Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 11 novembre 2016
Guardale le sirene. Crescere nelle Due Sicilie. Marsilio 2000
• ”Gnu” (sincope di ”signuri”, femminile ”gna”), appellativo riservato, in Sambuca, alle classi più modeste. ”Mastro”, titolo dei maestri artigiani. ”Don”, esclusivo dei ceti superiori.
• Devozione. «La devozione è il risvolto dialettico della sensualità» (Rosario Amodeo).
• Ingravidabalconi. «Si passavano ore a descrivere biancori lattei appena intravisti da sotto un balcone (’siamo ingravidabalconi” dice Verga)».
• Sambuca, provincia di Agrigento, niente a che vedere con la sambuca. Fondata nell’827 dagli arabi di Zabut (infatti fu Sambuca Zabut fino al 1923), una casba in cima alla collina, seimila abitanti, cento chilometri da Palermo che alla fine dell’Ottocento si percorrevano in due giorni, dormendo nei fondaci di Corleone. Storicamente di sinistra (anzi qui è provato il progressivo arretramento della mafia all’avanzare delle forze di sinistra). Vi nacque Gaspare Puccio, uno dei martiri del ’99 (impiccato a Napoli il 2/2/1800) e durante il fascismo ebbe quattro confinati, due ammoniti e un diffidato. «In Italia nell’arco del Ventennio, i condannati al confino furono diciassettemila su una popolazione di quaranta milioni: uno ogni duemilatrecento cittadini. Con i suoi quattro confinati, Sambuca non sfigura quindi sul fronte della Resistenza e della battaglia antifascista».
• Bidè. «...provenendo dall’interno si accede alla sala da pranzo e da qui alla cucina e al bagno, dotato di vasca e acqua corrente. Mancava il bidè. Ignorando che tale oggetto è praticamente sconosciuto negli Stati Uniti, mio padre lo fece istallare nel dopoguerra, in previsione del soggiorno di uno zio d’America».
• ??«Tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nostro le Isole Lipari erano grandi esportatrici di pomice, la sostanza che si usava per pulire, lucidare o levigare quando non esistevano gli abrasivi e i detersivi che oggi conosciamo. Il commercio di tale materiale era così fiorente che alcuni Paesi (tra cui per esempio la Francia) tenevano a Lipari un’agenzia consolare».
• Prezzo d’una pizza in piedi a Napoli nel 1951: 25 lire, lo stesso di un quotidiano.
• Mori. «Mussolini incaricò il prefetto Cesare Mori di muovere guerra alla mafia. Già questore di Bologna, Mori vi aveva fronteggiato con risolutezza le squadre nere attirandosi i fulmini dei fascisti. Tuttavia Mussolini sorvolò su tali precedenti perché sentì che Mori era l’uomo giusto per la battaglia da intraprendere. Sul finire del 1925, con poteri praticamente illimitati e metodi sbrigativi, Mori diede inizio alla ”pulizia” dell’isola. Malgrado le riserve dei garantisti pelosi, la sua prefettura è ricordata dalla popolazione come quella dell’età dell’oro per l’ordine pubblico in Sicilia. Nonna Maria molte volte ebbe a dirmi: ”Figlio mio, Mori, lamenta qualcuno, metteva in galera con facilità; ma un galantuomo non ce l’ha mai messo!”. E mio zio Filippo Oddo, con evidente rimpianto, aggiungeva: ”Caro nipote, ai tempi di Mori si poteva uscire col portafoglio in mano!” (sottinteso: oggi non si può)».
La data di fine di questa notizia coincide con l’inizio della guerra perché non ho trovato quando Mori ha chiuso con l’esperienza in Sicilia
• Lo schiavo Euno, partendo da Enna alla testa di settantamila uomini, sconfisse un esercito romano. Catturato dipoi, venne fatto divorare da un’enorme massa di pidocchi (Diodoro Siculo).
Ho messo anno 0 perché: non so come ci si regola col prima di Cristo; non ho ancora sottomano la Treccani che mi permetta di data Euno; quando vedo Amodeo glielo chiedo se mi ricordo.
• Coppia. «Una sera, nei pressi di casa, notai un assembramento inconsueto. Mi avvicinai. Era già buio, ma qualcuno aveva visto una coppia entrare e chiudersi nella falegnameria. La notizia scandalosa si era subito diffusa nel quartiere, così in molti si erano radunati fuori della porta ad attendere che gli amanti uscissero. Finalmente uscirono: sul volto lo sgomento per essere stati scoperti e l’umiliazione di dover sfilare davanti a quella massa di curiosi senza ritegno».
• Sassate. «E poi in paese, sprovvisto di case chiuse, c’era il periodico arrivo di una prostituta. La voce si spargeva: ”E’ arrivata! E’ arrivata!”. Allora a notte correvamo sotto gli archi dell’antico acquedotto, nell’immediata periferia, dove lei riceveva. Si formava la fila dei clienti, e lei li serviva, uno dopo l’altro, senza mai lavarsi, ad esaurimento. Poi andava a dormire in una fetida locanda, e l’indomani riprendeva la corriera, inseguita a sassate dagli stessi ragazzini che la sera prima, nascosti tra i cespugli, ne avevano spiato il lavoro (lo stesso trattamento veniva riservato ai pochi missionari protestanti che si avventuravano a dialogare con la popolazione cattolico o che, più semplicemente, venivano a offrire la Bibbia integrale)».
• «L’inferno e la libertà, che molto si somigliano» (Ernesto Barba).
• «Deve ognuno di noi pensare più che ad essere discendente dei suoi avi e stagno nel quale hanno confluito tante e così varie acque, a essere ascendente, se si potesse dire, dei suoi nipoti, e fonte di fiumi e ruscelli che da lui zampilleranno nell’avvenire» (Miguel de Unamuno).
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• Le dimore baronali del paese, una dozzina in tutto «qualcuna con le caratteristiche di una piccola reggia di provincia: gli ampi e numerosissimi vani terrestri, gli spazi, le volte altissime, i sontuosi saloni, il giardino interno o annesso». Oggi abbandonati o abbattuti per far posto a condominî: «Non mi compiaccio di tale scomparsa: era giusto rimuovere lo sfruttamenti del lavoro alla base di tanta accumulazione di ricchezza; meno opportuno, ancorché forse inevitabile, dissipare un patrimonio costitutivo della nostra identità».
• «Ugo Zaccagnini nasce a Prato nel 1868 e muore a Firenze nel 1937. Nel 1890 lascia la Richard Ginori per dedicarsi in proprio alla fabbricazione di ceramiche d’arte. Sviluppò con successo l’intrapresa, ottenendo prestigiosi riconoscimenti e riuscendo ad esportare su larga scala».
• «Vittorio Ducrot (Palermo 1867-Roma 1942). Titolare di una ditta di mobili e arti decorative considerata per decenni tra le più grandi, eleganti e complete case italiane per ammobiliamento e decorazione».
• «In un palazzo gentilizio vicino casa era acquartierato un reparto di soldati italiani. Avviliti e affamati, un giorno alcuni di essi vennero a chiedere di dargli il nostro gatto, per mangiarlo. Genitori e figli con profonda tristezza decidemmo di accontentarli. Amavamo il gatto Lulù, compagno di giochi e spauracchio dei topi; ma la fame di quegli sventurati ci parve più importante e la bestiola fu sacrificata. Poco dopo mi affacciai nell’androne del palazzo che ospitava i militari. Lulù, già scorticato, arrostiva su un treppiede. Piansi, scappai, inciampai cadendo su un coccio di bottiglia che mi procurò al pollice un taglio del quale conservo la cicatrice».
• «Nell’intervallo tra la fuga precipitosa dei nostri soldati e l’arrivo degli americani, i palazzi adibiti a caserma rimasero incustoditi. Allora una canea non solo di miserabili, ma di gente non bisognosa, di massaie trasformate in erinni, si rovesciò nei locali abbandonati depredando quel poco che la truppa aveva lasciato e sfondando le porte di accesso alle stanze off-limits riservate ai proprietari. In un vociante passaggio di mano in mano, venivano asportate masserizie di ogni sorta: biancheria, suppellettili e perfino mobili. Una folla invasata cedeva a un istinto primordiale di rapina come se i meccanismi di autocontrollo acquisiti in secoli di civile convivenza fossero improvvisamente saltati».
• «C’erano poi le catacombe del convento dei cappuccini, fondato agli inizi dei Seicento su una collinetta nell’immediata periferia (di Sambuca, provincia di Agrigento - ndr). All’imponente fabbrica, costituita dalla chiesa e dalle cellette dei religiosi, era annessa un’ala seminterrata a forma di rettangolo, quasi un largo corridoio; era il cimitero dei monaci, i cui cadaveri, fino al diciannovesimo secolo, venivano appesi lungo le pareti: sotto i piedi, legati per evitare che il corpo penzolasse scomposto, un recipiente per raccogliere gli umori della decomposizione. Con il passare degli anni la carne si prosciugava; rimaneva lo scheletro, sterilizzato dal tempo, con indosso l’abbigliamento usato al momento della vestizione.
"Più o meno ad altezza d’uomo, delle finestre socchiuse fornivano un minimo di luce. Noi ragazzi riuscivamo a scavalcarle e con un salto eravamo dentro. Il gioco consisteva nel togliere alle mummie gli indumenti e portarli all’aperto: al contatto con l’aria, non appena superata la finestra, essi si volatilizzavano suscitando il nostro divertito stupore».
• «Si approssimavano le vacanze di Natale quando una mattina Vincenzo giunse in aula trafelato e ansioso: aveva ”posseduto” una gallina e il povero animale c’era rimasto secco».
• «Il 31 marzo 1492 si firmava a Granada l’editto che bandiva gli ebrei da tutti i regi dominî, quindi anche dalla Sicilia, che contava allora un milione di abitanti. Gli ebrei, secondo le valutazioni degli storici, sarebbero stati ”non meno di un decimo” della popolazione. Quindi più di centomila. ”Salva la precisa esattezza del calcolo, gl’Israeliti formavano certo una frazione notevole degli abitanti dell’isola: ne formavano, ad ogni modo, una parte specialmente produttiva e proficua... Nella borghesia di quel tempo, sì limitata e scarsa, rappresentavano il meglio per propria entità e reale indipendenza dal governo e da’ nobili... I loro operati riportavano il vanto per assidua attenzione al travaglio e perizia meccanica”.
"Su questa fiorente e decisiva minoranza si abbattè l’editto di espulsione e quel ”crollo portato alle condizioni esistenti della industria e del traffico riagiva immediato sopra i ceti inferiori”. Il La Lumia, dal quale sono tratte le citazioni, così ne descrive la partenza: ”Dal centro e dai punti più remoti dell’isola i proscritti, viaggiando a comitive con le loro donne, loro vecchi e bambini, raccoglievansi principalmente in Palermo. Qui i loro fratelli ne aspettavan l’arrivo, per congiungersi e per muovere insieme. Nell’antico porto... si accalcavano poi tutti sulle tolde de’ legni preparati a condurli oltremare. Era un popolo intero che sciogliea per l’esilio...”.
"’La perdita che la partenza degli Ebrei cagionava, in risultato, alla Sicilia non era di quelle che possono tradursi in nette cifre statistiche, ma dell’altre bensì di cui soffre e geme a lungo un paese come di profonda ed esiziale ferita. I commerci giacquero prostrati ed annullati per modo da non poter facilmente risorgere in mano agl’indigeni; v’ebbero nelle varie città quartieri deserti, case inabitate e crollanti, chiuse e abbandonate officine; nella circolazione monetaria si faceva un gran vuoto... E quella catastrofe del 1492 restò indelebilmente scolpita tra i peggiori ricordi che il dominio de’ re di Spagna lasciasse nell’isola” (Isidoro La Lumìa, Gli Ebrei siciliani)».
• «Al ballo in casa Ponteleone don Fabrizio, in preda al malcontento, si sofferma a osservare un soffitto affrescato, dal quale ”gli Dei, reclini su scanni dorati, guardavano in giù sorridenti e inesorabili come il cielo d’estate. Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburg, Penn., doveva nel 1943 provar loro il contrario» (Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo).
• Biografie di Nicola Barbato, Bernardino Verro, Lorenzo Panepinto, capi dei fasci siciliani in Rosario Amodeo Guardale le sirene Marsilio 2000 pagine 64 e segg.
• «Partimmo da Sambuca in seconda classe, come faceva chi riteneva di non avere risorse per prendere la prima e tuttavia voleva distinguersi dai viaggiatori di terza. Cinque ore di trenino a scartamento ridotto da Sambuca a Palermo Sant’Erasmo. Poi a piedi a Palermo centrale: un’altra ventina di ore fino a Napoli, dove, arrivati la sera dell’antivigilia della prova ginnica, prendemmo alloggio in uno dei vicoli che dalla collina di Pizzofalcone scendono a Santa Lucia».
• Ferdinando IV P.F.A, cioè Ferdinando IV di Borbone re di Napoli. Dove "P sta per Pio; F per Felice; A per Augusto. Non v’è nessun motivo apparente per cui la P e la F siano puntate e la A no, salvo il fatto che così si indicava Ferdinando IV nei documenti ufficiali".
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• Carlo Pisacane fu allievo della Nunziatella, corso 1832-1839.
• «La mensa alla Nunziatella costituì per me un terremoto gastronomico. La colazione, alle otto, caffellatte e pane. Allergico al latte, mangiavo solo il pane, anziché le ”uova rotte all’acqua” preparate da mia madre. Arrivavo alla ricreazione delle undici con una fame da lupi che alleviavo con gli ottimi krapfen della sala convegno. A pranzo di solito pastasciutta e carne rossa variamente manipolata. L’olio d’oliva assente dalle pietanze e dai contorni; pochissime verdure fresche. Le porzioni, soprattutto di pastasciutta, erano abbondanti, e l’allievo che strillava ”Famiglio, rifusa!” veniva accontentato. Mi alzavo quindi sazio, ma come se avessi ingerito dei solidi che stentavano a percorrere le vie della digestione» (NB: siamo nella prima metà degli anni Cinquanta).
• «Fino all’avvento al soglio di Pio IX (1846) il Vaticano non nascose l’avversione alla costruzione di linee ferroviarie. Si citano ”ordinanze della Curia di Roma con le quali si interdice ai sacerdoti di dare l’assoluzione a chiunque rischia la sua vita sopra le macchine infernali" e un vescovo francese, con propria pastorale, consigliava ai fedeli di non sollecitare l’impianto di stazioni ”perché la ferrovia è un mezzo di dissipazione e di disordine per la grande facilità che offre di abbandonare la vita calma dei campi...”. Sarà anche un grande poeta, il Belli, a tramandare ai posteri, con sottile ironia, l’ostilità papalina al nuovo mezzo: ”...st’invenzione è tutt’opera infernale.../Sì, cosa bona, sì: bona la bua./Si fussi bona, er Papa sarìa er primo/de mette ste carrozze a casa sua”».
• Lo storico caffè Renzelli sul corso Telesio a Cosenza: «qualcuno (forse Ernesto Barba) mi aveva raccontato che i gendarmi borbonici fecero sostare in quel caffè (che allora si chiamava Gallicchio) i fratelli Bandiera prima di avviarli al Vallone Rovito. Era vero? Il cameriere, da me interpellato, naturalmente confermò».
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