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 2005  gennaio 10 Lunedì calendario

Lo tsunami che il 26 dicembre ha colpito il Sud-Est asiatico è una tragedia umana, non una catastrofe economica

• Lo tsunami che il 26 dicembre ha colpito il Sud-Est asiatico è una tragedia umana, non una catastrofe economica. Maurizio Ricci: "Non intaccherà il miracolo economico dell’Asia meridionale. Il prodotto interno lordo dell’area dovrebbe ridursi solo di qualche decimo di punto, meno di quanto avvenne con l’epidemia della Sars. Nessuna grande infrastruttura (come il porto di Madras), nessuna zona di sviluppo intensivo (come le fabbriche di chip di Penang, in Malaysia o l’industria delle scarpe in Indonesia) è stata colpita". Danilo Taino: "Zone povere, quelle devastate: il valore materiale di ciò che è stato spazzato via, dunque, non è altissimo".


• Al mercato assicurativo dei Lloyd’s si parla di non più di 20 miliardi di dollari (15 miliardi di euro). Anche i danni alle principali attività economiche (pesca e turismo), che tanto preoccupano la Banca Mondiale, potevano essere ben peggiori: secondo Standard Chartered la Thailandia vedrà ridursi la crescita del suo Pil di meno dell’1 per cento; lo Sri Lanka del 2; le Maldive, dove il turismo è più importante, del 4 per cento; l’Indonesia, la più devastata ma non nelle sue raffinerie, del 2 per cento. Conclusione: nel 2005 questi Paesi dovrebbero continuare a crescere con ritmi tra il 4 e il 6 per cento.
• Per ricostruire quanto distrutto dal maremoto serviranno comunque molti soldi. Almeno 6 miliardi di dollari, per cominciare. A Befana gli aiuti internazionali ammontavano già a 3,5 miliardi: la maggior parte (3 miliardi) promessi dai governi, il resto (500 milioni) grazie a donazioni private (calcolo Reuters su fonti delle agenzie Onu). Taino: "Gli aiuti internazionali, addirittura, potrebbero dare una spinta a una parte delle economie, in particolare costruzioni, cementifici, siderurgia. Fare previsioni più precise oggi, però, sarebbe avventuroso. Anche perché se è vero che lo sforzo internazionale è alto, è altrettanto vero che niente è sicuro al cento per cento". Andrea Lavazza: "Anche in occasione di altre catastrofi recenti alcuni Paesi sono risultati donatori soltanto a parole. L’Iran aspettava un miliardo di dollari dopo il disastroso terremoto di Bam di fine 2003, ne avrebbe ricevuti meno del 5 per cento".
• Non tutti i Paesi stanno esibendo il medesimo ”spirito di solidarietà”. Vittorio E. Parsi: "Sono terribilmente esigui i fondi fin qui messi a disposizione da Cina e Russia. Per chi aspira alla leadership in Asia o a tornare una grande potenza planetaria si tratta di una miopia incomprensibile. Nel confrontare quelle cifre con i milioni di dollari messi a disposizione dagli altri singoli Paesi verrebbe da chiedersi se la necessaria prospettiva multipolare sta veramente facendo dei passi avanti significativi. Neppure i sauditi, sempre prodighi quando si tratta di finanziare la costruzione di qualche moschea di osservanza wahabita (persino in Cambogia e in Thailandia) si stanno dimostrando molto solidali con i loro fratelli indonesiani".
• Nella geopolitica degli aiuti, la solidarietà è una mano sul cuore e un’altra sugli interessi delle potenze. Parsi: "E se Giappone e Germania non lesinano fondi, anche in vista del loro status di candidati a un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’Australia, che non chiede e non si aspetta niente, ha già promesso 800 milioni di dollari. La generosità di Canberra si spiega anche con la prossimità geografica, non c’è dubbio. ragionevole che gli australiani temano di essere sottoposti a una eccezionale ondata migratoria, e in un modo certamente più nobile e lodevole di altri si provano a prevenirla".
• Per i paesi ricchi questa calamità rischia di diventare business as usual. Federico Rampini: "La solidarietà ha l’etichetta con il prezzo, gli aiuti sono merce di scambio sulla scacchiera dell’influenza geopolitica". Alberto Negri: "L’aiuto internazionale, anche in casi di emergenza, non è uno strumento neutrale ma una potente leva della politica estera, spesso con contenuti ideologici di campo, collegata a interessi economici, alla penetrazione commerciale, è un modo concreto per sottolineare il prestigio di una nazione, l’influenza che investe i campi più diversi, da quello militare a quello culturale. Si tratta di un’industria con un fatturato annuo valutato 60 miliardi di euro mentre 500 mila persone vi lavorano in modo diretto o indiretto".
• Sulla gestione di questa emergenza si è aperta una partita strategica. Taino: "Ed è chiaro che l’America ha deciso di cogliere l’opportunità: questa volta la forza dei suoi muscoli servirà a guidare gli aiuti e, parallelamente, a cercare di rilanciare la sua reputazione di ”impero del bene” intaccata dalla guerra in Iraq specie nel mondo islamico. ”Il fatto che sia una nazione musulmana - ha commentato Powell parlando dell’Indonesia - accresce l’importanza dello sforzo”". Rampini: "In quest’area del mondo non c’è solo l’Islam. Questo è il palcoscenico su cui si ”allarga” il nuovo rivale strategico dell’America. Perfino il critico ”New York Times” stavolta si compiace nel contare i punti che il maremoto fa guadagnare agli Stati Uniti: ”La nuova e crescente influenza della Cina in Asia, che secondo alcuni esperti è stata conquistata a spese nostre, sta mostrando i suoi limiti: l’aspirante superpotenza gioca un ruolo attivo ma secondario nella risposta alle devastazioni dello tsunami. La Cina è rimasta a guardare mentre le nostre navi militari raggiungevano velocemente quella zona, e gli elicotteri americani cominciavano a rifornire di cibo e medicine le aree più disastrate”".
• Appena due mesi fa la situazione era diversa. Taino: "Il terremoto nell’Asia del Sud non ha solo spostato di qualche centimetro l’asse della Terra: probabilmente ridisegnerà, attraverso le politiche degli aiuti, anche l’asse delle amicizie diplomatiche". Rampini: "Al vertice Asean dei paesi del sud-est asiatico a novembre gli Stati Uniti erano eclissati mentre tutti ”flirtavano” con la potenza economica cinese. Mentre Rumsfeld a causa dell’Iraq annunciava riduzioni di truppe in Corea e in Giappone, Pechino investiva nel potenziamento della sua flotta militare. Come l’Inghilterra dell’Ottocento e l’America del Novecento, la Cina è ”costretta” dalla sua rivoluzione industriale a diventare una famelica consumatrice di materie prime dal mondo intero, e quindi a proiettare la sua forza militare sui mari per garantirsi la sicurezza negli approvvigionamenti".
• Ora la Cina deve imparare oneri ed onori che accompagnano il suo nuovo status. Rampini: "Per la prima volta quest’anno diventerà un paese donatore, e non beneficiario, degli aiuti allo sviluppo. Di fronte alle immagini dello tsunami, il nuovo ceto medio cinese ha avuto la stessa reazione degli americani e degli italiani: ha donato su Internet, attraverso giornali e tv, usando strumenti di beneficenza privata un tempo estranei all’ideologia comunista. Ma i mezzi sono ancora limitati. I 70 milioni di dollari donati da Pechino alle vittime del maremoto valgono un anno di reddito per 70.000 contadini cinesi".
• Il maremoto è per gli Usa l’occasione di ricostruirsi un’immagine nella regione. Francesco Sisci: "Washingon infatti, dopo la crisi finanziaria del 1997, è oggetto di aspri malumori. I giornali non avevano avuto dubbi a identificare a Wall Street la regia della crisi. Inoltre le condizioni degli aiuti del Fondo monetario internazionale ai paesi in crisi dopo il 1997 spesso non avevano migliorato la situazione ma l’avevano peggiorata. L’Indonesia in particolare era già stata la più colpita dalla crisi che ha visto polverizzato, con la svalutazione della moneta locale, l’80 per cento della sua economia". Gianni Sofri: "Lo spettacolo dei soldati americani che, sul territorio del primo Paese musulmano del mondo per numero di abitanti (e di fedeli dell’islam), portano in salvo e curano feriti e scaricano viveri dai loro elicotteri, potrebbe anche, nelle speranze degli Stati Uniti, attenuare i rancori e i sentimenti americani diffusi nel mondo islamico dopo l’intervento in Iraq".
• Nella sfida alla Cina, Bush può contare sull’aiuto di due alleati fedeli: Giappone e Australia. Gianni Sofri: "L’Australia, che pensa se stessa come una sorta di vice sceriffo nel Pacifico Sud, ha potuto farsi riaccettare dall’Indonesia interrompendo il gelo provocato dal suo intervento, sei anni fa, a Timor Est. Il Giappone ha riaffermato il proprio ruolo di potenza non solo economica e il proprio rientro nel ”grande gioco” geostrategico dell’Asia orientale: ha stanziato fondi assai rilevanti, ha inviato navi e soldati in missione umanitaria, ha messo a disposizione (in proiezione futura, ormai...) la propria esperienza di terremoti e tsunami, e di soccorsi. Soprattutto, ha potuto far ricorso, nei confronti della Cina, a una presenza più consolidata tra i grandi dell’economia, e anche a una maggiore esperienza internazionale".
• Con aiuti per 500 milioni di dollari, il Giappone è in cima alla lista dei soccorritori. Sisci: "Ma questa non è una novità. Da decenni Tokyo è in prima fila in operazioni umanitarie in tutto il mondo. Nuovo è invece l’impegno dell’India che, pur gravemente colpita, ha rifiutato ogni aiuto esterno e ha mobilitato la marina militare. Dieci navi da guerra, seguite da decine di elicotteri sono state fatte intervenire sulla costa orientale per portare soccorsi in quella che è la sua area di influenza politica, Sri Lanka, Bangladesh, le isole Maldive e anche nell’epicentro del disastro, l’Indonesia. Inoltre, appena poche ore dopo la tragedia, le forze armate indiane hanno preso contatto per coordinare gli aiuti con Stati Uniti, Australia e Giappone. Anche questa era una novità per l’India".
• L’India ha rifiutato gli aiuti internazionali per riaffermare il suo ruolo di potenza regionale. Gianni Sofri: "E anche se la sua capacità di soccorrere autonomamente le proprie popolazioni colpite (soprattutto nelle Andamane) non è stata certamente all’altezza del suo orgoglio, le sue ambizioni geostrategiche sono state in qualche modo premiate dall’ingresso nella coalizione voluta da Bush. La cui strategia asiatica sembra per il momento in grado di isolare la Cina accerchiandola con l’aiuto di India, Giappone, Australia". Sisci: "Ma la partita è ancora lunga. I cinesi possono sfruttare un altro elemento accanto alle collette per gli aiuti: un’ondata di turisti nei paesi del Sud est asiatico per la festa della primavera, l’8 febbraio. Questi turisti saranno probabilmente i soli a scegliere queste mete, rianimando un settore economico che è sull’orlo del disastro. probabile infatti che gli occidentali ancora timorosi si asterranno per ora da viaggi nella regione. Oltre un milione di turisti cinesi potrebbe andare a Bangkok e nel sud est asiatico rivitalizzando la zona in un momento critico per l’economia del paese. In media il viaggio di un cinese costa oltre 2 mila dollari, l’esodo di primavera potrebbe portare due miliardi di dollari direttamente a chi ne ha bisogno. E riaffermare la concreta influenza dei cinesi in questa zona del mondo".
• Anche l’Onu, come gli Usa, vede nello tsunami l’opportunità di rifarsi un’immagine. Parsi: "Il Palazzo di Vetro ha davanti a sé un compito gravoso e insieme l’opportunità di dimostrare sul campo, e non nelle sale stampa o nelle conference rooms, che la sua costosa macchina organizzativa vale la spesa. Non c’è dubbio che essa abbia bisogno di un successo, oggi più che mai. Il suo credito è stato scosso sia dall’incapacità politica di giocare un ruolo rilevante in un numero crescente di crisi internazionali (non solo l’Iraq, ma anche la Regione dei Grandi Laghi e la Costa d’Avorio, la Bosnia e il Kosovo), sia dagli scandali che l’hanno coinvolta. L’ultimo, per molti aspetti il più grave, è quello che ha visto funzionari corrotti lucrare sulla pelle degli iracheni affamati, prelevando cospicue somme dal programma Oil-for-food".
• Resta da dire, malinconicamente, dell’Europa. Parsi: "L’Europa, intesa come Unione, era partita bene. Anche per l’elevato numero di vittime dal passaporto comunitario si era mossa con tempestiva generosità. Peccato che siano già iniziate le manifestazioni di sciovinismo, a dimostrare ancora una volta quanto sia lontana la retorica ”europarda” dalla realtà. Nei mesi addietro il governo tedesco ci aveva spiegato come fosse del tutto preferibile in chiave europea che la Germania, e non l’Unione, ottenesse un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza. Ma nei giorni scorsi, la Francia (subito smentita da Bruxelles) rivendicava il suo diritto a coordinare gli aiuti europei, fornendo l’ennesima dimostrazione che, magari inconsapevolmente, per Parigi l’Unione è protesi e sostegno della propria politica estera. Se questo è il modo con cui l’Europa ”potenza civile” assume le proprie responsabilità internazionali e si pone a esempio per gli altri, allora fan bene gli inglesi a occuparsi per proprio conto dei propri aiuti. Ma così non è".
• La polemica riguarda la responsabilità del coordinamento. Anna Maria Merlo: "Troppi candidati si affollano: la Commissione rivendica il coordinamento del meccanismo della protezione civile, subito allertato sotto la direzione del commissario all’ambiente, Stravos Dimas. Ma la Francia, secondo il ministro degli interni Dominique de Villepin, avrebbe il compito di coordinare i soccorsi europei in Asia, cosa che la Commissione smentisce piccata. In realtà, sono i francesi a gestire ”il coordinamento operativo”, ha spiegato il primo ministro Jean-Pierre Raffarin, in Sri Lanka e in Indonesia, per il semplice motivo che la Commissione ha finanziato l’invio di esperti di varie nazionalità e ci sono due francesi in Indonesia e un francese (assieme a uno svedese) in Sri Lanka. Per evitare che in seguito una simile confusione si ripeta, la commissaria alle Relazioni esterne, l’austriaca Benita Ferrero-Walden, propone la creazione di un corpo di 5 mila esperti europei, pronto ad intervenire sui luoghi del disastro. Già Jacques Chirac aveva proposto ”una forza umanitaria di reazione rapida” ma aveva sollevato aspre critiche, su un nuovo ”coso” macchinoso in più".
• In ogni caso, lo tsunami ha messo in luce l’assoluta inadeguatezza del sistema internazionale degli aiuti. Il G7 ha approvato una moratoria sul debito estero dei paesi colpiti, ma - dice Luca De Fraia di Action Aid International - "manca un sistema per affrontare le crisi debitorie. Nel 2001 l’Fmi aveva avanzato proposte, ma sono rimaste tali". In questa situazione il rischio è che il mondo sia colpito da una crisi di ”affaticamento” a causa della quale, dopo il grande sforzo, non restano più energie e risorse per altre aree di crisi o per la ricostruzione di lungo periodo. Taino: "In Africa ogni 18 giorni muoiono, di solo Aids, tante persone quante ne sono morte nel terremoto e nello tsunami asiatici. Il luogo dove ha davvero senso parlare di cancellazione del debito è quello". Ricci: "Da Harvard, un grande esperto di cooperazione internazionale come Jeffrey Sachs sottolinea che i 150 mila morti dello tsunami sono un tributo atroce, ma che, con metà dei soldi raccolti in pochi giorni per l’Asia, si potrebbe dotare il terzo mondo di un numero di zanzariere sufficienti a debellare la malaria, che, di morti, ne fa 165 mila al mese".