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 2005  marzo 14 Lunedì calendario

La demagogia non costa niente: lo psicodramma dazi

• La demagogia non costa niente: lo psicodramma dazi.
Dal primo gennaio l’industria tessile europea non è più protetta dal cosidetto accordo multifibre. Ovvero non ci sono più limiti alle importazioni di prodotti tessili. Risultato: nei primi due mesi dell’anno sono arrivate sugli scaffali di negozi e bancarelle molte più camicie, magliette, pullover, biancheria intima e reggiseni made in China, con incrementi dal 20 al 788%. L’impennata è dovuta anche al calo dei prezzi, fino al 136%. Prendiamo le importazioni di scarpe: grazie a un prezzo medio di 2,36 euro che arriva a 10,38 per quelle in pelle o cuoio (dati Anci), sono salite del 1.000 (mille) per cento. Gli industriali italiani dicono che si tratta di costi inferiori a quelli delle sole materie prime utilizzate, ovvero accusano la Cina di esportare sottocosto (dumping) per mettere fuori dal mercato i concorrenti europei. A sostegno della loro tesi, citano la costante diminuzione dei prezzi medi: -12,6% nel 2002, -17,3% nel 2003, -10,6% nel 2004.
• Far concorrenza ai cinesi sul prezzo all’origine è impossibile. Cosa è possibile fare allora per difendere il mercato interno? Luisa Grion: "Bruxelles, l’unica autorità che può decidere in materia, indica 3 possibili strade: misure antidumping o antisovvenzione, misure di salvaguardia generali o ad hoc per la Cina e misure ancora più specifiche sul tessile cinese. Alcune sono già state sperimentate, altre ancora allo studio. Partiamo dai superdazi antidumping: si possono applicare quando le aziende di un paese extra-Ue esportano merci ad un prezzo inferiore a quello praticato nel paese d’origine creando danno all’economia comunitaria. Per l’antisovvenzione il dazio scatta invece quando le aziende esportatrici hanno ricevuto dal governo aiuti usati per tenere basso il prezzo. I casi già ”puniti” da Bruxelles sono 58, di cui 33 riguardanti merci prodotte in Cina. Si va dalle biciclette agli accendini, dalla tivù a colori ai dischetti del pc, ma per quanto riguarda il tessile c’è poco o nulla. I dazi infatti si applicano solo su 4 fibre sintetiche e un tipo di lenzuola di cotone, ma non vi è nulla che riguarda gli abiti e le calzature".
• Non resta che la misura di salvaguardia. Grion: "Bruxelles può in particolare intervenire contro la Cina se un aumento abnorme delle importazioni tessili da quel paese perturba o minaccia di perturbare il mercato. In questo caso la Ue può applicare limiti quantitativi all’import consentendo solo il 7,5% in più del volume di merci entrate l’anno precedente. La misura sembrerebbe fatta apposta per venire incontro alle aziende italiane, peccato che la Commissione non abbia ancora varato le linee guida necessarie alla sua applicazione".
• L’Ue è divisa. Giuseppe Sarcina: "L’Italia potrebbe contare sull’appoggio di Francia, Spagna e, tra i nuovi soci, di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Dall’altra parte, però, c’è la resistenza dei nordici, di Svezia, Danimarca, Finlandia e anche Gran Bretagna: tutti Paesi sostanzialmente senza più industrie tessili, ma vivamente interessati alla diminuzione dei prezzi prodotta dall’export cinese (l’Ocse ha calcolato un risparmio di 270 euro all’anno per una famiglia media europea)". Luciano Gallino: "Se dovessimo dar retta a Ricardo per regolare l’economia italiana e quella mondiale, come propongono alcuni economisti e le maggiori organizzazioni internazionali, non dovremmo esitare un istante: constatato che i cinesi ormai producono merci nel settore del tessile e abbigliamento a un costo assai più basso dell’Italia, questa dovrebbe uscire di corsa da tale settore, e cercare di occupare i lavoratori che così perdono il posto nella produzione di merci che alla Cina convenga comprare".
• Ricardo aveva forse ragione nel 1817. Gallino: "Purtroppo, trasferita ai giorni nostri, e applicata alle relazioni commerciali Italia-Cina, la sua teoria dei ”costi comparati” presenta vari inconvenienti. Il costo del lavoro in Cina è 20-25 volte inferiore a quello italiano. Nelle manifatture delle principali zone industriali il salario medio cinese è di circa 1.200 euro l’anno, e gli orari molto lunghi; quello italiano si aggira sui 1.200 euro al mese, guadagnato con orari più umani. Inoltre i prelievi obbligatori per l’assistenza e la previdenza raddoppiano il costo del lavoro in Italia, mentre poco aggiungono in Cina, dove il comunismo capitalista ha soppresso quel che esisteva del vecchio stato sociale, e si è ben guardato dallo svilupparne uno nuovo. Dal che deriva la disuguaglianza indicata".
• Allora, dazi italiani sulle merci cinesi? la battaglia della Lega, che li chiede a gran voce e per questo ha votato contro l’articolo 1 del pacchetto di misure sullo sviluppo (decreto legge più disegno di legge) varato venerdì dal Consiglio dei ministri. Calderoli ha subito annunciato la battaglia in Aula per modificare il testo del provvedimento. Francesco Giavazzi: "Quella che chiede al governo di essere protetta dai dazi è un’Italia senza idee, che non sa più innovare. Se produci tegole o tondino di ferro non hai speranza; ma l’Italia fortunatamente non è tutta così. Ci sono molte aziende che in Cina esportano e hanno capito che quello è il mercato al mondo che cresce di più. I dazi lo chiuderebbero". Diego Della Valle, presidente della Tod’s: "Siamo nella fase peggiore del ciclo e bisogna aiutare le aziende a superare la crisi. Ma quando anche in Cina e India le condizioni di vita e di reddito miglioreranno e anche là si svilupperà un mercato ”borghese”, il nostro prodotto artigiano, altamente qualitativo e ricco di storia avrà nuovi terreni di conquista". Gallino: "Anche se volessimo procedere con lo scenario socialmente intollerabile di qualche centinaio di migliaia di lavoratori disoccupati per mesi o per anni, in attesa di essere gradualmente rioccupati in settori più produttivi, in realtà noi non sappiamo più quali prodotti di massa potrebbero oggi interessare alla Cina. I prodotti di massa se li fabbricano sul posto, pure quelli con contenuti tecnologici elevati".
• Per i leghisti Della Valle è un campione del ”Fighetta style”. La concorrenza cinese, spiega il Carroccio attraverso la ”Padania”, ha già messo in ginocchio le piccole e medie imprese: "Si sente dire tanto c’è il made in Italy a salvare il sistema, c’è l’Italian style delle grandi firme. Non illudiamoci: anche il segmento del lusso è destinato a cadere". Antonella Baccaro: "Tra le grandi imprese che aprono stabilimenti in Cina e gli artigiani che chiudono bottega nei distretti ”fino a ieri fiore all’occhiello del nostro sistema economico e oggi fiore appassito”, il dialogo è agli sgoccioli". Alberto Brocca, direttore dell’Associazione industriali di Biella, sostiene che "a rappresentare interessi così diversi è meglio che ormai ci siano due associazioni di categoria distinte" perché "il made in Italy è quello fatto in Italia e non quello pensato in Italia e fatto altrove da uno che ha la residenza a Montecarlo...". Della Valle: "Io - che vendo dappertutto - produco solo qui. Appunto per questo posso permettermi di intervenire per dire che non sopporto la trasformazione in immondizia di qualunque cosa purché, per qualcuno, sia politicamente conveniente farlo".
• La Lega cavalca l’allarme-Cina per scopi elettorali. Perciò ha lanciato una battaglia d’immagine sui dazi pur sapendo che sono illegali (e di sola competenza di Bruxelles). Luigi La Spina: "Che brutto sintomo quando, di fronte a problemi nuovi, l’Italia sembra rifugiarsi nelle antiche nicchie di ideologie che non servono a capire le rapide trasformazioni dell’economia contemporanea, ma aiutano a coprire (mica tanto) robusti interessi elettorali con più nobili parole d’ordine. Tutti sanno che in Europa non si possono imporre dazi per tutelare le economie nazionali, ma si può parlarne, perché la demagogia non costa niente. Ma tutti sanno anche che la concorrenza sleale è una pratica corrente in campo internazionale e non è giusto ignorarla. Del resto, il dumping non è l’alterazione di quelle regole del mercato a cui proprio i liberisti inneggiano?".
• Il dramma dell’industria tessile non è un’invenzione della Lega. Per raccogliere 350.000 firme contro le importazioni asiatiche hanno lavorato assieme Cgil e Confindustria. Rampini: "In una lettera a ”Repubblica” la leader dei tessili Cgil, Valeria Fedeli, spiega che il sindacato chiede ”il rispetto dei diritti fondamentali” anche per gli operai cinesi. Buona idea. Una settimana fa al Congresso del Popolo a Pechino il procuratore generale ha fornito questo dato ufficiale: l’anno scorso 800.000 cinesi sono stati arrestati o perseguiti per ”attentati alla sicurezza dello Stato”. Sotto quella definizione rientrano anche scioperi, conflitti sul lavoro, l’organizzazione di sindacati liberi, tutti reati colpiti dalla legge. Delors, quando guidava la Commissione, denunciò il ”dumping sociale”: l’apertura delle frontiere può portare una concorrenza al ribasso sui diritti dei lavoratori, se a vincere sono i paesi che non hanno sindacati né Welfare".
• Bisognerebbe formulare altre risposte. Gallino: "Alle migliaia di imprese europee e americane operanti in Cina i bassi salari e le cattive condizioni di lavoro delle zone industriali, che diventano pessime nelle zone franche di lavorazione ed esportazione dove lavorano per loro trenta milioni di persone, in fondo vanno benissimo. Infatti permettono di fare grandi profitti. E vanno bene anche a noi come consumatori, perché senza il lavoro di giovani donne pagato due dollari al giorno, nelle zone franche, noi non avremmo il piacere di comprarci, ad esempio, un PC superdotato per meno di mille euro. Bisognerebbe quindi chiedere alle imprese in questione se non sarebbero disposte a pagare salari un po’ più elevati nelle tante fabbriche cinesi che a loro, in una forma o nell’altra, fanno capo, come sussidiarie o fornitrici; e magari a permettere addirittura l’ingresso nelle fabbriche di rappresentanze sindacali".
• Bloccare il made in China non aiuterebbe i lavoratori cinesi. Rampini: "Dieci milioni di contadini cinesi che ogni anno abbandonano per sempre i villaggi e si trasferiscono stabilmente in città, lo fanno perché guadagnano dal triplo al quintuplo che nei campi: anche nelle fabbriche insalubri e pericolose, con orari massacranti, senza ferie e senza diritti. Se si ferma la locomotiva cinese per loro sarà una tragedia. come se negli anni 50 la Germania avesse escluso l’Italia dalla Comunità europea, protestando che i nostri operai e braccianti erano sfruttati e sottopagati rispetto ai suoi (lo erano): forse non ci sarebbe stato un miracolo italiano. una trappola micidiale, la pretesa di competere solo con quelli come noi. Perfino tra ricchi non ci s’intende sui diritti. Delors non riuscì a far firmare la Carta sociale alla Thatcher. Ancora oggi il governo Blair rifiuta di applicare le direttive europee sui diritti delle mamme che lavorano".
• Naturalmente le differenze con Pechino sono ben più profonde. Rampini: "Ma anche se cominciasse oggi in Cina quel che avvenne in Italia dopo il boom del dopoguerra - l’ascesa dei sindacati, l’autunno caldo, le conquiste sociali - quanto tempo ci vorrebbe per far crescere i salari cinesi fino ai nostri livelli? Le differenze di costo nel settore delle calzature sono da uno a sei fra la Cina e noi. Anche in uno scenario ideale, di libera espressione di tutte le rivendicazioni sociali, quanto ci metterebbe la paga cinese a moltiplicarsi per sei? Basterebbero trent’anni? (Attenzione prima di rispondere: dalla creazione del mercato comune europeo nel 1957 a oggi, i salari italiani ancora non si sono allineati a quelli tedeschi). Nel frattempo che cosa sarà accaduto al tessile-abbigliamento made in Italy, se pensa di campare su queste illusioni?".
• Il caso Robe di Kappa. Marco Boglione è l’azionista di riferimento di Basicnet, società che possiede i marchi Kappa, Robe di Kappa, Jesus Jeans, K-Way e Superga. Ma anche una delle società che ha grandi legami con la Cina. Maria Silvia Sacchi: "Fin dall’inizio produce tutto là. Ha un accordo forte con il licenziatario Li-Ning. E, soprattutto, è una società quotata che ha tra i suoi soci importanti un gruppo cinese: Li & Fung, una grande trading company quotata a Hong Kong, 5 miliardi di dollari di ricavi". Boglione: "Dieci anni fa ho comprato un’azienda fallita e l’ho reinventata contando su decisioni che in gran parte erano già state prese e altre che dovevano arrivare e che mi hanno permesso di produrre tutto in Cina fin dall’inizio. Oggi al consumatore non importa nulla di dove viene prodotta una cosa, mentre c’è interesse per i marchi, per il valore che il prodotto trasferisce sul consumatore grazie alla comunicazione".
• Oggi non c’è più alcun vantaggio a produrre in Cina: è obbligatorio. Ma gli italiani che lavoro faranno? Boglione: "Devono trovare qualcos’altro... Ma tagliare e cucire magliette non è il solo lavoro che si deve fare in un Paese evoluto. Noi ne siamo un esempio: la nostra azienda pre-fallimento occupava 200 dipendenti tra operai e impiegati, mentre oggi ne ha più di 400, non c’è più un operaio, vendiamo in 90 mercati e portiamo prodotto lordo all’Italia per una bella cifra [...] Le aziende del nostro Paese si rafforzeranno se saranno capaci di mantenere la sede, la cultura e l’immagine da noi. Non credo proprio che qualcuno compri Armani per portarlo in Cina".
• Molte marche italiane sopravvivono solo perché hanno costi cinesi. Rampini: "Nell’abbigliamento e non solo. Mobili, lampade, occhiali: interi settori dello stile italiano hanno conservato in patria direzione strategica, progettazione e design, ma producono in Cina. la logica specializzazione di un paese avanzato che per i suoi figli vuole un futuro da manager, non da operai. Però lo stile-Italia che si regge sul sudore delle braccia cinesi non lo dice ad alta voce, e questo altera la nostra percezione dei vantaggi-svantaggi della globalizzazione".
• La contraddizione è così acuta che attraversa una stessa famiglia-simbolo. Ermenegildo Zegna continua ad annunciare nuovi successi in Cina. Paolo Zegna è alla testa degli industriali che raccolgono firme, e volenti o nolenti eccitano gli appetiti elettorali della Lega.