Corriere della Sera, 11 novembre 2016
Jugoslavia, 25 anni dalla festa più triste. «Più forti di tutto tranne della guerra. Rivedo quel calcio nel genio di Pjanic»
La moglie Asima filtra con gentilezza le telefonate nella casa di Sarajevo: «Non più di 10 minuti». Ma Ivica Osim, l’Orso, ha voglia di parlare. E non solo di questo anniversario – domenica sono 25 anni – che ricorda l’ultima partita ufficiale della Jugoslavia. Prima delle dimissioni, della guerra, dell’esclusione dall’Europeo ‘92, a cui il commissario tecnico e i suoi ragazzi quella sera del novembre 1991 si erano qualificati: «Fu una festa – racconta l’ultimo c.t. jugoslavo – : battemmo l’Austria 2-0 al Prater e vincemmo il girone sulla Danimarca per un punto. Ci eravamo meritati quell’Europeo, nessuno ci aveva fatto regali, potevamo battere chiunque: volevamo vincere il Mondiale del ‘90, non ce l’abbiamo fatta».
Osim, classe 1941, è stato un centrocampista talentuoso, finalista contro l’Italia all’Europeo 1968. Oggi la sua voce è stanca, ma il suo francese, appreso da calciatore tra Sedan, Valenciennes e Strasburgo, non perde colpi: «Conservo intatto l’orgoglio per essere stato alla guida di quella squadra. Eravamo forti, individualmente e come collettivo: da una Nazionale ne sono state create 6 e tutte competitive. C’era una grande generazione di giocatori e io ho sempre cercato di far convivere le diverse anime interne, senza mai andare a discapito del rendimento». L’illusione che quella squadra potesse essere più forte del Paese che si stava disintegrando era già finita al Mondiale ‘90, con quei rigori sbagliati contro l’Argentina ai quarti di finale a Firenze. L’anno dopo la Stella Rossa aveva vinto la Coppa dei Campioni. Un finale di partita lungo e tormentato: «I segni che le cose stavano degenerando erano molteplici. Penso ad esempio alle minacce a Katanec, iniziate già durante Italia ‘90. A maggio ‘91 i croati avevano lasciato la squadra. Ma non potevamo credere fino in fondo a quello che stava succedendo. Per me lo sport deve abbattere le differenze. A fine aprile del ‘92 mi sono dimesso. Erano morti dei civili a Sarajevo. Era l’unica cosa che potevo fare per la mia città. Le ferite rimangono».
Grecia, Austria e Giappone sono le tappe dell’esilio professionale, prima del ritorno a casa, per un malore, nel 2007. Nel 2011 è proprio Osim a guidare la commissione che ripiana i problemi interni alla federazione bosniaca, che erano costati la sospensione della Fifa. Anche grazie a lui la generazione di Pjanic e Dzeko ha raggiunto la storica qualificazione al Mondiale 2014: «Miralem è un talento raro. Pochi come lui ‘sentono’ il calcio. È un giocatore che ricorda la vecchia scuola, quella in cui vengono prima le idee e la classe per esprimerle, che la corsa. Lui è intelligente e in Italia sta migliorando tanto. Dzeko è un altro tipo di giocatore, ma voi amate molto gli attaccanti lottatori, dal gran fisico: sono forze della natura, ma senza gli artisti come Pjanic o come Totti per loro sarebbe dura».
In campo in Austria quella sera di 25 anni fa c’era anche Sinisa Mihajlovic: «Non mi sorprende che sia diventato un allenatore rispettato – sottolinea Osim –. Impara tutto molto in fretta, della cultura italiana ha preso il meglio. E può crescere ancora. L’importante però è lavorare sulle idee, per averne sempre di nuove: il futuro passa da qui».