Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Infanzia berlinese intorno al millenovecento
• Vaccino e nostalgia. «Nel 1932, mentre ero all’estero, iniziai a rendermi conto che presto avrei dovuto dire addio per molto tempo, forse per sempre alla città in cui ero nato. Nella mia vita interiore avevo più volte sperimentato come fosse salutare il metodo della vaccinazione; lo seguii anche in questa occasione e intenzionalmente feci emergere in me le immagini – quelle dell’infanzia – che in esilio sono solite risvegliare più intensamente la nostalgia di casa. La sensazione della nostalgia non doveva però imporsi sullo spirito come il vaccino non deve imporsi su un corpo sano».
• Tetri corridoi, chiare stanze. «Quando lampadari a corona, parafuochi e palme da salotto, consolle, guéridon e balaustre dei bow-window, che allora si pavoneggiavano nelle stanze di riguardo, erano ormai da tempo desueti e defunti, l’apparecchio telefonico, simile a un eroe leggendario rimasto abbandonato in una forra, si lasciò alle spalle il tetro corridoio e fece il suo regale ingresso nelle stanze chiare e luminose, che ora ospitavano una generazione più giovane per la quale rappresentò la consolazione della solitudine».
• Foreste. «Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta».
• Archi. Il primo pendio che percorse è l’arco del ponte Bendler al Tiergarten.
• Attese. «Sono stato spesso ammalato. Da qui proviene forse quella che altri in me definiscono pazienza, ma che in realtà non assomiglia ad alcuna virtù: la tendenza a vedere tutto ciò a cui tengo avvicinarsi da lontano come le ore al mio letto di ammalato. per questo che quando faccio un viaggio mi viene a mancare la gioia maggiore se non ho potuto aspettare a lungo il treno in stazione».
• Carezze. «Le amavo, perché nella mano di mia madre scorrevano le storie che in seguito avrei ascoltato da lei».
• Pioggia. «Perché un dolce, lungo giorno mai mi era più dolce, mai più lungo di quando la pioggia, con i suoi denti ora fitti ora radi, ne lisciava lentamente le ore e i minuti. Docile come una bambinetta, offriva il capo a questo grigio pettine. E io allora rimanevo a guardarlo insaziabilmente. Aspettavo. Non che cessasse. Ma che scrosciasse sempre più vigorosa. La sentivo tambureggiare contro i vetri dalle gronde e gettarsi gorgogliando nei tubi di scolo».
• Gas. «Qualche volta, nelle serate d’inverno, mia madre mi portava con sé a fare acquisti. Quella che si distendeva davanti a me nel chiarore della luce a gas era un Berlino buia e sconosciuta».
• Grembi cartacei. «Dove la Krumme Strasse sfociava nel Westen, c’era un negozio di cancelleria. Gli sguardi iniziati nella sua vetrina venivano catturati dai giornaletti di Nick Carter. Io però sapevo dove, sullo sfondo, dovevo cercare le opere più sconce. In quel punto non c’era molto passaggio. Potevo scrutare a lungo attraverso il vetro, creandomi dapprima un alibi con i compassi, le ostie da sigillo e i libri contabili, per poi puntare repentinamente verso il grembo di quella creazione cartacea».
• Contrassegni d’osso. «In piscina ero lo schiamazzo delle voci, che si mescolava al frusciare delle tubature, a disgustarmi maggiormente. Si faceva strada sin dall’ingresso dove ognuno doveva procurarsi il contrassegno d’osso».
• Costellazioni. «Di tutti gli istanti di cui è fatta l’esistenza dell’albero di Natale, era il più timoroso, quello in cui esso immola all’oscurità rami e aghi per non essere altro che una costellazione inavvicinabile e tuttavia vicina nella tetra finestra di un appartamento sul retro».
• Il cestino. «Accanto alla regione superiore del cestino, dove questi rocchetti stavano allineati l’uno accanto all’altro, dove scintillavano i libretti portaaghi neri e ogni forbice era infilata nel proprio fodero di pelle, c’era il tenebroso sottosuolo, il caos, dove regnava il gomitolo disfatto, dove si mescolavano avanzi di fettucce elastiche, uncini, gancetti e ritagli di seta».
• Lästerallee. «Per il berlinese, in fatto di amoreggiamenti non esisteva scuola migliore di questa, circondata dagli spiazzi sabbiosi degli gnu e delle zebre, dagli alberi spogli e dalle scogliere dove nidificavano condor e avvoltoi, dai puzzolenti recinti dei lupi e dai luoghi di cova dei pellicani e degli aironi».
• Pattinaggio. «E ora, al ritmo di un valzer viennese, si scivolava sotto quegli stessi ponti, dai quali, appoggiati ai parapetti, d’estate si stava a osservare il pigro scorrere delle barche sull’acqua scura».
• Dal Deutsches Kinderbuch. «In cantina voglio andare, / il mio vino voglio bere; / un omino con la gobba ahimè compare / e si beve il mio bicchiere».
• Grazie al ritrovamento del manoscritto consegnato a Georges Bataille, l’Infanzia berlinese, pubblicata sino a oggi in varie versioni, trova edizione definitiva. Tra la premessa e la conclusione, tra l’indicazione del ricordo "controllato" come vaccino per la nostalgia e l’immagine dell’omino gobbo delle fiabe che fa i dispetti ai bambini, Benjamin ricrea l’atmosfera di un’epoca attraverso i particolari (il telefono, il cestino da cucito della mamma, il contrassegno d’osso della piscina).
Walter Benjamin nasce a Berlino nel 1892 da una famiglia di commercianti ebrei, il padre antiquario e la madre tessitrice. Si dedica alla critica letteraria e alla saggistica. Traduce parti della Recherche di Proust. Con l’avvento del nazismo, nel ’33 si trasferisce a Parigi. Di lì, quando nel ’40 le truppe del Reich arrivano nella capitale francese, cerca salvezza prendendo la via della Spagna. Ma sul confine, braccato dalla Gestapo, si toglie la vita, a Port Bou.