Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Storie che guardano
• Filmopatia. La ”filmopatia” è una malattia grave, forse incurabile. Mario Soldati in 24 ore in uno studio cinematografico ne riscontra le prime avvisaglie in chi non riesce a passare davanti a un cinema senza fermarsi a guardare le fotografie del film in programma. Mentre la fase acuta prevede: ricordare, per ogni film, nome e cognome degli attori secondari, ma anche discutere con altri ammalati sull’esattezza di questi ricordi. Terminale, infine, è chi aperto un giornale si precipita a cercare la rubrica, le riproduzioni cinematografiche e la lista degli spettacoli.
• Nuovo Mondo. Jerome Charyn, in Metropolis, racconta della Terra Promessa, ovvero la Manhattan inizio secolo: «Nel 1913 a New York c’erano 986 cinematografi. Il cinema era il passatempo preferito dei greenhorn (immigrati)».
• Altro Mondo. Forse bisogna sottrarre parti di cinema al mondo, per viverlo.
• Vecchio mondo. A proposito di Peter Handke. «Merito di John Ford, che lo ha aiutato a capire retrospettivamente il senso di quei pomeriggi sospesi che ha passato al cinema Elgin e nelle altre piccole sale della Carinzia».
• Cinedialetto. «Io non ho un’America dove andare» (Da "Breve lettera del lungo addio" di Peter Handke).
• Padri. «Roma, 4 luglio. Gentile padre, la prima del mio film l’hanno data ieri sera. Io non ci sono andato. Mi hanno detto che è piaciuto. A me non piace affatto. Mi sono divertito a farlo, ma non mi piace. Però se piace agli altri, tanto meglio» (da "La città e la casa" di Natalia Ginzburg).
• Madri. «Il cinema è quasi vuoto. Neil siede tra Wayne e sua madre. Davanti allo schermo ci sono dei cuscini sul pavimento, e un gatto ci passeggia sopra. Ogni tanto proietta un’ombra mostruosa sullo schermo». Il brano è tratto da Territorio di David Leavitt, e la mamma in questione, presidente della locale coalizione di genitori di lesbiche e gay, accompagna al cinema il figlio, in compagnia del suo giovane amante.
• Padroni. Erano i tempi in cui «le copie dei film si vendevano, non si noleggiavano e gli esercenti potevano cambiare un film a loro piacimento così che in ogni sala si proiettava un film diverso con lo stesso titolo».
• Magie. Ne "Le Belle immagini" di Simone de Beauvoir, Laurence è una donna di trent’anni, apparentemente realizzata, che costruisce attraverso la sua agenzia di pubblicità le illusioni e le immagini di cui lei stessa vive. Proiettandole fuori di sé le moltiplica e le rende abitabili: tutto quello che tocca si tramuta in immagine.
• Miracoli. «Il cinema è più miracoloso dell’acqua di Lourdes» (dal "Secolo del Vento" di Eduardo Galeano).
• Culti. «Teresa per la prima volta entrò in un cinema, nella sala parrocchiale inaugurata di fresco. Sedendosi piano piano in un posto dell’ultima fila con il biglietto nel pugno e il cuore che batteva, pensò che era uguale alla Chiesa» (da "Il settimo nano" di Marco Lodoli).
• Miraggi. «L’unica cosa che Berta vuole è trattenere il volto sorridente
di Stan Laurel, quel lampo effimero che per un istante le dà la certezza di essere salva».
Accade nella Cuba trasfigurata di Abilio Estevez (Tuo è il regno), dove «la gente può ancora illudersi di sognare, come la senorita Berta, maestra senza amori, che assiste da sempre la madre novantenne, decisa a dormire in eterno piuttosto che morire».
• Plagio. «Lì, finalmente, cominciava a urlare come Bruce Lee, a concentrarsi e poi scatenare qualche attacco contro chiunque di piedi, di taglio di mano, di tacco, strepitando con frequenze irritantissime». Questo il dopocinema di Bonanza, personaggio di "Dentro e fuori dal borgo", la raccolta di racconti da Luciano Ligabue.
• Plagio. «Pedalando verso casa sul suo ricsciò, sperimenta alcuni modi stravaganti di cavalcare che aveva visto nel film, penzolando giù da una parte scendendo a ruota libera in pendio». Questo il dopocinema del sedicenne Rashid descritto da Salman Rushdie in I figli della mezzanotte.
• Pruderie. «Un giorno papà aveva detto che la mamma era bella come Marilyn Monroe, ma alla mamma il paragone non era piaciuto. Aveva detto che non era carino somigliare a Marilyn Monroe e in alternativa aveva suggerito Grace Kelly» (da "Grand Canyon" di Martha McPhee).
• Espedienti. A volte basta «una camicia di Paul Smith e infilarsi un giubbotto di pelle nera per pensare di assomigliare un po’ a Matt Dillon in Drugstore Cowboy». Più o meno questo il credo del trentaseienne nullafacente ritratto da Nick Hornby in "Un Ragazzo".
• Odio. Il cinema commerciale «dà false informazioni sulla vita» quello sperimentale «dà false informazioni sui sogni» (da "Melampus" di Ennio Flaiano).
• Amore. «La sagoma di East Corinth riproduceva il profilo di Jane Mansfield: scendeva da Shaker Heights con una folta aureola di intricati tornanti, lungo delicati lineamenti di villette, un nasino di parco e una carnosa sezione di quadrivio ridente» (da "La scopa del sistema" di David Forster Wallace).
• Ossessione. «Uno aveva portato la moglie, impalmata il mattino, invece che in gita romantica, o a letto, nel buio di un cinema di periferia, di una città di provincia , dove aveva voluto sostare non per stanchezza o per sciogliere effusioni, magari stranite debolezze, ma solo per recuperare un raro film di cineteca» (da "La piena dell’Adda" di Alberico Sala).
• Elefanti. 1961. Peter Orlovsky e Allen Ginsberg mandano una lettera d’amore a Charlie Chaplin, gli parlano delle loro visioni, di un dio con la faccia da elefante, un pancione buffo e un corpo da uomo.
• Giraffe. «Sarebbe diventata una buona figurante – cameriera o qualcosa del genere - se l’avvento del suono non l’avesse ammazzata. E’ morta colpita da una giraffa durante uno dei primi film sonori». Si parla di June, eroina in assenza, del racconto di Robert Bloch, "Il popolo del cinema" di Zorro .
• Seconda volta. «Ho cominciato a piangere subito (...). Non ho fatto rumore. Le lacrime scendevano da sole»: il protagonista di "Sex Virus" di Luca Rossi rivede in Tv un film che al cinema non aveva amato affatto.
• 1935. «Con le gambe compostamente incrociate, entrambi squassati dalle risate, per terra giacche di tweed e tutto, in un’ora imprecisata del 1935, che ripetono yippi-aié anche se la scena è ormai passata da un pezzo, ma loro non riescono a dimenticarsela» (da "Vanità di Duluz" di Jack Kerouac).
• In musica. «Nel giro di una settimana aveva imparato a suonare In the Shadows Let Me Come and Sing to You, quel motivo sognate che Dick Powell cantava in un film» (da "L’arcobaleno della gravità" di Thomas Pynchon).
• In poesia. «Nient’altro che questo:/ un creato che inchioda perfetto/ il lesto bisogno di immagine/ soldi amore e successo alla soglia/ irremovibile del decesso» (dalla raccolta "Fabbrica Lumière" del giovane poeta torinese Luca Ragagnin).
• In chirurgia. «Avevo pensato che sarebbe stato bene portare una fotografia per dare al dottore un’idea di quello che volevo (...). E così avevo una foto piegata nella borsa era una foto di Katharine Hepburn. Pensavo che siccome dovevo rifarmi il naso nuovo, tanto valeva che lo facessi veramente bello, eh? Perché no?» (da "Dovunque, ma non qui" di Mona Simpson).
• un odore di vite infelici, da cinema, che mi fa sentire perfettamente a mio agio». Questa osservazione, che Don De Lillo mette in bocca a uno dei personaggi di Rumore bianco, è una delle tante citazioni raccolte in questo libro, un’appassionata lettera d’amore alla settima arte. L’autore, Paolo Taggi, ha riletto infatti più di trecento romanzi per raccontare il cinema attraverso la letteratura del Novecento.
L’autore, critico cinematografico, docente universitario e narratore,