Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  gennaio 02 Domenica calendario

Le massime di Socrate

• Le massime di Socrate. Per me, spirito di contadino (e me ne vanto!), bisogna fare il massimo del bene agli amici e il massimo del male ai nemici. Questa massima non è di un fascista squadrista dell’ultima o della prima ora: è di Socrate. Alla Camera dei deputati (16 maggio 1925)
• Solo la giovinezza sa morire. La giovinezza è bella perché ha gli occhi limpidi coi quali s’affaccia a rimirare il vasto e tumultuoso panorama del mondo; è bella perché ha il cuore intrepido che non teme la morte. Strano, ma vero! Solo la giovinezza sa morire! La vecchiaia si aggrappa alla vita con disperata tenacia. Com’è bella giovinezza (Giovinezza, organo dell’Avanguardia studentesca dei Fasci di combattimento di Milano, n.1 18 dicembre 1920).
• La lotta tra padri e figli. Noi siamo la generazione che tramonta, i giovani sono l’alba che sorge. Che cos’è una generazione? E quanto dura? Ve lo dico subito. Vent’anni. Il tempo sufficiente perché l’uomo generi figli. E i figli, generalmente, vengono a contrasto coi padri. La storia ha sempre dimostrato la fatalità di questa lotta... Da un colloquio con Carlo Ravasio, vicesegretario del Pnf (Roma Palazzo Venezia, 28 dicembre 1941).
• Posti di comando. Non è la lunghezza della vita che conta, vorrei quasi dire la lungaggine, ma l’intensità secondo la quale si vive. Sarebbe strano che un regime che ha per insegna la giovinezza, debba averne orrore proprio quando si tratta di affidarle i posti di comando. Al Direttorio nazionale del Pnf (Roma, palazzo Venezia, 3 gennaio 1942).
• Accantonare le forze. Io voglio governare, se possibile, col consenso del maggior numero di cittadini; ma nell’attesa che questo consenso si formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze disponibili. Perché può darsi per avventura che la forza faccia ritrovare il consenso e in ogni caso, quando mancasse il consenso, c’è la forza. In risposta all’indirizzo di omaggio del Ministro delle Finanze (Roma, Ministero delle Finanze, 7 marzo 1923).
• Grandi e piccoli. Non si può fare una grande nazione con un piccolo popolo. Visitando la mostra d’arte Novecento (Milano, 26 marzo 1923)
• La stabilità della burocrazia. La macchina statale è frusta. Due mesi di governo sono ampiamente bastati per convincersene. La quantità di lavoro arretrato è enorme. Gli uomini di governo, creature e vittime al tempo stesso – in un gioco diventato rapido e banale come un cinematografo – delle mutevoli situazioni parlamentari, non avevano tempo e volontà di agire. Il loro non era un governo, ma un passaggio. Non risolvevano i problemi, li rinviavano. Non assumevano personali e dirette responsabilità: ma dilatavano, queste, all’infinito. La burocrazia, da esecutrice, diventava arbitra, in quanto essa sola rappresentava un principio di stabilità nella mutazione continua. Tempo secondo (Gerachia - gennaio 1923)
• Fascistizzare la nazione. Vogliamo fascistizzare la nazione, tanto che domani italiano e fascista, come presso a poco italiano e cattolico, siano la stessa cosa. Al quarto Congresso nazionale del Pnf (Roma, ”Augusteo”, 22 giugno 1925)
• 25 milioni di individui da controllare. Il regime controlla qualcosa come venticinque milioni di individui, tolti i vecchi, i bambini, tolti quelli che sono, dal punto di vista sociale e nazionale, degli zeri. Questa è la relazione. Ebbene, che cosa fanno tutti costoro? Io mi domando che cosa fanno. Essere venticinque milioni o cinque milioni o cinquecentomila, alla fine, tranquillamente, è la stessa cosa. Insomma, c’è un momento in cui le forze indifferenziate, non direttamente controllate, rendono difficile la vita a tutto quello che è l’organismo del regime. Al Direttorio nazionale del Pnf (Roma, Palazzo Venezia, 26 maggio 1942)
• Collaborazione e lotta di classe. Collaborazione o lotta di classe? Noi pensiamo che nessuno dei due metodi sia da ripudiare. Collaborazione, in vista di un aumento della produzione, là dove è possibile; lotta di classe, quando è necessario. Collaborazione in modi e forme da stabilire, quando si tratta di produrre, di ”rifarsi”; lotta di classe, quando si tratta della ripartizione. L’ora del sindacalismo (Il Popolo d’Italia, 27 marzo 1919)
• Operai della Fiat e cafoni del sud. Che rapporto volete che ci sia tra un operaio della Fiat specializzato, raffinato, dai gusti e dalle tendenze già borghesi, che guadagna dalle trenta alle cinquanta lire al giorno, un sedicente proletario, insomma, e il povero cafone dell’Italia meridionale che gratta disperatamente la sua terra bruciata dal sole? Alla Camera dei deputati (15 luglio 1923)
• Pane a sufficienza. Il popolo italiano non ha mai avuto pane a sufficienza. E tutte le volte che noi abbiamo cercato di farci un po’ di posto nel mondo, abbiamo sempre trovato le vie sbarrate: non solo all’Italia fascista, ma all’Italia pura e semplice, fosse anche l’Italia di Di Rudinì, di Giolitti o di Orlando. Non vuole l’esistenza di un’Italia che nutra sogni di grandezza: si vuole un popolo italiano che sia piacevole, divertente, servizievole. Questo è il sogno che cova nell’animo degli anglosassoni. Alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni (2 dicembre 1942)
• Generazioni di contadini. Tutti i miei nonni, bisnonni, arcibisnonni erano dei lavoratori della terra, e perché non ci fosse più alcun dubbio al riguardo, ho piantato una lapide sulla casa colonica dalla quale risulta che tutte le generazioni dei Mussolini precedenti la mia hanno sempre lavorato con le loro proprie mani la terra. Ai vincitori della battaglia del grano (Roma, palazzo Venezia, 26 ottobre 1935)
• Interesse individuale e collettivo. Manca nella burocrazia la molla dell’interesse individuale e non c’è nemmeno l’ombra di una preoccupazione per l’interesse collettivo. Il fascismo nel 1921 (Il Popolo d’Italia, 7 gennaio 1921)
• Pochi e pagati bene. Pochi impiegati ben pagati, che possano condurre un tenore di vita dignitoso e probo. All’Associazione costituzionale (Milano, 4 ottobre 1924)
• Differenze di classe.  assurdo concedere gli stessi privilegi ad un uomo incolto ed a un rettore dell’Università. Non è abbassando le classi elevate che si crea la stessa uguaglianza. Dichiarazioni al corrispondente del Petit Parisien (9 novembre 1922)
• La Kappa tedesca. Vi farò una confessione che vi riempirà l’animo di raccapriccio. Sono pensoso prima di farla. Non ho mai letto una pagina di Benedetto Croce. Questo vi dica quello che io penso di un fascismo che fosse ”culturizzato” con la ”kappa” tedesca. I filosofi risolvono dieci problemi sulla carta, ma sono però incapaci di risolverne uno solo nella realtà della vita. Al quarto Congresso nazionale del Pnf (Roma, ”Augusteo”, 22 giugno 1925)
• Pennelli, scalpelli e strumenti. Fra Arcadia, balletti e canti, si è diffuso nel mondo il luogo comune di un’Italia che deve occuparsi soltanto di pennelli, scalpelli e strumenti musicali. Io vi dirò una cosa che vi stupirà, un paradosso, forse un’eresia. Ebbene, io preferirei di avere in Italia meno statue, meno quadri nei musei, e più bandiere strappate al nemico. Alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni (2 dicembre 1942)
• Interessi acquisiti. C’è tutto un nuovo sangue che circola nelle nostre istituzioni scolastiche. Ci sono stati strilli e dolori, come è naturale. Se una riforma non lacera degli interessi acquisiti, è una riforma che non lascia traccia. All’Associazione costituzionale (Milano, 4 ottobre 1924)
• Tare italiane. La scuola italiana deve essere informativa del carattere italiano e rappresentare l’antitesi di tutto quello che sono le tare del carattere italiano: cioè il semplicismo, la faciloneria, il credere che tutto andrà bene. Al primo congresso nazionale della Corporazione della Scuola (Roma, ”Augusteo”, 5 dicembre 1925)
• Ricompense. Avete notato a Roma che non si trova un soldato che non abbia un pacco in mano e qualche volta due o tre. Qualche volta vorrò fermare la mia macchina per chiedere a questo soldato perché ha due o tre pacchi. Certamente è una ricompensa per una licenza ottenuta; un prosciutto, un fiasco d’olio, un formaggio... Molto difficilmente l’ufficiale potrà punire un soldato con il quale è entrato in questo genere di rapporti commerciali. Al Direttorio nazionale del Pnf (Roma, Palazzo Venezia, 11 marzo 1943)
• Fratellanza universale. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io, per mio conto, non credo troppo a questi ideali, ma non li escludo perché io non escludo niente: tutto è possibile, anche l’impossibile e l’assurdo. Ma oggi, come oggi, sarebbe fallace, pericoloso, criminoso costruire le nostre case sulla fragile sabbia dell’internazionale cristiano-socialista-comunista. Questi ideali sono rispettabili, ma sono ancora molto lontani dalla realtà. Dal discorso pronunciato al politeama ”Rossetti” (Trieste, 20 settembre 1920)
• Monarchici e repubblicani. All’indomani delle guerre accade spesso che i popoli vinti rovesciano i regimi che li condussero alla disfatta. Qualcuno deve pagare. Se c’è la repubblica hanno buon gioco i monarchici; se c’è la monarchia è l’ora dei repubblicani. La repubblica di Modigliani (Il Popolo d’Italia, 22 dicembre 1919).
• Cent’anni di imbecillità. Il problema che domina tutto e tutti è il problema della guerra; o gli uomini sono grandi e restano nella storia, o sono piccoli e retrocedono nella cronaca. Chi nasce imbecille, perdura tale anche se campa cent’anni. Al Direttorio nazionale del Pnf (Roma, palazzo Venezia, 3 gennaio 1942).
• Uomo mancato. Chi non sente il bisogno di fare un pò di guerra, per me è un uomo mancato. La guerra è la cosa più importante, nella vita di un uomo, come la maternità in quella della donna. Tutto il resto è importante, ma non come questo esame, questo collaudo delle qualità intrinseche dei popoli. Solo la guerra rivela quello che è un popolo, le magagne che portava dentro, che passavano inosservate agli osservatori mediocri, superficiali. Al Direttorio nazionale del Pnf (Roma, palazzo Venezia, 3 gennaio 1943).
• Non disturbate gli ebrei. Noi rispettiamo il carattere sacro di Roma. Ma è ridicolo pensare, come fu detto, che si dovessero chiudere le Sinagoghe! Gli ebrei sono a Roma dal tempo dei re; forse fornirono gli abiti dopo il ratto delle Sabine; erano cinquantamila ai tempi di Augusto e chiesero di piangere sulla salma di Giulio Cesare. Rimarranno indisturbati, come rimarranno indisturbati coloro che credono in un altra religione. Alla Camera dei Deputati (13 maggio 1929).
• Disfatta travolgente. I comizi elettorali sono quella tal cosa in cui tutti intervengono fuorché gli elettori. Nel 1919 io ero acclamato nei comizi, che chiamerò travolgenti, di piazza Dante e piazza Belgioioso. In realtà non vi fu di travolgente che la mia disfatta elettorale. Alla Camera dei Deputati (7 giugno 1924)
• ”Vivi pericolosamente”. Non per nulla ho prescelto a motto della mia vita: ”Vivi pericolosamente”; ed a voi dico, come il vecchio combattitore: ”Se avanzo seguitemi; se indietreggio, uccidetemi; se muoio vendicatemi”. Per l’insediamento del nuovo Direttorio del Pnf (Roma, palazzo Vidoni, 7 aprile 1926)