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 2005  febbraio 21 Lunedì calendario

Il Protocollo di Kyoto è un affare da miliardi di euro

• Il Protocollo di Kyoto è un affare da miliardi di euro.
Mercoledì scorso è entrato ufficialmente in vigore il Protocollo di Kyoto, l’accordo internazionale per la riduzione delle emissioni dei gas serra, approvato nel dicembre del 1997 e sottoscritto da 141 Paesi, di cui 39 industrializzati. Foresta Martin: "Prenderanno l’avvio complessi meccanismi finalizzati alla riduzione dei sei gas prodotti dall’uomo che surriscaldano l’atmosfera e alterano il clima, rischiando di provocare uragani e inondazioni: anidride carbonica, metano, periossido d’azoto, fluoroclorocarburi, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo". In pratica i 39 Paesi industrializzati dovranno abbassare le emissioni dei sei gas serra di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 (l’Italia del 6,5), nel primo "periodo di adempimento" (2008-2012). I Paesi non industrializzati, invece, per il momento non hanno obblighi.
• Tra i Paesi che non hanno ratificato il Protocollo ci sono gli Stati Uniti e l’Australia, che contribuiscono rispettivamente al 36,1 e al 2,1 per cento delle emissioni globali di gas serra. Per l’Unione europea il dato s’attesta al 22,4%. Nel dettaglio: l’Italia immette nell’atmosfera il 3,1 per cento dell’anidride carbonica mondiale, la Germania il 7,4; la Gran Bretagna il 4,3; la Francia il 2,7 e la Spagna l’l,9.
• Negli Stati Uniti il protocollo di Kyoto è considerato un dead man walking, un condannato che si avvia a morte sicura. All’indomani della sua prima elezione George W. Bush lo definì "assolutamente costoso e inefficace". Riotta: "Il Protocollo di Kyoto è celebrato dai 141 Paesi che lo hanno sottoscritto [...] come il totem capace di fermare l’effetto serra. Per gli Stati Uniti del presidente Bush [...] si tratta di un tabù malefico, che costerebbe cinque milioni di posti di lavoro e miliardi di dollari".
• Non sono solo gli Usa ad opporsi al Protocollo. Cascioli: "Lo dimostra l’esito della Cop/10 (l’incontro annuale per il negoziato sui cambiamenti climatici) tenutasi a Buenos Aires a metà dicembre e risoltasi in un clamoroso fallimento. Obiettivo era infatti quello di varare un ”Kyoto 2”. In questo caso si dovevano porre dei limiti anche ai Paesi in via di sviluppo - Cina, India e Brasile in testa - ”graziati” dall’attuale protocollo. Ma questi Paesi si sono schierati in blocco insieme agli Stati Uniti accusando l’Unione europea e le organizzazioni ambientaliste di avere come vero obiettivo di frenare lo sviluppo".
• Alla Cop/10 la Ue non è riuscita a convincere i Paesi in via di sviluppo. Alla fine, dopo estenuanti trattative, è stato firmato il ”Buenos Aires action plan for adaptation”, un programma di lavoro in cinque anni che prevede ricerche e raccolta di dati per studiare i mutamenti climatici e, soprattutto, progetti di trasferimento tecnologico per far fronte all’aumento di eventi meteorologici estremi, tra cui principalmente la crescita del livello del mare. Per il momento, però, non ci sono soldi: alla Cop/10 s’è stabilito che a maggio, in una riunione tecnica a Bonn, si decidano finanziamenti per i paesi in via di sviluppo, come Cina, India e quelli Opec (che chiedono compensazioni per i danni causati dal progressivo abbandono dell’economia degli idrocarburi).
• Il vero problema è rappresentato dai costi di applicazione del Protocollo di Kyoto. Per l’Intergovernmental Panel on Climate Change, l’organismo scientifico internazionale che studia i cambiamenti climatici per conto delle Nazioni Unite, questi potrebbero arrivare complessivamente a 18 quadrilioni di dollari, 600 volte il Pil annuale dell’intero pianeta. Per la Commissione europea, all’ingrosso, i costi di adeguamento dell’economia comunitaria possono essere stimati attorno allo 0,06 del Pil, ovvero 3,7 miliardi annui tra il 2008 e il 2012. Questa cifra però è destinata a salire almeno allo 0,5 del Pil se non si utilizzeranno i cosiddetti "meccanismi flessibili": primo tra tutti, il mercato delle emissioni dei gas serra. Per gli Stati Uniti, altri studi parlano di un’incidenza dall’1 al 4%.
• Le misure previste dal Protocollo. I Paesi firmatari provvedono a raggiungere gli obiettivi previsti migliorando le tecnologie utilizzate nella produzione di energia e nell’industria e investendo sulle energie alternative e rinnovabili. Esistono poi i meccanismi flessibili. Gli Stati industrializzati, che hanno quindi un alto numero di emissioni, possono scambiare (ovviamente pagando) quote di riduzione delle emissioni con altri Paesi. I meccanismi previsti sono la joint implementation, il clean developement mechanism e l’emission trading, il mercato delle emissioni.
• In un primo momento i meccanismi flessibili furono bollati dagli ecologisti come scappatoie, ma ora vengono accettate purché il sistema delle riduzioni si metta finalmente in moto. Foresta Martin: "Con i clean development mechanism si realizzano opere in campo energetico e ambientale presso Paesi in via di sviluppo, ottenendo sconti sulle proprie quote di riduzione. Così i generici ”aiuti allo sviluppo” possono prendere la più sicura strada della sostenibilità ambientale. Analoghi meriti si acquisiscono mettendosi in compartecipazione con altri Paesi industrializzati per realizzare progetti di comune vantaggio, come previsto dal capitolo joint implementation. Male che vada si ricorre alla borsa delle emissioni [Emission Trading]. Entro il 2012, alla resa dei conti, chi non ha raggiunto gli obiettivi di riduzione concordati e si presenta quindi con un debito di CO2, può comprare quote di questo gas da chi è stato tanto bravo da accumulare crediti. Si apre così quella che qualcuno ha scherzosamente chiamato la ”borsa dell’aria calda”. Ma c’è poco da scherzare dato che oggi, all’apertura del mercato, una tonnellata di CO2 è quotata 10-12 euro per tonnellata; e si prevede che già fra tre o quattro anni, il valore triplicherà. Risanare il bilancio acquistando crediti costerà molto caro. In questa specie di Monopoli della CO2, l’Italia ha perso qualche giro. Si era impegnata a ridurre del 6,5% e oggi, avendo aumentato di altrettanto le sue emissioni, si ritrova a dover tagliare di circa il 13%".
• Il meccanismo dell’emission trading incoraggia a ridurre le emissioni di gas serra con un ritorno economico. Magrini: "Erano stati gli americani, ai tempi dell’amministrazione Clinton, a importare un approccio di mercato al trattato firmato nel 1997 [...]. In poche parole, se un’azienda investe per rendere più ecologico il proprio ciclo produttivo, può fare cassa vendendo sul mercato i propri diritti a rilasciare carbonio nell’atmosfera. I compratori, in un contesto dove i Paesi si impegnano a tagliare le emissioni [...], sono ovviamente le aziende che hanno cicli produttivi più ”sporchi”".
• Alcune imprese già fanno affari con le carbo-licenze. Magrini: "Il caso più divertente è quello della cilena SuperAgro, azienda agricola con 100 mila maiali. Ora, visto che gli escrementi dei suini emettono un’altra spiacevole variante del carbonio con potenti effetti serra (CH6, il metano), l’azienda ha fatto in modo di raccoglierli in un impianto dove il gas viene ”sequestrato” dall’atmosfera e bruciato per produrre energia: vendendo i conseguenti diritti ad aziende elettriche di Giappone e Canada, la SuperAgro ha finanziato l’investimento. E non va dimenticato che, se sul mercato c’è un prezzo delle carbo-licenze, è proprio perché i colossi industriali americani li stanno scambiando in barba alla Casa Bianca".
• "Un nuovo mondo si sta per aprire". Fino a qualche mese fa Peter Koster, 52 anni, era alla guida della controllata inglese del colosso creditizio Fortis e consigliere del Liffe, il mercato londinese dei futures: oggi è l’amministratore delegato dell’European Climate Exchange (Ecx), il mercato dove si scambiano futures sull’inquinamento e tonnellate di anidride carbonica. La sede fisica è in due stanzette di Amsterdam, ma la testa sta a Londra, nei sistemi elettronici dell’International Petroleum Exchange (Ipe), tanto per capirci il posto in cui vengono trattati i barili di Brent.
• In realtà gli Stati Uniti non sono estranei al Protocollo di Kyoto, anzi hanno fiutato l’affare. Il proprietario dell’Ecx è il Chicago Climate Exchange, fondato da Richard Sandor, accademico e inventore degli strumenti derivati sui tassi d’interesse, con soci del calibro di Ford, DuPont, Ibm, Motorola, Rolls Royce e l’italofrancese STmicroelectronics.
• Perché ditte statunitensi investono in una Borsa del carbonio americana se gli Usa non partecipano a Kyoto? Magrini: "Peter Koster citando il guru Sandor dà due spiegazioni: ”Paura e avidità”. Paura perché veleggia sempre lo spettro di future class action, le cause legali collettive, contro i grandi inquinatori, ”visto che ormai non sfugge a nessuno il legame fra i gas serra, il riscaldamento del pianeta e i disastri climatici”. E per avidità, ”perché ci sono i numeri del grande business”".
• Sul mercato dell’inquinamento gireranno miliardi di euro. Il diritto a immettere una tonnellata di CO2 costa fra i 5 e i 10 euro. E se si moltiplicano per un prezzo medio i miliardi di tonnellate di anidride carbonica che la sola Europa dovrà cessare di emettere nei 12 mila stabilimenti dei cinque settori industriali obbligatoriamente coinvolti (petrolio, energia, acciaio, carta e vetro), si ottiene una cifra enorme che, secondo Koster, si aggira tra i 50 e i 100 miliardi di euro l’anno.
• Perché l’European Climate Exchange è la Borsa del futuro? Un esempio: se in Svezia piove poco, com’è successo nel 2003, manca l’acqua per gli impianti idroelettrici e il Paese deve comprare o produrre energia meno pulita, coi relativi costi. Le carbo-licenze possono essere scambiate over-the-counter (fuori dalle borse) o su alcuni mercati nazionali, ma per Koster "chi investe milioni di euro in licenze ha anche bisogno di fare hedging", ovvero investire a termine su posizioni di segno opposto per assicurarsi contro brusche oscillazioni dei prezzi. Ed ecco perché esiste Ecx.
• Il clima pesa più delle variabili monetarie. Margiocco: "’Circa il 20 per cento del Pil globale è coinvolto dal rischio climatico e questo pesa di più ormai sull’economia di quanto possano pesare il rischio tassi monetari o il rischio cambio”. Così i vertici di Axa, il gigante francese delle assicurazioni, rispondendo come altri 300 grandi gruppi mondiali alle domande del Carbon disclosure project (Cdp) sull’incidenza dei problemi climatici nel mondo dell’economia [...] Se la bomba demografica probabilmente non esploderà del tutto, come ora ammettono anche le solitamente catastrofiche Nazioni Unite, la preoccupazione per le variazioni climatiche e le sue conseguenze economiche, invece, aumenta".
• La Ue sta tentando di scavalcare il "no" di Bush a Kyoto: l’idea è di firmare accordi bilaterali con quei governatori Usa che già attuano politiche di riduzione dell’inquinamento atmosferico. La Troika della Ue, di cui fanno parte il presidente di turno dell’Unione, il lussemburghese Jean Claude Juncker, il suo predecessore, l’olandese Jan Peter Balkenende, e il suo successore, il britannico Tony Blair, ha iniziato a tessere relazioni diplomatiche con i governatori del Maine, del Connecticut, della California, del New Hampshire, del Massachusetts, dell’Oregon e di Washington. Questi Stati, infatti, tra il 1997 e il 2004, hanno approvato leggi o per una consistente riduzione delle emissioni climalteranti o per riportare, nel 2010, la produzione di gas serra ai valori del 1990. è il caso della legge del Maine del giugno 2003 che si pone l’obiettivo di ridurre la CO2 ai livelli del ’90 entro i prossimi cinque anni e di operare, nel decennio successivo, un taglio di almeno il 10 per cento. Ed è il caso di Arnold Schwarzernegger, governatore californiano, che dopo la legge del luglio 2002 con cui ha imposto tagli secchi alla produzione di anidride carbonica da parte del settore dei trasporti, sta pensando a un’applicazione del Protocollo di Kyoto su scala locale.
• Al di là di Kyoto, Stati Uniti e Europa possono cooperare per migliorare la qualità dell’ambiente. Riotta: "Avvelenati dalla rissa tra Totem verde e Tabù grigio si fa però poca pulizia e l’aria, non solo la discussione, si riscalda. Meglio quindi per tutti, a partire dal G8 di luglio a Gleneagles in Scozia, lavorare sulla mediazione dei senatori repubblicani Usa McCain e Hagel che, pur senza firmare Kyoto, propongono un piano ecologico comune, come quello che dal 2002 limita i gas nocivi in California, promuovendo anche le auto a motore ibrido. Kyoto non è panacea contro l’inquinamento, ma è un cartello che indica la strada giusta, la ricchezza può crescere senza sfigurare il pianeta".
• L’Italia deve recuperare terreno, ma per il ministro dell’Ambiente Altero Matteoli il Protocollo di Kyoto "è una sfida che si può vincere". Insieme a Grecia, Repubblica Ceca e Polonia, il nostro Paese non ha ancora ricevuto da Bruxelles l’approvazione del piano d’allocazione nazionale. Il motivo "è semplice" secondo Corrado Clini, direttore generale del ministero, "è semplice": "Il Parlamento italiano ha approvato il recepimento della direttiva europea solo alla fine dello scorso anno. Prima di questo passaggio legislativo non avevamo gli strumenti per chiedere alle aziende le relative informazioni. Tutto sarà sistemato, in leggero ritardo, entro il 28 febbraio". La Commissione europea avrà quindi tre mesi per approvare il piano italiano e solo dopo il sì l’Italia potrà partecipare al mercato delle emissioni: il rischio è che i paesi ritardatari si trovino a pagare di più per acquistare i ”diritti a inquinare’, che nel 2004 erano ancora a circa 9 euro per tonnellata di anidride carbonica.