Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Le sette fatiche (più un rischio) del Fassino riformista
"Finisce l’illusione, comincia l’Italia"
• Le sette fatiche (più un rischio) del Fassino riformista
"Finisce l’illusione, comincia l’Italia". Era questo lo slogan del terzo congresso dei Democratici di sinistra conclusosi ieri a Roma. Fassino, forte del 79% dei consensi, è stato subito riproclamato segretario. La Spina: "Tre anni fa, gli era stato affidato un partito con un risultato elettorale ridotto al minimo storico, con un drammatico calo degli iscritti, con un’opposizione interna robusta nei numeri e ricca di personalità, da Cofferati a Veltroni. Insomma, aleggiava a Pesaro il rischio di una svolta storica nel panorama del nostro sistema politico, quella che avrebbe visto il partito erede del Pci perdere il primato dei consensi nello schieramento progressista italiano. Il terzo congresso dei Ds [...] ha potuto spazzare con sufficiente sicurezza quell’incubo, dopo ben 7 piccole e grandi consultazioni elettorali tutte favorevoli, ha constatato una ripresa degli iscritti e la riduzione a un fisiologico 20% dell’opposizione interna".
• I Ds non sono il Pci. Diamanti: "Sono cambiati. Il nome, molti riferimenti, le parole. La ”taglia”. Ma le loro radici affondano ancora nel passato. Nel territorio della tradizione. Certo, alle elezioni politiche del 2001, i Ds si sono ridotti al 16,6%. Meno della metà, rispetto agli anni 70. Il minimo, nella loro storia elettorale, a partire dal 1946. Ad eccezione del 1992, all’indomani della scelta (guidata da Occhetto) di andare ”oltre” il Pci. Pagata con la scissione di Rc, che ancora oggi rivendica l’identità comunista. Tuttavia, le elezioni amministrative degli anni seguenti ne hanno sottolineato la ripresa. E i sondaggi più recenti li stimano attorno al 20%; forse perfino un poco sopra".
• I Ds sono sulla cresta dell’onda. Mannheimer: "Giungono oggi a raccogliere, secondo i sondaggi, il consenso di quasi un italiano su 4. Con ulteriori possibilità di espansione in una quota consistente di elettorato (circa il 17%, con una accentuazione tra chi risiede nei centri di minori dimensioni) che esprime comunque la disponibilità a prendere in considerazione il partito di Fassino, pur non votandolo attualmente. Insomma, i diessini riescono, in misura più o meno intensa, a costituire una possibile scelta elettorale per circa il 40% degli italiani".
• "Un leader forte, un’alleanza larga, un timone riformista solido". Sono questi "i tre cardini" di Fassino per tornare a vincere: "Nessuna di queste scelte viene da sola: un leader senza un forte soggetto politico sarebbe esposto al rischio della deriva plebiscitaria e antipolitica. Una coalizione senza leader sarebbe muta davanti agli elettori e disarticolata dinanzi alla necessità della sintesi politica e programmatica. Una coalizione senza guida politica riformista sarebbe esposta alla paralisi e quindi a nuove forme di divisione". Andrea Colombo: "Nel bazar di Fassino tutti possono trovare qualcosa. C’è il mercato, perché ”noi che siamo la sinistra non abbiamo imbarazzo a dire che l’Italia ha bisogno di più mercato”, però c’è pure lo stato, perché ”l’Italia ha bisogno di più politiche pubbliche”. C’è il welfare, che ”non è solo redistribuzione ma fattore costitutivo dello sviluppo”, ma anche la necessità di ”riformarlo coraggiosamente” per renderlo ”flessibile e mobile”. C’è la flessibilità: ”Non si tratta di contestare l’esistenza di un mercato del lavoro mobile e flessibile”. Purché il lavoro elastico non diventi anche precario".
• L’elenco potrebbe continuare a lungo. Colombo: "Non c’è argomento, non c’è tema grande o piccolo che il segretario non tratti nella sua relazione, sempre con lo stesso tono burocratico e dimesso, sempre affrontandolo da due punti di vista opposti, spesso difficilmente coniugabili e comunque senza mai spiegare come intenda coniugarli. Alla fine resta la sensazione che nella sua visione proprio questo sia ”il riformismo” nominato almeno cento volte: la capacità di ricucire ogni contraddizione senza mai dover scegliere, cogliendo il meglio di ogni aspetto per pacificare ogni conflitto e trasformarlo in elemento propulsivo. Ripetuto con frequenza ossessiva, il richiamo al ”riformismo” acquista così un sapore taumaturgico. Più che una qualche politica concreta richiama una magica pietra filosofale".
• Fassino ha passato la prova del ”riformistometro”. ”il Riformista”: "Non s’è limitato all’iterazione dell’aggettivo, ma ha fornito numerosi sostantivi. Sull’Iraq ha detto una frase che vale da sola un congresso con la sinistra che circola: ”I veri resistenti sono gli 8 milioni di iracheni che votando hanno detto no alla morte e sì alla vita”. All’’Unità” saranno diventati rossi di vergogna. Sul patto di stabilità, ha detto che bisogna rivederlo. Sull’antico dilemma della sinistra - rigore o sviluppo? - ha detto la verità: ”Un paese che non produce ricchezza può redistribuire una sola cosa: debiti”. Su pubblico e privato, ha infranto tabù: ”Non abbiamo imbarazzo a dire che l’Italia ha bisogno di più mercato”. Sul welfare ha infilato, in un inciso, addirittura i ”meriti e i bisogni”, disegnando uno stato regolatore che assiste la riconversione industriale e sostiene ”un mercato del lavoro flessibile”. Ha parlato di promozione dell’’occupabilità” invece che di difesa dell’occupazione".
• Alla fine Fassino s’è pure commosso. Ajello: "Ma come, una sinistra così ”di testa” (ma non di destra: ”Mitterrand ha dimostrato che il riformismo non è la destra della sinistra”, avverte il Signor Segretario) e un po’ ”cool” e blairiana come quella tracciata [...] al congresso Ds non dovrebbe essere dura di cuore? Fa di tutto per non esserlo. Il problema, semmai, è l’ombelico. Non tanto perché si svolge in platea questa scenetta. Una delegata emiliana, una soltanto, gira con l’ombelico scoperto e si prende una ramanzina. ”Suvvia, un po’ di decenza”, le dice un compagno. Forse l’unico che ancora ricorda quando Berlinguer indicò, come modello per le giovani comuniste, Santa Maria Goretti. [...] L’ombelico che non piace - e qui Fassino e il nuovo popolo dei ”fassinisti” sono all’unisono - è quella visione viscerale della politica, anche detta ”treppiedismo”, che [...] ufficialmente è stata espulsa dall’orizzonte culturale della sinistra che cambia. I Mario Luzi o i Nanni Moretti non a caso non ci sono".
• Al Palalottomatica s’aggirava un fantasma. Riccardi: " lo spettro della Cgil, appena due anni fa potenzialmente in grado di ribaltare i rapporti di forza interni al partito, di mettere in seria difficoltà l’allora fragile leadership di Piero Fassino, e che invece oggi appare sostanzialmente assente, di fatto quasi ininfluente nel dibattito congressuale della Quercia. Di acqua sotto i ponti da allora ne è passata parecchia: le folle oceaniche in piazza sono un ricordo sbiadito, Sergio Cofferati non è più il riferimento dei movimenti della sinistra, ma amministra (non senza qualche fatica) Bologna. Guglielmo Epifani, da parte sua, ha sopito le polemiche dirette e le relazioni fra partito e sindacato si sono andate normalizzando".
• Cofferati è finito quando ha detto ”no” al referendum sull’articolo 18. Paolo Nerozzi, segretario confederale della Cgil: "Poi ha deciso di fare il sindaco di Bologna e i vertici del partito sono stati contenti perché lo temevano. Ma così hanno fatto tutti un gran regalo a Bertinotti: i tre milioni del Circo Massimo ora hanno lui come punto di riferimento". Maria Teresa Meli: "Il paradosso è che D’Alema e Fassino sono riusciti a ”metabolizzare” Cofferati ma non hanno risolto il loro problema. Quella sinistra non allineata che rappresenta una parte dell’elettorato dell’opposizione, orfana del Cinese, si è accasata altrove, con Bertinotti, e continua a non volerne sapere dei vertici Ds".
• Non era questa l’idea di D’Alema. Meli: "Il presidente della Quercia, dopo un periodo di freddo, aveva ristabilito buoni rapporti con Bertinotti anche in nome della comune avversione al progetto politico del Cinese. D’Alema temeva l’offensiva di Cofferati sul partito ed era convinto invece di poter scendere a patti con Rifondazione. Il leader del Prc, invece, soffriva della concorrenza del Cinese. E in uno di quei giorni di rinnovato feeling il presidente della Quercia disse al segretario di Rifondazione: ”La parabola discendente di Sergio è cominciata e noi lo accompagneremo alla porta”. Così hanno fatto, ma oltre quell’uscio ha avuto inizio la parabola ascendente di Bertinotti".
• A sinistra dei Ds tutto si muove. Bartocci: "La competizione accelera, anche perché guarda caso quello che manca nell’esordio congressuale del ”più grande partito della sinistra” è la vera novità di questi anni, cioè l’’ascolto delle istanze dei movimenti e una critica qualitativa di questa società”. La distanza tra le ”due sinistre” venuta alla luce soprattutto dopo Genova s’allarga ogni giorno di più. E la tenaglia che abbraccia la Quercia continua a stringersi inesorabile: anche se per ora Bertinotti evita di parlare di scissioni sa che tra gli eredi del Correntone l’imbarazzo cresce di ora in ora".
• Quelli che resistono sono ormai pochi. Riccardo Barenghi: "E soprattutto non nutrono speranze di poter rimettere il partito su una rotta diversa da quella che porta (almeno nelle intenzioni) a un suo scioglimento dentro una nuova cosa, il cosiddetto partito riformista. Loro, il partito lo vorrebbero socialista, socialdemocratico, che insomma conservasse qualcosa delle sue radici storico-culturali. Finché di queste radici ne vedono l’ombra, restano. Un domani chissà. Prima o poi insomma se ne andranno anche Mussi, Salvi, Folena e tutti coloro che ne condividono le idee (tra iscritti e elettori non sono pochi), attratti da un progetto ancora informe ma che alla fine metterà insieme i pezzi sparsi alla sinistra del centrosinistra, a cominciare da Bertinotti e Rifondazione".
• Sette fatiche attendono Fassino. Pansa: "La prima ha un’insegna che mi ricorda certi negozi della mia infanzia, aperti con la pretesa di essere i più moderni: l’innovazione. Ma è la parola usata da non pochi fassiniani. Innovare per essere al passo coi tempi, per non farsi superare dai cambiamenti della società italiana. Questa bandiera Fassino l’aveva già impugnata a Pesaro. Rivolto a Cofferati, gli aveva rammentato un paio di verità. La prima è che le guerre non si vincono barricandosi in qualche ridotta fortificata. La seconda diceva: se la sinistra non si attrezza per guidare i mutamenti in atto nel nostro paese, la bufera delle novità rischia di avere la meglio su qualsiasi diritto. Allora Fassino vinse il congresso presentando al partito un dilemma: o si cambia o si muore".
• Dopo Pesaro, i Ds non sono morti. Pansa: "Ma è chiaro che, per Fassino, la sfida delle novità non è finita. Per questo, oggi cerca di rafforzare la propria leadership consolidando la linea riformista scelta da tempo. E su uno spettro ampio di questioni ancora irrisolte. Per citarne qualcuna, il welfare, la difesa del lavoro, il fisco, la politica estera e la struttura della fantomatica Federazione dei partiti ulivisti".
• La seconda fatica. probabile che, per i Ds e l’Ulivo, le regionali andranno bene. Pansa: "Ma l’entità della vittoria sarà fatalmente misurata su quanto accadrà nelle regioni forti in mano al centrodestra: Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio, Puglia. In alcune, per l’Ulivo la partita è già persa. In Puglia resta da vedere come i Ds, sia pure non da soli, riusciranno a imporre al neo-comunista Nichi Vendola una linea capace di attrarre un consenso ben più largo di quello ottenuto nelle primarie. E se Vendola vincerà senza cambiare nulla del suo radicalismo, saranno cavoli acidi per tutto l’Ulivo, ma soprattutto per Fassino. La terza faticaccia sarà dare corpo a quell’araba fenice che è la Fed, la base primaria del futuro Partito Riformista".
• La Fed ha molti nemici, anche dentro i Ds. Pansa: "I resti del Correntone, con le correntine di Cesare Salvi e di Fulvia Bandoli, non vogliono saperne. Alcuni di loro hanno già detto che non entreranno mai nella federazione, e tantomeno nel nuovo partito. Ecco un’altra impresa per Fassino: convincerli del contrario o rischiare una nuova scissione, dopo quella del 1991 che partorì Rifondazione comunista. Sempre legata al rebus della Fed è la quarta fatica di Piero. In questo caso, l’antagonista da ammansire è la Margherita. Sul finire del 2004, andando in giro per dibattiti, ho incontrato dappertutto dei margheriti che mi dicevano: la Fed non la vogliamo, perché diventeremmo un’appendice dei Ds. Qualcuno osserva che i capi della Margherita, a cominciare da Francesco Rutelli, hanno promesso che ci staranno. E hanno persino accettato le liste unitarie nella maggior parte delle regioni". Potrebbero però cambiare idea dopo le regionali per due motivi contrapposti: se la Margherita "dovesse rimediare una nuova scoppola, dentro il partito si aprirà una resa dei conti brutale. Con possibili riflessi negativi, qualcuno dice devastanti, proprio sulla nascita della Fed. Ma non andrà meglio se, nelle 5 regioni dove i partiti dell’Ulivo si presentano separati, la Margherita otterrà un risultato buono. In questo caso Rutelli e Marini non si sentiranno in mutande, bensì con i calzoni tirati su. A quel punto, per Fassino, comincerà un’altra rogna mica da poco".
• La fatica numero cinque sembra la più ardua. Pansa: "Se apriamo lo scatolone della Gad, ci troviamo dieci partiti. Almeno quattro hanno posizioni radicalmente lontane dai Ds e, in genere, dai partner della futuribile Fed. Lontane su tutto, dalla politica economica a quella internazionale. Il più forte di questi refrattari è Rifondazione comunista. Ma è inutile diffondersi sulle posizioni di Fausto Bertinotti. Ho già scritto che Fassino & C avrebbero dovuto disfarsene da tempo. Non hanno avuto il coraggio di farlo. E adesso si trovano il nemico in casa. Il Parolaio è tornato all’aggressività del 1998, quando uccise il governo di Romano Prodi. E ogni giorno minaccia sfracelli".
• La sesta fatica: conquistare i moderati. Pansa: "Senza questi elettori, il centro-sinistra andrà incontro a un bis del tragico 2001. Ma non so immaginare se, per evitarlo, basterà il volto, l’autorità e la pazienza astuta di Prodi. Del resto, pure il Prof di Bologna può diventare una fatica per Fassino. La settima e ultima. Infatti, toccherà al leader dei Ds sostenerlo, difenderlo, rassicurarlo e portarlo alla vittoria. Anche se Prodi non è un tipo facile da trattare. Ed essendo uomo dalla memoria lunga, ricorda bene quello che gli è toccato passare, prima per farcela e poi per governare soltanto due anni".