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 2016  novembre 11 Venerdì calendario

Il Giappone e la gloria

• Nagashime, alla lettera "occhi fluttuanti", da sempre giudicati in Giappone un segno tipico della bellezza femminile. Si tratta di un modo civettuolo di guardare storto con gli occhi sempre truccati di rosso e di nero, rappresentato anche nelle xilografie delle cortigiane.
• Un tempo, alla fine dell’inverno, i giovani maschi dei villaggi partecipavano alle ”feste nude”, frenetici riti di fertilità, ballando vicino ai templi con indosso soltanto un perizoma.
• Per corteggiare le ragazze, i giapponesi utilizzavano un rito di nome Yobai, che vuol dire "strisciare notturno". Il giovane si introduceva nella casa sul far della sera, se lei non lo respingeva i due restavano insieme fino all’alba. La faccenda andava avanti finché gli amanti non decidevano di sposarsi (o di lasciarsi). Spesso lo Yobai veniva concesso anche ai visitatori, specialmente nelle zone più isolate, forse per impedire accoppiamenti tra consanguinei. Molti giapponesi, attualmente, ignorano il significato di questa parola.
• Dopo i mutamenti subìti nel 1868, la lingua giapponese è stata del tutto rivoluzionata nel 1945, quando sono spariti centinaia di ideogrammi in uso prima della guerra. Per questo motivo molti giovani non comprendono la prosa scritta prima del 1945, e perfino parecchi intellettuali non sono capaci di leggere testi precedenti al 1868.
• In Giappone si usano due alfabeti: hiragana (scrittura corsiva utilizzata per trascrivere il giapponese sillabico) e katakana (scrittura usata per trascrivere parole straniere in giapponese sillabico).
• In Giappone, negli anni Sessanta, erano ancora visibili i segni dell’occupazione americana, finita formalmente nel 1952. Ad esempio, erano in corso le speciali banconote con le facce dei divi del cinema stampate per combattere il mercato nero.
• Nel 1964 il cambio dello yen era 360 per dollaro, quattro volte quello odierno.
• La fase di incontrollato e rapidissimo sviluppo economico degli anni Ottanta, basato soprattutto sul mercato immobiliare, viene chiamata Baburu, cioè "bolla di sapone".
• Il teatro kabuki venne fondato da una compagnia di donne nel Seicento. Durante il periodo Edo le femmine vennero però escluse dal kabuki perché considerate "ispiratrici di comportamenti immorali" e sostituite da attori maschi (onnagata). Ancora oggi, gli attori sono classificati in base all’importanza dei nomi di famiglia: chi non nasce in una famiglia kabuki è condannato a restare kuroko, inserviente di scena. Rare le eccezioni, in caso di talenti eclatanti.
• Nel kabuki gli spettatori mostrano il loro entusiasmo urlando lo yago, il nome d’arte dell’attore, proprio nei momenti di maggior intensità drammatica, quando in Occidente si osserva un religioso silenzio. Alla fine della rappresentazione, si alzano e se ne vanno senza applaudire. Gli omuko, "uomini di fondo", sono i maestri nell’arte di gridare lo yago. Disprezzo generale verso i "dilettanti" che mostrano scarso tempismo.
• Nel teatro kabuki esiste un cambio d’abito che si fa in scena: si chiama "hikinuki", alla lettera "tirare i fili". L’attore indossa due kimono, uno sull’altro, quello più esterno appena impunturato con lunghi fili di cotone. Al momento prestabilito inservienti di scena vestiti di nero tirano i fili e l’attore compare d’un tratto con un kimono nuovo.
• Molte forme espressive giapponesi sono cadenzate da un ritmo di quattro fasi, jo, ha, kyu, zanshin (lento, più veloce, veloce, stop), giudicato dai maestri il ritmo fondamentale della natura. Ad esempio il movimento dei piedi e il gesto di aprire il ventaglio dei danzatori No, ma anche, nella cerimonia del tè, lo strofinamento del mestolino con un panno di seta chiamato fukusa.
• Le antiche case giapponesi sono progettate in modo da "mostrarsi" per gradi, come se si svolgesse il rotolo di un dipinto: il muro di cinta, un giardino, un cancello, un altro giardino, infine le stanze, vuote al punto da sembrare spoglie, circondate oltre che unite dai corridoi. In estate spesso si tolgono le porte per far circolare in tutti i locali la luce e la brezza.
• La prima strada pubblica nella valle di Iya, aperta negli anni Venti, fu scavata nella roccia a forza di braccia (ci vollero vent’anni).
• Quando abbandonavano le loro case per trasferirsi in città, i contadini giapponesi non si portavano dietro nulla: le abitazioni rimanevano intatte, chi vi entrava trovava suppellettili, abiti, libri.
• Le vecchie abitazioni giapponesi hanno spesso spazi angusti creati da porte scorrevoli di carta: questi ambienti, chiamati shoji o fusuma, erano necessari per garantire la privacy delle famiglie numerose e per riparare dal freddo. Adesso, quando si ristruttura una vecchia casa, vengono sempre abbattuti.
• Nella valle di Iya, dove si rifugiarono i sopravvissuti del clan Heike dopo la lunghissima guerra contro il clan Genji (1190-1920), ancora nel 1972 la gente viveva come nel Medioevo: i contadini indossavano abiti impermeabili di paglia intessuta, nelle case si cucinava su un focolare scavato nel pavimento. Le abitazioni, con i tetti protesi verso l’alto come quelli delle chiese, spesso non avevano soffitto per l’abitudine di far essiccare le foglie del tabacco appendendole sul focolare: il fumo e la fuliggine del focolare aperto, sempre acceso, annerivano gli interni (effetto chiamato dai giapponesi kurobiraki, "luccicamento nero").