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 2005  gennaio 31 Lunedì calendario

A Davos il capitalismo narcisista s’è fatto umanitario
"La settimana di inventario globale"

• A Davos il capitalismo narcisista s’è fatto umanitario
"La settimana di inventario globale". Così Timothy Garton Ash ha definito il ”World Economic Forum” che mercoledì scorso ha preso il via a Davos. [1] Lo stesso giorno è iniziato a Porto Alegre il ”World Social Forum”, la cosiddetta "Davos dei poveri". Tra le duemila persone convenute nella cittadina svizzera c’erano 100 capi di governo e 50 manager di multinazionali. Tema: "La responsabilità di scelte difficili", in agenda analisi della povertà, del clima, dell’economia internazionale, della guerra in Iraq e della situazione in Medio Oriente. [2] In Brasile si sono riuniti ecologisti e femministe, militanti con i sandali e militanti con gli anfibi, Lulisti e antilulisti, piqueteros argentini, zapatisti messicani e zapateristi radicali spagnoli, seguaci di José Bové e supporter di Hugo Chavez. Obiettivo: approntare la transizione "dall’utopia alla pratica".
• Il Social Forum (chiude oggi) era diviso in 11 aree tematiche. Tra queste: il debito estero, la difesa dall’acqua (tsunami) e la difesa dell’acqua (come bene non privatizzabile), la liberalizzaione dei medicinali anti-Aids e le elezioni "farsa" in Iraq. Benedetto Vecchi: "Cinque chilometri tra tende, tendoni, accampamento della gioventù e edifici del vecchio porto. Il forum sociale mondiale è sicuramente la più grande università libera del mondo. E come in ogni città universitaria è popolata di uomini e donne con blocchetto degli appunti, penna e registratore". Roberto Da Rin: "Più che un Forum pare una reminiscenza di Woodstock, una sua rivisitazione in un contesto geografico meno ostile, la pampa brasiliana".
• Davos (ha chiuso ieri) è il tempio del narcisismo capitalista. O almeno così la pensano in tanti, a partire da Christine Ockrent di France 3. Stefano Lepri: "Discute di come far proseguire la globalizzazione, ossia di come continuare a fare affari in tutto il mondo; e cerca soluzioni diverse dalla strategia americana della forza. Trova anzi comodo discutere di solidarietà e mostrare interesse alla filantropia. Secondo Chirac l’economia di mercato globalizzata, anzi mondialisée come si dice in francese, ”permette a centinaia di milioni di uomini e di donne di migliorare la loro condizione” ma si tratta di solo un terzo del pianeta, di una seppur ampia ”minoranza privilegiata”: per fronteggiare questa ”situazione carica di minacce” occorre che al dinamismo delle imprese si affianchi una iniziativa politica per diminuire le ineguaglianze e lenire la povertà; ovvero ”una alleanza del mercato e della solidarietà”. Altrimenti il meccanismo si romperà".
• Già da qualche anno Davos aveva cominciato a vestirsi di panni umanitari. A invocare valori, preoccupato della protesta no-global vivace in tutto il mondo e dalla crescente impopolarità delle multinazionali. Lepri: "Oggi, scemata la protesta, il movente appare diverso, più pragmatico. Si avverte una fragilità degli equilibri economici internazionali, nonostante il 2004 sia alla fine risultato l’anno di maggior crescita complessiva nell’ultimo ventennio; perché è una ripresa che si regge sugli squilibri americani, su un deficit di bilancio ingrossato da sgravi fiscali e spese di guerra". Gerolamo Fazzini: "Ha scritto il grande reporter Ryszard Kapuscinski: ”Ogni volta che l’uomo incontra l’altro gli si prospettano tre possibilità: fargli guerra, ritirarsi dietro un muro, aprire il dialogo”. Nell’era della globalizzazione non esistono scappatoie: visto che nascondersi nei recinti degli interessi nazionali è sempre meno facile, popoli e Paesi sono ”condannati” a incontrarsi. L’alternativa è lo scontro: economico, sociale o militare che sia. Con quel che ne segue".
• Un dato accomuna Porto Alegre e Davos. Fazzini: " la coscienza che molti dei problemi in cima all’agenda mondiale possono essere affrontati adeguatamente solo in una logica di competizione, nel senso etimologico del ”cercare insieme”. Quando il 25 gennaio 2001 decollò la prima edizione del Social Forum, questo era già chiaro a molti. Forse più a un’avanguardia (talora preda di atteggiamenti messianici) che alla coscienza comune. Vennero poi l’11 settembre, l’emergenza-terrorismo, il trattato di Kyoto, il dilagare dell’Aids nel Sud del mondo... Ed infine lo tsunami, icona di una tragedia senza confini e di una solidarietà altrettanto ”globale”. Alcune sollecitazioni venute dalla galassia di associazioni e gruppi no global hanno rappresentato, in questi anni, altrettanti contributi al dibattito sullo sviluppo: un pungolo per l’establishment e per l’opinione pubblica".
• Cinque anni sono passati dal battesimo del movimento di Porto Alegre. E molte cose sono cambiate. Il premio Nobel José Saramago: " necessario che il Forum diventi uno strumento di azione". Adolfo Pérez Esquivel (altro Nobel): "La riunione di migliaia di persone da ogni parte del mondo non basta. Non possiamo accontentarci di fare solo diagnosi". Emilio Taddei, uno degli organizzatori: "Nel 2004 abbiamo subito duri colpi alle nostre idee: l’invasione dell’Iraq e la rielezione di Bush. Ma dobbiamo andare avanti. Faremo autocritica e confronteremo i nostri errori". Fazzini: "Oggi Porto Alegre sembra essersi - almeno in parte - purificato dell’utopismo inconcludente che aveva portato un insospettabile, il presidente brasiliano Lula, a bollarlo come ”festival ideologico”".
• Ci sono due Porto Alegre. La prima è quella dei trentamila campeggiatori del Parque de la Harmonia. Da Rin: "Questa è la Porto Alegre di giovani esuberanti, ex no global, poi new global, ora post global, degli slogan, delle ideologie, della contestazione fine a se stessa e dei proclami antimperialisti. La seconda è quella meno rumorosa, sempre meno no global, che fa meno notizia ma che vale la pena ascoltare. quella degli studiosi, degli scienziati, dei premi Nobel, degli intellettuali e di politici europei e latinoamericani disposti a negoziare un’apparizione in meno per un ragionamento in più. la Porto Alegre meno distante da Davos, quella che cerca di allineare una domanda di maggiore equità a un’offerta di capitali per poterla realizzare: a Porto Alegre si avanzano richieste di solidarietà e di democrazia. E a Davos ci sono le risorse per realizzarli questi progetti".
• Quest’anno sulla neve di Davos era più facile trovare uno yeti che un anti-global in vena di contestazione. Federico Rampini: "Del Social Forum di Porto Alegre si parla sempre meno: laggiù i no global fanno notizia perché litigano fra loro e contestano un loro ex-mito, il presidente brasiliano Lula. Dopo il vertice Wto di Seattle (1999), il tragico G-8 di Genova (2001) e quello di Evian (2003), il movimento no global si spegne di una morte lenta. Si era illuso di rinascere alle manifestazioni contro la guerra in Iraq che riempirono le piazze di Londra, Roma, Washington, San Francisco, dove i no global erano i primi nelle sfilate pacifiste: sono finite anche quelle, senza che sia finita la guerra". [10] Fabrizio Galimberti: "Il collasso dei no-global è dovuto a spesse ragioni interne e a sottili ragioni esterne. Le ragioni interne stanno nel fatto che il movimento era in realtà un’armata sdrucita che andava dai pensosi ai facinorosi, radunando attorno a parole d’ordine abbastanza semplici da potersi scrivere su una T-shirt tutti gli oppositori degli ordini costituiti".
• Le ragioni esterne stanno nei benefici della globalizzazione. Sempre più evidenti. Galimberti: "L’ascesa di Paesi poveri come Cina e India, gli studi della Banca mondiale che correlano crescita e apertura agli scambi, la lotta alla malaria che diventa ”bene pubblico globale” (la dimensione intellettuale della globalizzazione come leva di riforma), lo stesso tsunami che riavvicina nel dolore gli abitanti del villaggio globale... tutto questo rende chiaro che la globalizzazione è un fiume che irriga le piane riarse della povertà. Come tutti i fiumi, può straripare, e quindi bisogna costruire argini e scavare il letto. Il bene e il male della globalizzazione sono diventati più chiari. Ma è anche diventato difficile scriverli su una T-shirt".
• La morte del fenomeno no global ha varie spiegazioni. Rampini: "Un pezzo di quel mondo si è istituzionalizzato, una parte dei suoi valori e dei suoi leader sono stati cooptati dalle classi dirigenti: governi, istituzioni sovranazionali, grandi imprese. Il World Economic Forum di Davos ne è la prova più lampante. Chirac e Blair hanno aperto questo Forum appropriandosi di proposte dei militanti terzomondisti e ambientalisti: una tassa sui mercati finanziari per sostenere la battaglia contro l’Aids, un piano Marshall per l’Africa, la cancellazione dei debiti dei paesi più poveri, il rilancio di Kyoto contro l’effetto-serra. Anche nelle sue sedute più ristrette Davos ha ”rubato” tutte le idee di Porto Alegre. Blair e il suo ministro del Tesoro Gordon Brown, eterni rivali per la leadership del New Labour, hanno fatto impazzire gli organizzatori di Davos perché ciascuno voleva ”bruciare” l’altro sull’annuncio del piano per l’Africa. Chirac li ha anticipati lanciando la sua tassa anti-Aids in videocollegamento Eliseo-Davos".
• Le star di Hollywood sono veloci a cavalcare i trend. A Davos si sono esibiti nel ruolo di ”militanti umanitari” Richard Gere, Angelina Jolie, Sharon Stone. E, soprattutto, Bono: "Questa nostra generazione rischia di essere ricordata solo per Internet, che è una grande cosa ma noi vorremmo che fosse ricordata anche per un’altra cosa: per aver sradicato la povertà". Perché il leader degli U2 è andato a Davos e non a Porto Alegre? "Qui posso fare pressioni su gente che è in grado di prendere decisioni costose: sono riuniti i leader dei gruppi industriali più importanti d’America e d’Europa". Ugo Tramballi: "Gli 81 partner ”strategici” del World Economic Forum potrebbero rivoltare il mondo se volessero; banche, multinazionali, vecchia e nuova economia. Boeing e Coca-Cola, Ibm e Nestlé, Volkswagen, Lukoil e Credit Suisse. Ma l’uomo che fa la differenza è Bono, leader degli U2, il gruppo rock irlandese. Apparentemente un no global per definizione, anche se Jesse Helms, vecchio senatore repubblicano e falco, sostiene che ”sulla sua testa potete vedere l’aureola”. Un disco, un concerto o una dichiarazione di Paul Hewson, nom de guerre Bono, hanno la capacità di mobilitare risorse e giovani contro la povertà mondiale, che Bill Clinton e Tony Blair non possiedono".
• La lotta all’Aids trasformata in evento mediatico fa arricciare il naso. Massimo Gaggi: " un’operazione di marketing attentamente studiata a tavolino dagli organizzatori del World Economic Forum: un loro sondaggio basato su 50 mila interviste condotte in più di 60 Paesi, si era risolto in un massiccio voto di sfiducia nei confronti delle élite politiche mondiali. Due risposte su tre dipingevano i locali dirigenti di governo come inetti e disonesti. Da qui la decisione: la formula del Forum non si può cambiare - e infatti anche quest’anno il meeting ospita 20 capi di Stato e 70 ministri - ma si può arricchire aprendo a Hollywood e alla cultura pop".
•  facile l’ironia sulle star che attraverso i loro film diffondono nel mondo la cultura del consumismo o della violenza. Rampini: " ancora più irritante l’incoerenza dei leader: gli aiuti dei paesi ricchi al Terzo mondo sono calati dagli anni 60 ad oggi, i genocidi del Ruanda e del Sudan portano la ”firma” di armi made in France, made in Britain e made in Italy. Tuttavia l’irruzione della lotta alla povertà nell’agenda di Davos come in quella dei G-8 non è solo un’ipocrita finzione. un successo del movimento no global: i suoi temi hanno fatto breccia nell’opinione pubblica. Se i capi di governo cercano di piacere agli elettori promettendo di cancellare i debiti all’Africa è un progresso: meglio questo che cercare la popolarità nel nazionalismo e nelle avventure militari".
• Richard Gere ha costretto tutti a riflettere. Gaggi: "Lontano da ogni atteggiamento divistico e visibilmente in imbarazzo per essere stato chiamato a parlare di immani tragedie davanti a vini francesi e cotolette ”with pepperonata”, ha spiegato con parole semplici perché i divi hanno un ruolo importante nella lotta contro l’Aids. Intanto perché, essendo la più vicina alle comunità gay – quelle più colpite dalla malattia – la gente di spettacolo è più sensibile, più emotivamente coinvolta nella mobilitazione. Non solo per la raccolta di fondi, ma anche per portare comunicazione ed educazione laddove le istituzioni tendono a nascondere le dimensioni del fenomeno. A poco a poco il tema è diventato non più quello dei divi che si fanno propaganda con l’Aids ma quello dei media che fanno poca informazione su una materia che sulla stampa diventa spesso stanca routine".
• Forse è il caso di domandarsi se non siamo diventati troppo cinici. Gaggi: "Un filtro che ha comunque una sua utilità: difficile rinunciarci quando, ad esempio, Bill Gates spiega che, nei Paesi flagellati da fame e malattie, con mille dollari donati si salva una vita. Lui non va oltre, ma siccome ha già donato miliardi di dollari, ecco che l’impero di Microsoft diventa automaticamente il più grande benefattore mondiale. Qualunque siano le motivazioni, però, Gates ha agito. E i risultati ci sono. Siamo troppo cinici? Non credo, ma forse dobbiamo chiederci se la gente di spettacolo non stia aiutando a fare quello che la stampa non fa abbastanza: informare la gente, sensibilizzarla al problema dell’Aids rompendo le barriere dell’indifferenza o dell’omertà dei molti governi che ancora scelgono di girare la testa dall’altra parte".
• Vittima del suo successo, il movimento no global si è spaccato. Rampini: "Le correnti pragmatiche, le organizzazioni non governative che hanno un’esperienza concreta di aiuti umanitari, hanno interesse ad ”arruolare” i governi, non a combatterli. Come si è visto dopo lo tsunami, l’America è arrivata con le navi militari e gli elicotteri, di quel supporto logistico si sono serviti migliaia di volontari per curare e sfamare le popolazioni colpite. Le organizzazioni umanitarie hanno imparato a ”educare” perfino le multinazionali: sotto la pressione dei consumatori Usa, la Nike ormai accetta ispezioni nelle sue fabbriche in Cambogia per garantire che non c’è sfruttamento minorile".
• Le frange estremiste, quelle che vedono con orrore l’economia di mercato, sono state sconfitte dai fatti. Rampini: "La più potente novità degli ultimi anni, il boom economico della Cina e dell’India, è il successo di due paesi che sfruttano le opportunità della globalizzazione. Con orgoglio la Cina ha annunciato che quest’anno non riceverà più un centesimo di aiuti internazionali e si trasformerà anzi in un paese donatore. L’India colpita dallo tsunami non ha avuto bisogno di donazioni, anzi è stata tra le nazioni ricche che hanno partecipato ai soccorsi nello Sri Lanka. Se l’obiettivo dei no global è un mondo dove la ricchezza non sia più ristretta a un piccolo club di popoli bianchi, quell’obiettivo si avvicina governando l’economia di mercato, non combattendola".