Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 3 gennaio 2005
Per mille anni, fino al XVI secolo, l’economia cinese fu più ricca di quella europea
• Per mille anni, fino al XVI secolo, l’economia cinese fu più ricca di quella europea. Ancora nel 1820, prima che iniziasse il suo lungo declino, il Pil della Cina era il 33% di quello mondiale (il peso degli Usa non ha mai superato il 27). Adesso a Pechino pensano sia giunta l’ora di riportare le cose nel loro ordine naturale. Ad inizio 2005 il ”pericolo giallo” è più di un generico allarme. In almeno un settore, il tessile, è già una minaccia concreta: con la fine del cosiddetto Accordo Multifibre, da sabato 1° gennaio gli scambi commerciali del settore sono completamente liberalizzati in tutto il mondo. Gli scaffali dei nostri negozi, avvertono i pessimisti, saranno ulteriormente invasi da merci cinesi. Gli americani hanno calcolato che il prossimo anno perderanno 700mila posti di lavoro. In Italia i lavoratori del settore sono 800mila.
• Qualcuno parla di questo Capodanno come del ”China Day”. Un "cataclisma" che "si rifletterà su tutta l’economia e sulla società italiana". Molte aziende chiuderanno, il Pil italiano sarà rallentato, ci saranno meno soldi per gli investimenti... Gli accordi Multifibre, che per quasi quarant’anni hanno difeso le produzioni europee, americane e canadesi dai concorrenti a basso costo, si basavano su otto misure complessive tra le quali l’obbligo da parte delle imprese cinesi di comunicare i piani di export e un incoraggiamento a investire all’estero. Soprattutto, i cinesi dovevano pagare 1,7 euro per ogni maglietta da 1,5 euro; al disopra del 18% di importazioni (rispetto al volume totale prodotto dalle imprese europee) i paesi in via di sviluppo dovevano pagare una sovratassa al bilancio comunitario.
• Il Multifibre si scontrava con la filosofia del Wto. Ed è stato perciò abolito. Adesso in molti mercati del mondo dovranno sparire quote e contingenti che limitavano gli acquisti di biancheria intima, T-shirt e altri vestiti ”made in China”. Un assaggio di quel che accadrà lo si è visto nei paesi che hanno fatto da cavia. Per esempio l’Australia, che ha abolito le barriere già dieci anni fa: la Cina ha conquistato il 95% del mercato. Anche gli Stati Uniti hanno fatto qualche esperimento: le barriere su reggiseni e vestiti da bambini sono state tolte in anticipo e in poco tempo la penetrazione ”gialla” si è moltiplicata per venti conquistando il 60% del mercato. Per l’Italia la minaccia ha due dimensioni: in casa nostra e, soprattutto, sui mercati d’esportazione, dove la concorrenza cinese non avrà più ostacoli di nessun tipo.
• Sono dieci anni che si sa della fine del Multifibre. Per questo era stato escogitato un passaggio in tre fasi (1995-97, 1998-2001 e 2002-2004). Ma il mercato oggi è molto diverso da quello che si pensava sarebbe stato. La Cina copre già il 17% di un mercato stimato in 340 miliardi di euro l’anno, ma è una percentuale che secondo il Wto è destinata ad arrivare al 50 nel giro di tre anni, quando 151 miliardi di euro di esportazioni tessili-abbigliamento passeranno sotto controllo cinese. una prospettiva che evidentemente allarma l’industria tessile dell’Ue (2,7 milioni di posti di lavoro).
• L’invasione corre sul ”pile”, quel tessuto morbido e felpato che imperversa nell’abbigliamento sportivo. Ma avanza anche in tuta da ginnastica e giacca a vento. Nonostante i residui del Multifibre, dal 2002 le quote di mercato Ue assorbito dalla Cina sono aumentate dell’87 per cento per quanto riguarda il pile, dell’83 per le tute da ginnastica, del 168 per le giacche a vento. L’invasione ha fatto crollare i prezzi: all’importazione una giacca a vento cinese costava nel 2001 18,28 euro, oggi ne bastano 6,82.
• L’offensiva al tessile mondiale parte da Hangzhou (’Angiò”). Fino a un decennio fa era nient’altro che una tranquilla cittadina turistica della provincia del Zhejiang, adagiata nei ricordi di 2.200 anni di storia che l’avevano vista fra le 7 capitali della Cina. Rampini: "I gerarchi del partito comunista si erano riservati per la villeggiatura estiva le ville più belle nella passeggiata lungo il lago. Una statua di Marco Polo ricorda i lunghi soggiorni che vi fece il veneziano nei suoi viaggi sulla via della seta, in particolare tra il 1292 e il ’94. Oggi Hangzhou dalla sua collocazione strategica - 140 chilometri a sudovest di Shanghai sul delta del fiume Yangtze - è una delle basi da cui l’industria cinese si prepara a conquistare il mondo".
• Attorno alla statua di Marco Polo è cresciuta una moderna metropoli di 7 milioni di abitanti. Il salario minimo legale a Hangzhou è di 450 renminbi (45 euro) al mese, un buon manager arriva a tremila (300 euro). Rampini: "Nella lunga catena di montaggio che approvvigiona le aziende di Hangzhou, non bisogna dimenticare chi fatica ancora di più. Prima di arrivare agli operai delle città costiere ci sono i contadini del Sichuan, che d’estate vanno a vendere le loro braccia a giornata sui monti Tianshan: padre madre e figlio raccolgono 180 chili di cotone al giorno per tre euro a testa". William Fung, che dirige una delle più grandi società di trading di tessili, spiega però che il segreto dell’ascesa cinese non sono solo i bassi salari: "Nei Caraibi guadagnano ancora meno, qui però sono imbattibili per la produttività. Sono tra i lavoratori più disciplinati del mondo, e usano i macchinari all’ultimo grido".
• Quei macchinari, spesso, sono made in Italy. A Bergamo, per dire, ha sede la più grande impresa mondiale di telai meccanici per l’industria tessile. Rampini: "Su dieci telai che Radici esporta nel mondo sette vanno in Cina, uno nel resto dell’Asia, uno in Turchia, uno in Europa. I macchinari made in Italy per l’industria tessile sono la prima voce delle nostre esportazioni in Cina. alto tradimento? un pezzo del sistema Italia che fa affari col nemico? Vendiamo le tecnologie con cui loro ci distruggeranno, o invece è la logica specializzazione di chi si sposta su mestieri più sofisticati?". Zhang Jon, vicesindaco di Hangzhou: "Voi italiani siete come noi di Hangzhou, una razza di imprenditori pieni di iniziativa. Come potete sopravvivere alla nostra concorrenza? Almeno in due modi: venite qui a produrre, e vendeteci le vostre macchine per l’industria tessile. Siamo fatti per intenderci, a Hangzhou abbiamo già la nostra via Montenapoleone, dove hanno aperto Ferragamo e Max Mara".
• Tutto il mondo accusa i cinesi di dumping. Il professor Fan Gang, dell’Accademia delle Scienze di Pechino: "Il dumping è vietato dalle leggi internazionali, ma il dumping è una cosa precisa: vuol dire vendere a prezzi inferiori al costo di produzione, è un trucco per eliminare gli avversari dal mercato. Guardi che questo in Cina potrebbe farlo forse l’industria di Stato. Nel tessile ormai le imprese cinesi sono private, non hanno sussidi, devono far quadrare i conti a fine mese proprio come voi. Ottocento euro di salario all’anno non sono dumping. Chiamatelo sfruttamento, se volete. Noi gli diamo un altro nome: povertà". Rossano Soldini, presidente dell’Anci: "Il vero problema non è il costo del lavoro, ma il dumping valutario, perché lo yuan è legato artificialmente al dollaro; il dumping sociale, perché hanno condizioni di lavoro molto lontane dai nostri standard; e il dumping ambientale, perché hanno regole quasi inesistenti".
• La concorrenza cinese si batte con la qualità. Sandro Tessuto, presidente del Tessile di Como: "La Cina è una realtà economica indispensabile per il mondo intero, anche per il tessile, e la liberalizzazione va intesa soprattutto come opportunità, e non solo come minaccia. Le aziende che avrebbero maggiormente risentito della concorrenza cinese hanno tutte già chiuso o quasi. Il tessile è fatto di vari livelli. A Como, e più in generale nei principali distretti tessili, abbiamo un tipo di clientela di medio-alto livello, per cui non c’è cinese che possa venirci a infastidire".
• L’industria del falso in Cina è immensa. Rampini: "Ma finalmente ha un nemico nuovo: nascono grandi marche dell’abbigliamento ”made in China” che a loro volta sono vittime dei falsari. Si mobilitano queste nuove lobby locali, più abili nel far pressione su polizia e magistratura, lo Stato di diritto piano piano nasce anche in Cina con l’emergere di un capitalismo locale che ha un suo interesse al rispetto delle regole". Fan Gang: "Sono preoccupato perché qui in Europa sento tanta voglia di protezionismo. Anche in America si agitano minacce ma nei fatti il mercato americano resta il più aperto al mondo. Invece vedo in tv le immagini dei calzaturieri spagnoli che bruciano in piazza le scarpe made in China. Guardate che se quest’anno l’economia mondiale cresce del 5%, è grazie alla locomotiva cinese. Vi stupirà ma abbiamo perfino la bilancia commerciale in rosso: altro che orde di invasori, noi importiamo più di quello che vendiamo".
• Non si può chiedere di cambiare le regole dopo aver predicato per anni la liberalizzazione dei mercati. Il ministro Urso: "Le abbiamo sottoscritte, anche se allora non si poteva immaginare la potenza di fuoco della Cina. Ma sono anche dell’idea che gli impegni si rispettano se le regole sono eque. In questo momento siamo orientati a ottenere la dichiarazione di origine delle merci importate in Europa: è un diritto dei consumatori, prima ancora che dell’industria, sapere se una merce proviene da un altro Paese e poterne verificare se il prezzo è congruo con l’origine. Sta al consumatore poi decidere che cosa comprare".
• Il tessile-abbigliamento è per l’Italia ciò che il petrolio è per altri Paesi. Il petrolio, però, è fisicamente in un posto, mentre il tessile-abbigliamento si può delocalizzare. E delocalizzare sembra diventato l’imperativo categorico delle imprese che vogliono sopravvivere alla concorrenza internazionale. Nel 2002 il costo medio di un’ora di lavoro nell’industria manifatturiera americana era di 21,37 dollari; nell’Ue di 19,87 dollari (con una punta di 24,31 in Germania); in Giappone di 19,01 dollari. Nei Paesi dell’Europa orientale si aggirava intorno ai 3-4 dollari mentre in India e in Cina gli operai si accontentavano di 0,3-0,4 dollari. L’Osservatorio europeo di Dublino ha calcolato però che soltanto il 4,8 per cento dei posti persi negli ultimi anni è imputabile alla chiusura di aziende che si sono trasferite all’estero, un vuoto che in un’economia più dinamica di quella europea sarebbe stato facilmente colmato. Ci sono dunque buone ragioni per non riversare ogni colpa sulla delocalizzazione; e ci sono anche buone ragioni per sostenere che l’esodo delle aziende non è un problema inedito che ci trova perciò impreparati.
• Quattro secoli fa ci fu un fenomeno molto simile a quello odierno. Giovanni Vigo: "Alla fine del Cinquecento la Lombardia era una delle aree più prospere del mondo (il ”Paradiso della Cristianità”, la definì un viaggiatore inglese). Mezzo secolo più tardi aveva perso molto del suo lustro e le città avevano visto inaridirsi le loro industrie: la produzione dei tessuti di lana più pregiati era sulla via dell’estinzione; la lavorazione della seta - uno dei vanti dell’economia milanese - aveva perso per strada molti pezzi; altre attività avevano seguito la stessa sorte. Una parte di queste difficoltà derivava dalla nascita di nuovi poli manifatturieri in Francia, in Olanda e in Inghilterra; un’altra dalla delocalizzazione delle industrie nel contado intorno a Milano".
• Contro l’invasione dei prodotti stranieri non restava che invocare un inasprimento dei dazi. Vigo: "Contro la delocalizzazione si potevano invece adottare provvedimenti più incisivi. I mercanti reclamarono infatti un cospicuo alleggerimento del carico fiscale, il divieto di impiantare le industrie più remunerative - in particolare la seta - nel contado, la proibizione di introdurre in città le stoffe prodotte nei centri minori per prevenire, così sostenevano, la loro concorrenza sleale. E per dare maggior peso alle loro rivendicazioni ricordavano anche i disordini sociali che sarebbero potuti nascere dalla disoccupazione. Nell’anno 1663 la Camera dei Mercanti - diciamo la Confindustria dell’epoca - si prese la briga di fare qualche conto per mostrare come i lanieri di Canzo, diventata la roccaforte della produzione rurale, godessero di vantaggi così sostanziosi da mettere fuori gioco le industrie urbane". Le accuse si concentrarono su due voci: imposte e costo del lavoro. Cifre alla mano risultò che la tassazione incideva meno del 6 per cento sui maggiori costi, i salari per il 46.
• Qualche anno dopo i mercanti della capitale esibirono un altro calcolo. Relativo, stavolta, alla seta filata. Vigo: "Anche in questo caso il costo del lavoro risultava il maggior responsabile della scarsa competitività dell’industria meneghina. Le lamentele dei milanesi non erano quindi fuori luogo. Le autorità cercarono di andare incontro ai mercanti con una serie di misure, consistenti soprattutto in divieti, che non approdarono a nulla. Il lanificio di Canzo continuò ad espandersi, i mulini da seta abbandonarono la città per trapiantarsi nel contado, e nell’arco di pochi decenni l’economia dei centri urbani perse il vigore che aveva ancora a fine 500". Conclusione: "L’aver indicato nella delocalizzazione delle industrie urbane uno dei maggiori indiziati impedì ai contemporanei di vedere con chiarezza che il sistema economico gravitante intorno alle città era diventato meno efficiente di una organizzazione produttiva più diffusa sul territorio".
• Non è mai facile smantellare un’eredità gloriosa. Vigo: "E il desiderio di conservazione rende spesso ciechi. Ma se non si ha il coraggio di farlo si viene irrimediabilmente superati. Ripercorrere oggi le strade del passato ricorrendo ad ostacoli e disincentivi per frenare la delocalizzazione invece di cogliere le opportunità che essa offre, può dare qualche risultato di breve respiro ma non impedire il declino". Come spiega una ricerca della società di consulenza svizzera Gherzi, non è detto che i cinesi, pur essendo in vantaggio in tutte e tre le leve strategiche di settore (produzione, outsourcing e vendita) siano imbattibili: "I costi logistici legati alla delocalizzazione asiatica fanno aumentare gli oneri di una cifra pari a 0,9 euro per ogni chilo di merce. Pare inoltre che grosse aziende, come Gap, stiano annullando contratti con aziende cinesi per il mancato rispetto dei parametri qualitativi, dei piani di produzione, delle consegne".
• L’Italia ha sviluppato una formidabile capacità di produzione lungo tutta la filiera. Giusi Ferré: "Esaltando la qualità ma sviluppando anche la quantità e costruendo di fatto un sistema Italia che si è affermato malgrado non disponesse di materie prime e fosse poco competitiva per il costo del lavoro e dell’energia". [14] Sarà possibile mantenere questa combinazione di creatività e alta tecnologia? Paolo Zegna, presidente di Sistema moda Italia: "Che ci piaccia o no, l’Italia ha un costo del lavoro che è tra i più alti del mondo e quindi per i beni dove il costo del lavoro è importante è difficile competere con chi può spendere un ventesimo rispetto a noi. Per i prodotti a basso valore, più facilmente ripetibili e copiabili, purtroppo, la strada è già tracciata. Abbiamo, però, una serie di altri valori e di capacità innovative che ci proiettano nella fascia più alta del mercato. E abbiamo da valorizzare tutto il discorso del savoir faire". La missione italiana, spiega Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda, sarà insomma quella di vestire "i nuovi ricchi nei nuovi Paesi che si affacciano sulla scena internazionale".