intitolato ”Amelior”. Richard, che intanto campa scrivendo recensioni (adotta la teoria del Critico come Buttafuori, quindi distrugge tutto quel che legge), quando se lo trova tra le mani sghignazza per ”l’ingenua pomposità dei punti e virgola”. Quando lo ritrova in classifica, fa esattamente – Enzo Jannacci dixit – ”quelli che quando perde l’Inter o il Milan dicono che in fondo è una partita di calcio, poi vanno a casa e picchiano i figli”. Lo splendore del romanzo – aperto da una frase che fa cadere in ginocchio da quanto è bella: ”In città di notte ci sono uomini che piangono nel sonno, e poi dicono: Niente. Non è niente.” – sta nel fatto che i rivali sono entrambi insopportabili. L’intellettuale, ma anche il bestsellerista, che paragona la scrittura alla falegnameria. ”Si scalpella, si pialla, si smeriglia”, dichiara nelle interviste. Se avete visto uno scrittore italiano di buona famiglia che mostra fiero le sue mani callose da muratore, sapete l’effetto che fa. Ignobile è William Somerset Maugham, quando racconta Alroy Kear. ”Nessuno aveva raggiunto una posizione tanto ragguardevole con così poco talento”: questa l’entrata in scena, nel ”Filo del rasoio”. Il nostro arranca nello scrivere, ma non quando invita i critici al ristorante del Savoy (sotto le stanze dove Oscar Wilde si rotolava nelle lenzuola con Bosie, finché un cameriere portò le prove in tribunale). Ordina ostriche e champagne per il recensore che certamente ”vedrà nel suo lavoro futuro progressi notevolissimi”. Meravigliose le pagine dove il romanziere di successo va a trovare l’amico di gioventù sempre respinto dagli editori. Mentre la stufa a gas della soffitta gli arrostisce i piedi, lasciando le mani gelate, l’uomo baciato dalla fortuna editoriale – per pura educazione – parla con understatement del proprio lavoro. E scopre con un certo disappunto che l’opinione dell’ospite coincide con la sua.
(9.continua)
Mariarosa Mancuso
• L’insopportabile morte della più fascinosa tra le femmine di carta . Il Foglio 19/08/2005. La smania che assale le femmine alla vista di sete e taffetà sui banconi del ”Paradiso delle Signore” ha la sua controparte maschile quando Nanà, al Théâtre des Variétés, entra in scena vestita da Venere. La starlette di cui tutta Parigi chiacchiera da una settimana si presenta nuda e marmorea sotto un velo. Forse un po’ pingue, per gli standard di oggi. Ma bionda naturale: quando alzava le braccia, scrive Zola – che aveva fatto ricerche sulle cocotte interrogando gli amici, e appuntando furiosamente orari, luoghi di perdizione, rivalità, carriere – ”le luci della ribalta illuminavano i peli d’oro delle sue ascelle”. Lo spettacolo è tra quelli che almeno una volta nella vita vorremmo vedere: una fantasia musicale sugli dei dell’Olimpo, affaccendati in faccende scoperecce su panchine coperte di muschio, mentre la platea reclama il pezzo forte: ”Il coro dei cornuti... il coro dei cornuti!” Finché arriva Nanà. Mentre tutti puntano i binocoli su di lei, il romanziere si sacrifica per la nostra delizia e osserva il pubblico: un conte sta con la bocca aperta, il viso cosparso di macchie rosse, un marchese fa gli occhi di gatto, un certo Daguenet ha l’aria ”del mezzano che ammira una giumenta perfetta”, sulle nuche i peli si drizzano, i capelli si appiccicano alle teste sudate. Non pago di una carnalità tanto sfacciata, Zola insiste sugli odori (che i britannici, romanzescamente parlando, scopriranno con ”Il ritratto di Dorian Gray” e i suoi fiori putrescenti). Anche quando fa morire la sua cortigiana tra i miasmi del vaiolo. Cedimento tardivo al ”crimine che non paga”: una fanciulla miserabile, già viziosa a sei anni, che da grande si fa mantenere tra salotti orientali e pelli d’orso bianco, mica può finire con i confetti.
Poco male, basta saltare le ultime pagine. Tanto quel che ci interessava sapere è già successo. Con la stessa certezza di essere nel giusto abbiamo saltato le ultime pagine delle ”Liaisons dangereuses”. A noi creature sensibili, la morte per vaiolo della più fascinosa tra le femmine di carta – giudizio non negoziabile: scompaiano le natasce, le karenine, le madame chauchat, madame bovary e isabel archer non contano perché sceme – risulta insopportabile. La marchesa di Merteuil nasce armata dalla testa di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos. Un nom de plume sarebbe stato utile. Ma il nostro faceva l’ufficiale di artiglieria, quindi non si diede la pena. Padre di famiglia, innamoratissimo della consorte, scrisse un solo romanzo. Lo fece seguendo la moda del tempo, che adorava gli scambi di lettere: davano la sensazione del pettegolezzo in diretta, erano utili per ritardare i colpi di scena, funzionavano splendidamente nel gioco degli inganni.
D’altro non si tratta. Per conquistare l’inaccessibile Tourvel, il puttaniere Valmont mette su la seguente scenetta campagnola. Trovato nei dintorni un povero a rischio di sfratto, si presenta all’ora giusta e paga l’esattore, sicuro che la devotissima signora lo verrà a sapere (la bella non ha intenzione di concedersi, ma prende comunque le sue informazioni mettendogli una spia alle calcagna). Mezzucci, commenta la Merteuil, che è stata l’amante di Valmont, e che in una lettera precedente ha liquidato la rivale (sempre rivale è, non importa quanto poco un uomo ormai ti interessi) con poche e precise parole: ”Impacchettata di scialli, con il busto che le sale fino al mento”. E che vergogna, per un libertino, avere un marito come rivale! Mezzucci, commenta la Merteuil, espertissima nella dissimulazione disonesta. Se ha un dispiacere, finge felicità. Se in un salotto le interessa un uomo, ne guarda un altro. Ecco da dove viene, rivela all’ex amante, ”lo sguardo distratto che spesso mi avete lodato”. Da giovane vedova, legge romanzi (per capire quel che si può fare), filosofi (per capire quel che si deve pensare) e moralisti (per capire quel che bisogna sembrare). Concentra i suoi sforzi sul terzo punto, l’unico difficile. Vede in pubblico solo i corteggiatori che non le piacciono, ricavandone la fama di inespugnabile. Intanto macina amanti, tesse intrighi, conduce fanciulle alla perdizione (per conto terzi, e consolandone le madri). A Valmont che vuole una rimpatriata, risponde: solo dopo che ti sarai portato a letto la Tourvel. E chiede le prove dell’avvenuta seduzione, nero su bianco. Una lettera viene composta usando come scrittoio il culo dell’amante. La gatta morta Tourvel riempie paginate intrise di lacrime, tutte variazioni sul tema ”non dovremmo scriverci”. Segno sicuro che sta per cedere.
(10. continua)
Mariarosa Mancuso
• L’aiutino in pillole. Il Foglio 20/08/2005. I rockettari invocano ”a little help of my friends”. Anche la dura lotta per costringere le parole a comportarsi bene – copyright Anthony Burgess, che si mise a scrivere romanzi su romanzi perché gli avevano diagnosticato un tumore al cervello, e non voleva lasciare la consorte in miseria – richiede gli aiutini: pasticche, pipe e sigarette, tintura di laudano, mescalina, visite all’armadietto dei medicinali per procacciarsi etere e morfina. Balzac si teneva in piedi con il caffè, oltre a berlo lo mangiucchiava fresco di macinino (gli faceva l’effetto che oggi farebbero le anfetamine). A furia di darci dentro forse ne morì. Poe fu ritrovato su un marciapiede di Baltimora in coma alcolico: giaceva lì da quattro giorni, nessuno immaginava chi fosse, pareva un barbone da affidare alla Lega della Temperanza. Il macho Hemingway stava al bar tanto a lungo che diventò un’attrazione per i turisti di passaggio. Durante un viaggio in treno assieme alla prima signora Hemingway, la caccia al drink gli costò la perdita di vari manoscritti. Capitò anche a Malcolm Lowry, che oltre alla bottiglia amava una moglie distratta: se non smarriva le carte lui, gliele perdeva lei, oppure bruciavano nell’incendio delle loro case (’Traghetto per Gabriola”, la storia della loro vita, registra più combustioni spontanee di qualsiasi altro romanzo). L’asmatico Marcel Proust prendeva il Veronal per riuscire a dormire (e mandava le lenzuola sempre nella stessa lavanderia, l’unica che non gli procurasse l’orticaria). William Burroughs, che aveva cominciato a fumar l’oppio in collegio (si svegliava di notte, l’infermiera glielo consigliò contro i brutti sogni), ammazzò l’adorata moglie Joan giocando a Gugliemo Tell: lei con la mela in testa, lui scagliava le frecce, l’ideale per gente che a malapena si reggeva in piedi. Aldous Huxley bevve un po’ di mescalina sciolta nell’acqua, guardò la piega dei suoi pantaloni, e annotò che gli si era svelato ”il mistero glorioso della flanella grigia”. In punto di morte, quando non riusciva più a parlare, prese un foglietto e scrisse: ”Lsd, 10 microgrammi, intramuscolo”. ”Sister Morphine” ha la sua antenata in ”La Comtesse Morphine”, romanzo del 1885 firmato Mallat de Bassillan. Vale la pena di essere letto solo per imparar tutto sulle siringhe, accessorio indispensabile a ogni signora elegante. Ce n’erano ornate di rubini, d’argento a torciglioni, in oro martellato. La donna che nel secolo scorso si sarebbe presa un amante, ora ricorre a una puntura di morfina, commentano i moralisti. Il rito è pubblico, alle feste e nei salotti: ai tempi in cui mostrar la caviglia era impensabile, le signore sollevano la gonna, scostano la calza, si pungono la coscia e rivivono. Il pernicioso effetto della droga è assimilato all’avvelenamento da romanzo: fantasie, svenevolezze, vapori, sogni a occhi aperti, disinteresse verso il mondo, morte nei casi di overdose. I maschi invece, che i romanzi perlopiù li scrivono, discendono tutti dal mangiatore d’oppio Thomas De Quincey. Prima o poi arriva la misteriosa fanciulla velata, silenziosa e incantevole. Meglio se giovanissima. Non c’è oppiomane futuro – da Eugène Sue che scrisse ”I Misteri di Parigi”, fortunato best seller cento volte scopiazzato, a Maupassant – non se ne farà trascinare.
Resta da stabilire se vedevano la dama per davvero, o era una contagiosa malattia letteraria. Che figura avrebbe fatto un romantico rispettabile al cospetto dei suoi pari, se avesse allucinato cose diverse da quelle stabilite nei sacri testi? Meglio adeguarsi, e non rischiare la cacciata dal paradiso. Per nostra sciagura, quei maledetti scopiazzatori di allucinazioni sono gli stessi che poi celebreranno l’originalità, l’importanza del guardarsi dentro, l’attenzione ai battiti del proprio cuore. In una catena infernale che da una parte conduce alle avanguardie, dall’altra alle poetiche agonie, cose che stanno al romanzo come i diserbanti al prato. Se la chiamano prosa, dice il saggio Stephen King, un motivo ci sarà. Nei suoi momenti migliori, si faceva di cocaina, tracannava il disinfettante per i denti, gettava ogni sera le birre rimaste nella spazzatura, perché l’idea di lattine piene nel frigo gli metteva sete. Un giorno smise. Sarà una coincidenza, ma da allora lo leggiamo con crescente fatica. Nulla all’altezza di ”Misery”, che neanche ricorda di aver scritto.
(11.continua)
Mariarosa Mancuso
• Faccende domestiche. Dalla Nellie di Woolf alla Hoover di Tull, la servitù ferita colpisce in casa del romanziere. Il Foglio 23/08/2005. La letteratura moderna è noiosa perché gli scrittori sono costretti a vivere senza servitù. Non lo stabilisce un critico – quando mai sono così svelti e precisi nella diagnosi? – ma un romanziere. Compare con le iniziali M. A. in ”Money” di Martin Amis, carico di panni da portare in lavanderia, rubando la scena al protagonista: un certo John Self, pubblicitario con vita interiore articolata su due voci; la prima conta i molti soldi guadagnati, la seconda è un basso continuo che ripete (a chiunque, purché femmina) ”dai-vieni-qui-fammi-godere”. La mancanza di cameriere costringe un altro romanziere made in Amisland, il Richard Tull dell’’Informazione”, a caricarsi in spalla l’aspirapolvere rotto (visto che il capolavoro tarda ad arrivare, tanto vale che aiuti in casa, sostiene la consorte). Segue una paginetta che scomoda Céline, Kafka e Dostoevskij, tutti immaginati nell’atto di afferrare un tentacolare Hoover, litigando con il tubo e il beccuccio piatto che risucchia le briciole dai divani. Chi non l’ha provato, non conosce l’angoscia. I moderni sono privi di servitù (comunque, non saprebbero dirigerla). I modernisti se ne vergognano. ”Mrs. Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei”, annuncia Clarissa uscendo di casa la mattina del 13 giugno 1923. Se avesse dato l’incarico alla cameriera, niente passeggiata per Londra, niente incontro con l’amico d’infanzia Hugh, niente nostalgie per l’ex corteggiatore Peter, niente misterioso colpo di pistola – in realtà, il ritorno di fiamma di un’automobile – che fanno da scheletro a un romanzo tanto stancante da leggere quanto facile da riassumere. Mrs. Dalloway rimugina sui fatti propri. Faccende non particolarmente avventurose, sviscerate da una signora depressa e un po’ antipatica. Facendo fino in fondo l’avvocato del diavolo – tale era considerato il romanzo in quegli anni desolati – vien da chiedersi: ma se Clarissa pensa per qualche centinaio di pagine durante una passeggiata di due d’ore, come avrà trascorso gli altri suoi giorni da benestante moglie di parlamentare? Non le passavano mai per la testa le stesse sciocchezze che vengono in mente a noi (o a John Self)? Che la camminata verso il negozio dei fiori sia un pretesto – neppure dei più astuti, romanzescamente parlando – è chiaro dal fatto che Mrs. Dalloway torna a casa in taxi. Ma su questo, neanche una parola.
Andata e ritorno
Dell’andata sappiamo ogni particolare, ogni angolo svoltato, ogni strada percorsa. Del ritorno sappiamo che dura solo dieci minuti, che i fiori erano tanti, che la signora – fragile di cuore, non solo per il segretario galante, ma anche per il cardiologo – era uscita di casa con borsa e parasole, quindi aveva le mani occupate. Poiché chi di servitù ferisce di servitù perisce, Nellie Boxhall, cameriera e cuoca dal 1916 al 1934 in casa Woolf, ha lasciato per gioia dei posteri pettegoli un diario dei litigi con la padrona. Guadagnava 76 sterline all’anno. Intanto Virginia reclamava per le scrittrici una stanza tutta per sé (richiesta entrata nelle cronache letterarie) e una rendita annuale di 500 sterline (pretesa che nessuno ricorda più). Nellie si arrabattava, fidando sulla sua naturale pigrizia e l’altrettanto naturale carattere rissoso. Difficile pensare che avesse studiato le ”Istruzioni alla servitù” di Jonathan Swift. Valletti, cocchieri, balie, istitutrici e cameriere personali, sono istruiti – dall’irlandese che voleva porre rimedio alla miseria vendendo i figli dei poveri come cibo per i ricchi – alla ruberia e al sotterfugio. Compra la carne al più basso prezzo possibile, è uno dei consigli. Ma quando rendi i conti segnala al prezzo più alto, per salvaguardare l’onore del tuo padrone, e perché nessuno può permettersi di vendere allo stesso prezzo a cui compra. Non fare mai con un cucchiaio quel che puoi far con le mani, per non consumare l’argenteria di casa. Se sei giovane, di aspetto e alito gradevole, quando devi sussurrare qualcosa alla tua padrona, spingi il naso fino alla sua guancia: la pratica ha portato ottimi risultati. I pitali vanno vuotati dalla finestra, così da nasconderli alla vista dei servi maschi. E mai puliti, perché l’odore giova alla salute. A quei tempi ”l’acqua di cagnolino” si usava come lozione di bellezza. Per questo Samuel Pepys litiga con la moglie. Per questo Swift scrive ”Lo spogliatoio della signora”, poemetto sulla sporcizia, sui denti posticci, le imbottiture, i pettini ingrommati delle dame inglesi.
(12.continua)
Mariarosa Mancuso
• Gli studi di Amleto all’università e altre manie da molestatore di classici. Il Foglio 24/08/2005. Esistono i fissati. Miguel de Unamuno era convinto che Don Chisciotte non fosse farina del sacco di Cervantes, ma uno uguale a noi. No, non nel senso che divorava romanzi e si montava la testa, rimodellando il mondo a immagine e somiglianza delle proprie letture. Era convinto che fosse tra quelli ”che hanno mangiato e bevuto e dormito, e che sono poi morti”. Per dimostrarlo, scrisse una ”Vita di Don Chisciotte e Sancho Panza”, regalando ai due una biografia. Sta in buona compagnia con un inglese che si chiama John Sutherland, fanatico molestatore di classici, vittoriani e no. Uno che trova perfettamente sensato domandare ”quanti figli aveva Lady Macbeth?”, oppure ”Cosa studiava Amleto all’università di Wittenberg?”. Shakespeare tace, evidentemente considerava i dettagli irrilevanti per la smania di potere dell’una e l’inerzia pensosa dell’altro. Neanche Daniel Defoe spiega perché mai Robinson Crusoe, sulla riva fatale, vide l’orma di un solo piede. Il segno sarebbe stato meno terribile se i piedi fossero stati due? Anche quando, dopo il grande spavento, il naufrago torna a controllare se per caso l’impronta non sia la sua (no, altra misura) la stranezza del piede unico non lo turba. Tra i romanzieri, Defoe non fu un campione di precisione, né di trame a prova di bomba. Dopo il naufragio fa spogliare Robinson nudo, così nuota meglio. Venti righe dopo gli riempie le tasche di gallette. L’inchiostro sull’isola deserta appare e scompare: prima bisogna tenerlo da conto, rinunciando al diario. 27 anni dopo ne rimane a sufficienza, e non si è neanche seccato, per scrivere un contratto. Il sale scarseggia, e il naufrago soffre. Però poi ne resta abbastanza per insegnare faticosamente all’inetto Venerdì – si immagina con qualche spreco – la tecnica della salatura per conservare la carne.
Altre curiosità da buco della serratura assillano il puntiglioso Sutherland, che intitola il suo primo volumetto (altri due seguiranno) ”Is Heathcliff a Murderer?”, gettando un’ombra sulla fedina penale del bel tenebroso che tormenta Catherine in ”Cime tempestose”. Lo zingaro marmocchio trovato per le strade di Liverpool, accolto a Wuthering Heights, ripulito e rivestito ma sempre ”nero come se venisse dal diavolo”, è nero anche nel cuore. Uno psicopatico gentiluomo, così lo etichetta Sutherland, elencando i capi d’accusa: sta via tre anni senza dare notizie, mette zizzania tra mogli e mariti, lancia coltelli da cucina lasciando cicatrici permanenti sopra l’orecchio della consorte Isabel. Vittima del presunto omicidio sarebbe il fratellastro Hindley, morto di una sbronza colossale. In realtà, fu omissione di soccorso, o forse un cuscino premuto sulla faccia del giovanotto che già faticava di suo a respirare.
Non pago delle insinuazioni su Heathcliff, il castigaromanzieri indaga sulla morte di Jos in ”Vanity Fair”. Becky lo ha riacchiappato come amante, dopo che le era sfuggito in gioventù come marito, complice il fidanzato della sua migliore – anzi, unica – amica Amelia Sedley. Molte traversie dopo, in Europa, Jos muore. Lei risulta beneficiaria dell’ assicurazione sulla vita, il resto dei soldi pare sparito nel nulla. Un delitto perfetto, perpetrato in solitudine per evitare i guai del postino che suona sempre due volte. Se fai uccidere il consorte dall’amante, facile che il maschio combini pasticci, e comunque risulta difficile continuare a rotolarsi tra le lenzuola con la polizia alle calcagna. Lo sappiamo dal capostipite del genere, che non si deve a James Cain, ma a Zola, con ”Teresa Raquin”: a inquietare la coppia clandestina che ha affogato il terzo incomodo, un ritratto del consorte. Dipinto quand’era vivo da un pittore della domenica, ha già i tratti del cadavere gonfio d’acqua portato alla Morgue.
Interrogato sul fattaccio – l’ha ucciso Becky oppure no? – Thackeray rispose ”io veramente non lo so”. Sul caso Heathcliff, era invece colpevolista: ”Perché le nostre romanziere fanno tiranneggiare le donne dagli uomini?”. Intanto Sutherland riparte alla caccia degli anticoncezionali usati nel 700 da Fanny Hill (spugnette intrise d’aceto), e del misterioso missile che l’Arabella di Thomas Hardy getta all’amico d’infanzia Jude, che vuol farsi vescovo, in segno di spregio (il pene di un maiale appena macellato, seguono le prove). In tanto affannarsi si lascia scappare la domanda delle domande, segnalata da un lettore più maniaco di lui: perché la creatura di Frankenstein è fatta di tanti pezzi? Non sarebbe stato più semplice usare un solo cadavere?
(13.continua)
Mariarosa Mancuso
• Come diventare miliardari sequestrando un personaggio letterario. Il Foglio 25/08/2005. Chi è l’omino pelato che a pagina 138 bacia madame Bovary? D’accordo, Emma aveva il corteggiatore facile. Ma li sceglieva prestanti, prima di salire con loro in carrozza e farsi scompigliare la sottogonna, magari con le voci dei comizi agrari come colonna sonora. La scena costò a Flaubert una fatica terribile – si capisce dalle lettere agli amici: ”l’ho in mente”, ”la sto scrivendo”, ”bisognerà rifarla”, ”non sono ancora soddisfatto” – ma il risultato è strepitoso. Ovviamente, non porta i segni del lungo travaglio. Perché il nostro era convinto che il romanziere stesse al romanzo come Dio sta alla creazione: è responsabile di tutto, ma non si mostra da nessuna parte.
Chi è allora l’omino pelato che bacia Emma, e a guardarlo bene non sembra neppure francese? E’ il signor qualunque che in un racconto di Woody Allen intitolato ”il caso Kugelmass” (grazie a una diavoleria meccanica appena inventata) si fa catapultare nel suo romanzo preferito, per corteggiare l’eroina. Il marchingegno si guasta, lo sventurato resta bloccato tra le pagine. Tutti gli studenti di letteratura scoprono l’intruso, che peraltro in provincia non si sta divertendo granché. Se la spasserà ancora meno quando l’annoiata Emma, sparita dal romanzo, lo segue a New York. Un mugugno fatto donna: l’albergo non le piace, lui non la porta a cena fuori, nulla è abbastanza romantico. Dovesse ricapitare, consigliamo le signorine inglesi. Jane, Catherine, Elizabeth sono molto meglio (infatti bisogna strapparle a rivali più fascinosi).
Un portale collega realtà e fiction anche nei romanzi di Jasper Fforde, gallese che sperimentò 76 rifiuti editoriali, distribuiti su cinque romanzi, prima di riuscire a piazzare ”The Eyre Affair” (dal 2001 a oggi ne ha scritti altri tre e ha messo su un sito internet per la gioia dei suoi molti fan, senza incuriosire gli editori italiani, nonostante l’etichetta di Harry Potter per adulti che ha miracolato tanti libri noiosi). Dal varco passano tante brave persone, ma anche parecchi criminali che rubano i personaggi dei romanzi a scopo di riscatto. Esiste quindi una speciale squadra di polizia – si chiama LiteraTec – per rimettere le cose in ordine. Ma si può diventare ricchi sequestrando Jane Eyre oppure Rochester ? (Bertha, la prima moglie pazza chiusa in soffitta, sposata nella lontana Giamaica, certamente non se la piglia nessuno). Si può diventare miliardari, a patto di vivere nel 1985 inventato da Fforde: un mondo parallelo dove la guerra di Crimea non è mai finita, i viaggi aerei si fanno a bordo del dirigibile, i dodo non sono estinti, ma clonati per farne animali da compagnia, i computer non esistono, nei sotterranei di Fort Knox ci sono manoscritti e non lingotti.
Un mondo parallelo, soprattutto, dove la lettura scatena entusiasmi da stadio o da tv. Quando Jane Eyre viene allontanata dal suo domicilio romanzesco è come se da noi avessero rapito Pupo oppure Totti. Tutti fermi, emergenza nazionale, taglia miliardaria, il presidente della Federazione Brontë chiama subito il primo ministro. Indaga l’investigatrice migliore sulla piazza, tale Thursday Next: un padre che viaggiava nel tempo, un marito che esiste solo nei suoi ricordi. Dai ricordi di amici e parenti il consorte è stato sradicato con apposita procedura, a opera di un genio del male che si chiama Acheron Hades. Per tenersi in forma, rapisce e uccide personaggi minori del ”Martin Chuzzlewit” di Dickens, sicuro che anche i lettori fanatici impiegheranno un sacco di tempo per notarne la mancanza. Il suo quartier generale si trova nella Repubblica Leninista del Galles, che lo fiancheggia nell’opera di distruzione, perché il romanzo è l’oppio del popolo.
Thursday Next si è formata alla scuola di Miss Havisham (la non maritata di ”Grandi speranze”, finalmente abbiamo scoperto cosa fa nelle pause tra un lamento e l’altro). Per riposarsi, torna dalla mamma, magari portando con sé qualche testimone bisognoso di un nascondiglio sicuro. In ”Something Rotten”, l’ultimo romanzo della serie, l’uomo da far sparire è Amleto principe di Danimarca, che in un impeto di mondana galanteria farà arrabbiare la viziata Ofelia rimasta di là dal portale (a ordinare sushi, mentre Falstaff la guarda con orrore). All’ora del telegiornale, tutti seduti davanti alla tv. Le notizie del giorno parlano dei soliti disordini in città: un giovane surrealista è stato ucciso, pugnalato a morte da una banda di impressionisti fanatici.
(14.continua)
Mariarosa Mancuso