Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 17 maggio 1999
Per Clinton il problema cinese è una ragione in più per porre fine in fretta alla guerra del Kosovo
• Per Clinton il problema cinese è una ragione in più per porre fine in fretta alla guerra del Kosovo. «Lo scoppio di antiamericanismo che scuote il colosso comunista è l’effetto più imprevedibile della guerra del Kosovo. Ed è uno dei più preoccupanti per la superpotenza che rivendica un ruolo cruciale nel Pacifico oltre che nell’Atlantico [...] Il raid sull’ambasciata di Pechino a Belgrado [...] suscita una serie di interrogativi sulla collaborazione tra i due Paesi per la stabilità delle Coree, la non proliferazione atomica e la lotta al terrorismo; e ancora getta ombre sulle trattative per la riduzione dell’enorme disavanzo commerciale Usa, oltre 60 miliardi di dollari l’anno, e per l’ingresso della Cina nella Organizzazione mondiale del commercio. Non solo. Negli Stati Uniti si riaprono le polemiche sullo spionaggio nei laboratori nucleari americani e sui finanziamenti elettorali cinesi ai democratici [...]. Il presidente sa che se non pacificherà i Balcani e non ritroverà un buon rapporto con Russia e Cina verrà condannato dalla Storia: lascerebbe in eredità al successore non un nuovo ordine ma un nuovo disordine mondiale e, senza l’integrazione di Mosca e di Pechino nell’economia globale, esporrebbe l’Europa e l’Asia ad altre crisi finanziarie».
• I cinesi rivendicano la superiorità della loro civiltà e aspirano alla creazione di una grande Cina. Maria Weber, sinologa, docente di relazioni internazionali all’università Bocconi di Milano: «Lo spirito nazionalistico è sempre stato fortissimo in Cina. Negli ultimi tempi è andato anzi crescendo ulteriormente. Dipende in parte dal compiacimento per la rapida modernizzazione economica in corso nel paese, ma anche dalla consapevolezza del ruolo di garanti della stabilità continentale svolto nel pieno della crisi finanziaria asiatica [...]. I leader cinesi sanno di essersi imposti sulla scena mondiale da protagonisti. Da parte loro, c’è una tendenza insistente a evidenziare l’identità cinese, ed a perseguire l’obiettivo di una grande Cina. Dopo il ritorno di Hong Kong alla madrepatria, a fine anno sarà la volta di Macao. Quanto a Taiwan, i tempi per la ricongiunzione oscillano, nelle intenzioni dichiarate dai vari leader, fra il 2005 ed il 2010».
• iniziata, come sostengono alcuni, una guerra fredda tra la grande potenza asiatica e la superpotenza americana?
James Mann, sinologo, editorialista del Los Angeles Times, autore del saggio About Faces, a History of America’s Curious Relationship with Chine, from Nixon to Clinton: «Non si tratta di una guerra fredda in senso classico. Ma di una fase molto difficile e pericolosa dei rapporti».
Quali sono i pericoli immediati?
«Che la Cina, al Consiglio di Sicurezza [...] ponga il veto ad ogni procedura di intesa che non soddisfi in pieno la Serbia. E poi c’è un’altra spiacevole conseguenza: che il processo di normalizzazione e di intesa, avviato da Kissinger e Nixon e continuato, fra alti e bassi, per tutti questi anni, possa interrompersi, come ai tempi della crisi di Piazza Tienanmen. Teniamo poi conto che i missili di Belgrado sono arrivati dopo sei mesi di tensione continua fra i due Paesi dovuta alle violazioni dei diritti civili a Pechino, alle dure reazioni americane, ai tentennamenti dell’amministrazione su Taiwan, alle difficili trattative commerciali. Ma soprattutto ad una sensazione che hanno i cinesi».
Quale sensazione?
«Che l’America costituisca un pericolo per la loro sicurezza. Nel 1968, dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici, la Cina rimase terrorizzata dall’interventismo armato di Mosca. E piano piano, per difendersi, si rivolse agli Stati Uniti [...]. Ora la paura della potenza americana, capace di bombardare un Paese per difendere i diritti civili e l’autonomia di una minoranza nazionale, spaventa Pechino, visto che anche la Cina ha problemi di questo genere come il Tibet. E quindi Pechino guarda a Mosca per controbilanciare la presunta invadenza degli americani sulla scena internazionale ed asiatica».
• Taiwan, non è un’altra spinosa questione aperta?
«I cinesi considerano Taiwan una parte del loro territorio. Non hanno mai fatto mistero di volerselo riprendere. L’amministrazione Clinton invece ha venduto a Taiwan un sistema avanzato di radar e pensa di inserire Taiwan nei progetti di difesa anti-missile nel Far East. Tutto ciò indispettisce Pechino e rafforza l’ala anti-americana del Politburo, convinta che l’America sia disposta a difendere militarmente Taiwan nel caso di un tentativo di riconquista».
Chi in America auspica la politica dura contro la Cina sostiene che Pechino, fra dieci anni, potrà diventare un pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti: lei che ne pensa?
«Certamente la Cina, nei prossimi anni rischia di diventare un pericolo per gli amici degli Stati Uniti nell’area. Fra 30 anni, forse, anche l’America potrebbe finire sotto tiro di una Cina potente economicamente e militarmente. Meglio evitare ora questo pericolo e ritrovare la via del dialogo».
• Pechino sta sfruttando l’errore per difendere «i più biechi interessi nazionali»?
James Woolsey, capo della Cia fino al 1995, sostiene la tesi dell’errore: «Le autorità cinesi sono state perfettamente informate della natura dell’errore. Se continuano a negarlo, mentendo anche alla loro popolazione, è perché vogliono difendere biechi interessi nazionali. In Tibet il governo di Pechino ha attuato una pulizia etnica identica a quella di Milosevic nel Kosovo, anche se ridotta nei numeri. Inoltre la Repubblica Popolare continua ad affermare il suo diritto di risolvere militarmente il contrasto con Taiwan. Gli Stati Uniti sono contrari, e quindi l’incidente di Belgrado serve a controbattere le loro critiche».
• L’ambasciata cinese è stata colpita deliberatamente per sabotare il piano di pace del G-8?
Erich Schmidt-Eenbon, uno dei più noti esperti tedeschi di servizi segreti, autore di cinque libri sul tema e attualmente direttore dell’Istituto di ricerche sulle politiche di pace a Weilheim in Baviera: «La Cia, come tutti i servizi segreti occidentali, dispone di grandi carte digitali delle principali città europee, continuamente aggiornate via satellite. Non solo: essa dispone di ottime fonti di informazione elettroniche e umane a Belgrado».
Dunque è impossibile che la Cia non sapesse che in quel punto si trovava l’ambasciata...
«Esattamente. E guardi che non ci crede neanche il governo federale [...] Lo scenario più verosimile è che non sia stato un errore [...] L’ipotesi non solo mia, ma anche di miei colleghi a Parigi e a Londra, è che l’ambasciata sia stata colpita deliberatamente per sabotare il piano di pace del G-8».
Scusi, chi sarebbero i sabotatori?
«La stessa Cia e i vertici militari americani».
Ma che interesse avrebbero a sabotare un piano messo faticosamente a punto solo due giorni prima?
«Il fatto è che in realtà quel piano non è negli interessi di Washington. L’obiettivo degli Usa è arrivare a una soluzione del conflitto senza ”intromissioni” da parte dell’Onu e della Russia, Washington si è trovata quasi a subire, per ragioni diplomatiche soprattutto con Mosca, il piano del G-8. Colpendo l’ambasciata cinese gli Stati Uniti avrebbero ottenuto un ostacolo insormontabile, il veto di Pechino, a un piano sgradito».
• Mosca-Pechino-New Delhi: la grande alleanza asiatica del futuro.
La crisi tra Cina e Stati Uniti «ha subito richiamato alla memoria il discorso dell’autunno 1998 con cui Primakov, da poco divenuto premier, aveva lanciato (rilanciato) l’idea (gorbacioviana) di un triangolo Mosca-Pechino-New Delhi come grande alleanza asiatica del futuro, per bloccare i disegni clintoniani di un XXI secolo americano».
• La maggior parte dei governi del pianeta considera gli Stati Uniti una superpotenza fuorilegge e fuori controllo.
Noam Chomsky, 71 anni, scrittore e glottologo, promotore dell’appello firmato dall’intellighènzia dell’ebraismo statunitense per la fine immediata dei bombardamenti in Jugoslavia: «L’autorevole rivista ”Foreign Affairs”, nell’ultimo numero mette in guardia contro il crescente antiamericanismo del pianeta. Dove la maggior parte dei governi considera gli Stati Uniti una superpotenza fuorilegge e fuori controllo, oltreché il più serio pericolo alla propria esistenza. Con la sua tracotanza, insomma, l’America ha finito per passare dalla parte dei cattivi».
• Intanto sulla scena moscovita si fronteggiano uomini e poteri separati e distanti. «Il presidente, forte dei vasti diritti costituzionali [...]; i diversi candidati alla sua successione, incluso Primakov e l’attivissimo sindaco di Mosca Luzhkov; la Duma, con la sua maggioranza nazional comunista; e sullo sfondo i ”poteri forti” (l’esercito, il ministero dell’Interno), tradizionalmente estranei al gioco politico, ma forse risolutivi [...]. Il licenziamento di Primakov, che era il simbolo di una Russia desiderosa di evitare aspri conflitti, riapre la porta a molte paure ».
• Eltsin vuole rimanere il padrone della Russia. «Con la liquidazione perentoria di Primakov [...] Eltsin ha voluto mandare alla Duma [...] un segnale preciso, avvertendo che è ancora lui il padrone. E la nomina a primo ministro di Sergej Stepashin, che è un generale delle forze di polizia che represse con violenza alcuni dei più gravi moti di piazza degli anni di Gorbaciov, vorrebbe essere una conferma del monito del presidente al Parlamento, e alla Russia».
• Sergej Stepashin. 47 anni, capelli rossi, occhi scuri, una formazione di «commissario politico» nell’Armata Rossa, è stato uno dei promotori della guerra in Cecenia. Nel giro di otto anni è diventato generale dirigendo quasi tutti i ministeri chiave russi: capo del controspionaggio (erede del Kgb), ministro della Giustizia, da un anno ministro dell’Interno, dal 27 aprile primo vicepremier. Secondo molti, la qualità per la quale è stato designato premier è la sua fedeltà assoluta a Eltsin.
• La Russia sta attraversando la fase più difficile dalla caduta del comunismo. Steven Henke, ex consigliere politico ed economico di Reagan, a cui Mosca si rivolse l’anno scorso per stabilizzare il rublo: «La Russia rischia di entrare in un limbo politico in cui nessuno sarà in controllo degli eventi, di non ottenere per parecchi altri mesi gli aiuti del Fondo monetario di cui ha bisogno, e di cadere preda di disordini sociali. Temo che incominci un periodo di grave destabilizzazione dagli sbocchi imprevedibili. Potremmo avere una totale crisi costituzionale. Penso che sia la fase più difficile attraversata dalla Russia dal crollo del comunismo».
• Con la destituzione di Primakov, il peso della Russia nella crisi jugoslava è destinato a diminuire sensibilmente. «La Russia era riuscita a riportarsi, in questi ultimi 50 giorni di guerra, al centro dell’attenzione mondiale [...], a rientrare nel grande giro della diplomazia.
Questo era per Eltsin un formidabile strumento per risalire la china interna dei sondaggi, tenendo conto della brusca virata antioccidentale di larghi settori dell’opinione pubblica russa. Adesso, con l’inizio di una crisi così ingarbugliata, con un potere centrale che vacilla, è del tutto evidente che il peso della Russia è destinato a diminuire sensibilmente.
E non solo. Adesso potrebbero emergere, dalle diverse ali dell’opposizione, accuse all’indirizzo sia di Eltsin che di Cernomyrdin, di avere ”lasciato fare” la Nato, di essersi ”lasciati invischiare” non in una posizione mediatoria, ma sostanzialmente di appoggio indiretto alle posizioni occidentali».
• La guerra durerà più del previsto e la pace che seguirà sarà instabile.
Steven Henke: «La mediazione di Cernomyrdin sul Kosovo verrà indebolita dalla crisi. [...] Dopo Pechino, che non sarà facile recuperare, l’alleanza si troverà contro Mosca. Come minimo, la guerra durerà molto più del previsto e la pace, quando si farà, sarà instabile».