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 2016  novembre 11 Venerdì calendario

Condizioni

• Condizioni. «New York può distruggere un individuo oppure soddisfarne le aspettative, e questo dipende in gran parte dall’arbitrio della fortuna. Nessuno dovrebbe venire a vivere a New York a meno di sentirsi intenzionato a essere fortunato».
• Suoni. «Ho sentito suonare la sirena della Queen Mary una notte a mezzanotte e quel suono aveva dentro tutta la storia delle partenze, dell’assenza e della perdita».
• Occasioni. «In campagna ci sono poche occasioni per rianimarsi di colpo, magari un cambiamento del clima o qualcosa che arriva con la posta. A New York le occasioni sono infinite».
• Significati. «La città è come la poesia: comprime tutta la vita, tutte le razze in una piccola isola e poi aggiunge la musica e l’accompagnamento dei suoi motori interni. L’isola di Manhattan è senza dubbio il più grande concentrato umano sulla terra. La magia della sua poesia parla a milioni di residenti, ma il suo pieno significato rimarrà sempre inafferrabile».
• Maestosità. «Manhattan è stata costretta a crescere in altezza per mancanza di altre direzioni in cui espandersi. Da questo, più che da qualunque altra cosa, dipende il suo aspetto maestoso».
• Galloni d’acqua. «Il semplice fatto che New York funzioni è già di per sé un miracolo. Nulla in questa città è plausibile. Ogni volta che gli abitanti si lavano i denti, milioni di galloni d’acqua vengono prosciugati dalle Catskills e dalle colline di Westchester».
• Senso di appartenenza. «Ogni servizio è inadeguato; ospedali, scuole e parchi-gioco sono sempre troppo affollati, le autostrade a scorrimento veloce sono sempre percorse da un traffico febbrile, mentre le strade e i ponti ancora non sottoposti a migliorie sono perennemente ingorgati. Non c’è abbastanza aria né abbastanza luce e per lo più fa troppo caldo o troppo freddo. Ma la città pone riparo alle sue mancanze e ai suoi contrattempi con massicce dosi di una vitamina extra: il senso di appartenere a qualcosa di unico».
• Città nella città. «Ogni zona è una città nella città. Così, indipendentemente da dove abiti a New York, troverai una drogheria, un barbiere, un giornalaio, e un lucidascarpe, un carbonaio che vende anche ghiaccio e legna (e dove scrivi il tuo ordine su un blocchetto quando ci passi), un lavasecco e una lavanderia a gettone, un negozio di delicatessen (che ti assicura anche la pronta consegna di birra e panini a qualsiasi ora), un fioraio e un negozio di pompe funebri, un cinematografo e un negozietto che ripara le radio, un cartolaio, una merceria, un sarto, un farmacista, un garage, una sala da tè, un bar, un ferramenta, un’enoteca e un calzolaio».
• Proibizionismo e bollette. «Sono le sette del pomeriggio e riesamino un locale della 53esima Strada di quelli dove in epoca proibizionista spacciavano alcol, con la mezza idea di andarci per cena. C’è una piccola folla, un leggero ronzio di ventilatori a tratti interrotto da un brindisi di qualcuno al bar. buio dentro, il proprietario non vede perché dovrebbe far salire il conto della luce alle stelle solo perché sono cambiate le leggi sulla vendita dei liquori».
• Luci di posizione. «In alto passa un aeroplano con le luci di posizione che sembrano ammiccare».
• Pozzi. «Durante i week end estivi la città si svuota. Vado nel mio ufficio di sabato pomeriggio. I telefoni non squillano, nessuno mette i fogli nelle vaschette affamate con scritto IN, nessuno mette in disordine i giornali. un edificio fantasma, un momento di spaventosa sospensione. La città è un alveare pieno di cellette abbandonate – un carcere da cui sono davvero riusciti a scappare. Di tanto in tanto da qualche parte dell’edificio suona un campanello, qualcuno chiama l’ascensore – parte una sirena antincendio. Sabato d’estate in ufficio: il pozzo della solitudine».
• Sfumature. «Gli edifici di mattoni hanno un modo di trasformare la luce verso il tramonto, come una rosa rossa che appassisca prendendo sfumature blu».
• Notti. «Nelle notti d’estati gli ubriachi dormono all’aperto».
• Proiezioni. «I cittadini di New York sono tolleranti non solo per vocazione ma anche per necessità. Se la città non fosse tollerante esploderebbe in una nube radioattiva di odio, rancore e fanatismo. Se la gente dovesse allontanarsi per un attimo dal pacifismo dei rapporti cosmopoliti, la città esploderebbe proiettata nel cielo più alta di un aquilone».
• Stormi. «La trasformazione più sottile di New York è qualcosa di cui nessuno parla mai, ma a cui tutti quanti pensano. La città, per la prima volta nella sua lunga storia, è distruttibile. Una singola flotta aerea non più grande di uno stormo di oche può mettere rapidamente fine alla fantasia di quest’isola, bruciare le torri, frantumare i ponti, trasformare le metropolitane in camere a gas, cremare milioni di persone. L’intuizione della sua natura mortale è insita nella New York di oggi: è nel rumore dei jet che ci sorvolano, è nelle testate listate a lutto dell’ultima edizione straordinaria».
• Continuo costante puntare. «Un isolato o due a ovest della nuova Città dell’Uomo, a Turtle Bay, un vecchio albero di salice vigila su un giardino interno. un albero malconcio, da tempo malato e troppe volte scalato, tenuto insieme da fili di ferro, ma amatissimo da chi lo conosce. In un certo senso è il simbolo della città: la vita in mezzo alle difficoltà, la crescita a dispetto delle circostanze avverse, la linfa che riesce a salire a salire su dal cemento e il continuo costante puntare verso il sole».
• Nel 1948, la rivista di viaggi ”Holiday” commissiona a White un articolo su New York, città dove il celebre giornalista, divenuto caporedattore per la fiction del ”New Yorker”, è arrivato carico di speranze e che ha lasciato per ritirarsi in campagna. Ci torna così, d’estate, mentre New York è deserta. Rimette piede in redazione, osserva i palazzi vuoti che d’inverno fervono di vita. Nel rievocare ciò che la città è stata e come stia cambiando, ne sottolinea la crescita vertiginosa che la rende non solo fragile ma anche sempre più attraente per chi voglia distruggerla. Il finale, per come è profetico, sembra scritto dopo l’11 settembre. Edmund B. White, o come lo chiamavano gli amici ”Andy”, è stato caporedattore per la fiction del ”New Yorker”. Per i suoi scritti, formalmente semplici ed elegantissimi, vince il premio Pulitzer nel 1978. scomparso nel 1985. E. B. White, ”Volete sapere cos’è New York?”, Arcanapop Pagine 56, 7,75 euro