Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Gli esordi
• Gli esordi. «Un teatro quello del Dopolavoro... Be’ lasciamo correre, una vera e propria frana. Aveva le finestre che davano dritto sui binari. Quando passava l’accelerato per Cologno, Piacenza e Mantova il fabbricato tremava come fosse scoppiato il terremoto. Mentre transitava il convoglio, poiché in sala non si sentiva un accidenti, muovevo a vuoto le labbra per poi riprendere il discorso» (Ugo Tognazzi).
• Cremona. «Giravo per la città fino a notte inoltrata con questa compagnia della buona morte. La mattina si dormiva sino a mezzogiorno. La domenica il tradizionale struscio. Si campava alla meglio. Il guaio era che tutti avevano bene o male un mestiere o si preparavano a farselo. Nel palazzo dove abitavo gli amici mi ripetevano, ed era sempre la stessa nenia: terminata la scuola andrò in banca... E tu Ugo dove andrai a parare? E a quel punto facevo i pensieri più brutti che si possono immaginare» (Ugo Tognazzi).
• Al salumificio Negroni. «Al mattino si lavorava in una specie di rivoluzione fonica. Era che giù, nei mattatoi, massacravano cinquecento bestie al giorno in un coro tremendo di muggiti. Al pomeriggio, invece, silenzio di tomba: era la fase dell’insaccamento... mi mandarono via da Negroni per le frequenti assenze dovute alle recite per le Forze Armate» (Ugo Tognazzi).
• Il successo. «Cos’è il successo? Non lo so, lo sanno coloro che non l’hanno mai avuto... Non si fa in tempo a rendersene conto. così rapido» (Ugo Tognazzi).
• Sull’avanspettacolo. «Mah. Io quell’aria me la porto dietro: quel tanfo di cipria, di rimmel, di bruscolini, di olio rancido che usciva dalle quinte, prima di rovesciarsi in platea» (Ugo Tognazzi).
• Veglioni. «Il padrino l’ho fatto per scherzare nel corso dell’ultima notte dell’anno. Ero in smoking con Marco Ferreri, Mastroianni e degli amici, eravamo all’Alcazar. Sono andato in bagno, ho preso due kleenex e li ho messi sotto le guance e poiché so fare l’occhio da cane e raddrizzare il mio naso con i muscoli come in certe espressioni di Marlon Brando, mi sono divertito a sparire e ritornare imitando Il padrino: quel veglione somigliava davvero alla festa nel corso della quale Marlon Brando danzava il valzer. Tutti hanno riso e Ferreri mi ha detto: ”Questo te lo faccio fare nel film”» (Ugo Tognazzi).
• Amori. «Ciò che amo di più nel cinema, è la possibilità di analizzare, attraverso i personaggi, la mediocrità dell’uomo» (Ugo Tognazzi).
• «Tognazzi sapeva fare un personaggio e il suo esatto opposto. Il vizioso e il moralista, il donnaiolo e l’omosessuale, il vitalista e l’autodistruttivo, il dilapidatore e lo strozzino» (Tatti Sanguinetti).
• Donne e abbacchi. «Amava i bisogni fisiologici primari, considerando la vita una pochade da servire con contorno di panna e burle. Nella lista non sofisticata delle sue preferenze metteva le donne, e dopo l’abbacchio alla scottadito» (Maurizio Porro a proposito di Ugo Tognazzi).
• Tradizioni. «Siamo di fronte al primo caso di divismo che non riallacci alla grande tradizione meridionale cui appartengono Totò, De Sica, Manfredi, Gassman stesso» (Vittorio Spinazzola a proposito di Ugo Tognazzi).
• Tette e torrone. «Lo conobbi nel 1950 in un avanspettacolo a Bologna, Arena del Sole. Fantasista, dopo Renato Maddalena, quello che ballava sopra le botti. Era un giovanotto che odorava di torrone, semplice, vero: ”Com’è simpatico, sembra uno di noi”, diceva il pubblico, perché non usava i soliti attrezzi: che so, il tubino di Totò, la bombetta disastrata dei de Rege, la paglietta con la ferita di Nino Taranto. Appena entrato buttò via la giacca e in maniche di camicia mi pareva ancora più magro, come una bocca delusa dai troppi digiuni. Si esibì in qualche imitazione, intonò una buffa filastrocca: ballò con Maddalena e finì in platea tra le braccia di una ragazzona bolognese dalle tette vertiginose. Non fu difficile supporre che avrebbe fatto molta strada» (Sandro Bolchi ricorda Ugo Tognazzi).
• «Faceva delle cene complicatissime e divertentissime, magari poterle rivivere adesso. Ricordo delle cene giapponesi, cinesi, vietnamite, messicane, ognuna con la sua caratteristica tavola: studiava, si preparava, a casa abbiamo una valanga di libri di cucina. Però, soprattutto, da buongustaio, andava nei ristoranti e imparava» (la figlia Maria Sole Tognazzi).
• Soubrette e cani sciolti. «Forse Ugo [Tognazzi] sentiva la vita che gli sfuggiva come la sabbia dalla clessidra, si accorgeva con angoscia di parlare troppo spesso al passato, paventava che il meglio di tutto fosse trascorso. In questa vulnerabilità c’era ancora, come spesso nelle sue interpretazioni, il segno di un’originale contraddizone. Eroe di un vitalismo senza risparmio, tra Casanova e Rabelais, i suoi anni di fuoco erano stati quelli errabondi della rivista, da una piazza all’altra, circondato da stupende soubrettine e altri cani sciolti» (Tullio Kezich).
• Trama del Petomane (uno degli ultimi film). In Francia, al tempo della Belle Epoque, Jospeh Pujol, marsigliese, è un virtuoso del peto che utilizza come strumento musicale. Il suo sogno è eseguire il ”Concerto degli addii” accompagnato dalla sua orchestra, dotata di strumenti normali, composta dai cinque figli. Uno di loro, però, non ci sta e a sostituirlo si presenta la violoncellista Catherine. Pujol se ne innamora e non ha il coraggio di mostrarle la sua abilità (1983, regia di Pasquale Festa Campanile).
• Sequenza finale. «Prima di girare, [Tognazzi n.d.r.] mi disse: ”Io non so interpretare la morte. Adesso mi abbraccio alla quercia, forte, forte, così lo spettatore avrà la sensazione che la fine dell’avventura non mi ha spazzato via”» (Alberto Bevilacqua).
• Massimo Causo è critico cinematografico di ”Cineforum” e altre testate. Ha pubblicato saggi su i gatti nel cinema, Michele Placido, Kathryn Bighelow.
Maschera comica e malinconica a un tempo, tombeur de femmes impenitente e padre premuroso di quattro figli avuti da tre unioni, Tognazzi, è stato l’interprete dell’italiano medio con tutte le sue contraddizioni e il suo fondo di umanità (là dove un Sordi più si è distinto nel compiacimento dei difetti, dei tic, dei vizi e delle miserie del nostro popolo).