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 2016  novembre 11 Venerdì calendario

La nuova ondata di liquidità che le banche centrali hanno riversato sul mercato ha restituito fiducia agli investitori

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LA REPUBBLICA 14/8/2007
SARA BENNEWITZ
MILANO - La nuova ondata di liquidità che le banche centrali hanno riversato sul mercato ha restituito fiducia agli investitori. E così se la scorsa settimana era finita con un venerdì nero per tutte le Borse mondiali, questa è cominciata all´insegna del rialzo con guadagni finali compresi tra uno e tre punti percentuali in Europa. Wall Street invece ha chiuso con un leggero ribasso: il Dow Jones registra un meno 0,02%, a 13.236,53 punti; il Nasdaq cede lo 0,10% (a quota 2.542,24); lo Standard & Poor´s 500 si attesta a 1.452,92 punti (-0,05%).
A Piazza Affari il Mibtel ha guadagnato l´1,24% e lo S&P/Mib l´1,48% proprio grazie al rimbalzo di quei titoli bancari e assicurativi che nei giorni scorsi avevano sofferto maggiormente. Intanto ieri il presidente della Consob Cardia ha fornito maggiori dettagli sulla questione dei mutui americani al Tesoro.
Le buone notizie sui mercati sono arrivate già in mattina quando la Banca Centrale del Giappone ha immesso 600 milioni di yen (4 miliardi di euro) sul mercato, per tutta risposta la Bce ha provveduto a iniettare altri 47,6 miliardi nel sistema, mentre la Fed si è limitata a un´emissione da 2 miliardi di dollari. Con la manovra approvata ieri, l´istituto di Francoforte in tre aste consecutive ha già riversato sul mercato oltre 200 miliardi di liquidità. Uno sforzo considerevole che è stato accompagnato anche da commenti rassicuranti per il futuro. «Le condizioni del mercato monetario - ha commentato la Bce - si stanno normalizzando». Ma anche da Bruxelles sono arrivate parole confortanti. «Sembra che i mercati si siano calmati - hanno detto dalla Commissione Europea - segno che le azioni intraprese hanno avuto successo».
Dall´alta parte dell´Oceano, invece la Fed si è fatta sentire non tanto per la nuova manovra finanziaria - che porta a 45 miliardi di dollari la liquidità immessa finora nel sistema - ma piuttosto per limitare i prossimi rischi. L´istituto guidato da Ben Bernanke dichiara che ora «una parte significativa» delle banche Usa ha rafforzato «gli standard di erogazione dei mutui subprime e di quelli non tradizionali». Ciò nonostante ieri Accredited Home, società specializzata nei mutui per la casa, è crollata del 30% in Borsa perché i fondi di private equity, Lone Star, hanno ritirato la loro offerta d´acquisto sul gruppo colpito dalla crisi dei subprime.
In Europa, invece, alcune delle banche coinvolte hanno provveduto a fare chiarezza quantificando i rischi legati ai prestiti di cattiva qualità. Bnp Paribas ha stimato in 38 milioni l´esposizione nei confronti di Home Banc, società Usa che lo scorso 9 agosto è stata ammessa all´amministrazione controllata. L´istituto francese che aveva sospeso la quotazione di tre dei suoi fonti, conta di rimetterli sul mercato entro fine agosto. In Germania invece, Commerzbank ha quantificato in 850 milioni il rischio della controllata Eurohypo, che nel trimestre che va tra luglio e settembre si prepara a fare una maxi pulizia di bilancio da 40 milioni. Infine in Inghilterra, le voci di un´esposizione a rischio hanno riguardato anche uno dei fondi hedge di Barclays. Ma se da una parte il colosso inglese ha accusato il colpo per i subprime, dall´altra ha ottenuto dalle autorità olandesi il via libera all´Opa su Abn Amro.

LA REPUBBLICA, MARTEDì 14/8/2007
ANDREA GRECO
MILANO - Errare è umano. Ma quando sbaglia uno dei Masters of the universe – così Wall Street chiama gli operatori un gradino sotto la divinità – non solo gli altri sogghignano. anche un segno che la turbolenza seguita all´implosione dei cattivi mutui tocca proprio tutti. Goldman Sachs, forse la più potente banca d´affari al mondo che affilia (o ha affiliato) il meglio di tecnici, ambasciatori, strateghi, ieri ha reso noto che tre suoi fondi hanno inciampato nella crisi dei crediti subprime.
Il fondo azionario Geo, la cui dotazione di 5 miliardi di dollari è calata di 1,4 miliardi (quasi il 30% del valore) da due settimane, ha bisogno di risorse fresche per 3 miliardi. Colpa, per l´istituto, delle condizioni del mercato, degli scambi e dell´alta volatilità, che ha fatto "saltare" gli algoritmi di analisi strategica quantitativa con cui la gestione del fondo si orienta. Saranno tre nuovi partner a ripianare le perdite: Cv Starr&Co, il gestore di fondi hedge Perry Capital e il miliardario Eli Broad. Un buon affare, secondo l´istituto: «L´attuale valore assegnato dal mercato al fondo presenta uno sconto non motivato dai fondamentali – riporta una nota – l´investimento darà a Geo maggiore flessibilità per beneficiare delle opportunità che riteniamo esistano nelle attuali condizioni».
Già che c´era, la banca d´affari ha ammesso che «è deludente» l´andamento dei suoi due fondi Naeo e Global Alpha, un hedge multistrategia da 8 miliardi di dollari gestiti ancora con criteri quantitativi (statistiche e indicatori per leggere le fasi di mercato e le inversioni di tendenza). Qui si parla di ribassi del 40% in un anno, oltre metà negli ultimi sei mesi. Ma non giungeranno nuovi quattrini, c´è solo il convincimento che «allo stato i due fondi hanno l´occasione di cogliere attivamente le opportunità di mercato». Pare fede incrollabile, ma la parola di Goldman Sachs presso gli investitori pesa. Così l´operazione trasparenza è stata ripagata con acquisti sul titolo bancario, che nel finale ha ripiegato, con perdite frazionali.
Il gruppo fondato nel 1869 da due immigrati tedeschi è leader mondiale in tutte le attività di banca d´affari, e ha come caratteristica l´arruolamento di personaggi con un passato di prim´ordine nelle istituzioni. A volte il percorso avviene all´inverso, come in Italia, dove Goldman Sachs ha avuto tra le sue teste d´uovo Mario Draghi e Massimo Tononi (oggi in Bankitalia e al Tesoro). E oggi ha per consulenti Mario Monti e Gianni Letta. Il massimo dell´interscambio tra alte sfere – sempre nel rispetto formale di ruoli e funzioni – è in patria: l´ex presidente Robert Rubin guidò il Tesoro Usa nei due mandati di Bill Clinton, il penultimo leader Henry Paulson ricopre lo stesso ruolo pubblico nell´amministrazione Bush, da un anno. Ed è stato accusato di avere sottovalutato la portata della crisi dei mutui facili negli States. «L´impatto sarà contenuto, anche nelle perdite – aveva detto Paulson il 1° agosto – Le economie godono di ottima salute. Nei fatti, si sta solo riprezzando il rischio».

CORRIERE DELLA SERA, MARTEDì 14/8/2007
MILANO – Alberto Giovannini è già passato di qua. Oggi amministratore delegato del fondo Unifortune asset management e consigliere della Commissione europea, a lungo docente della Columbia University, Giovannini conosce in prima persona la psicologia degli operatori quando il panico si diffonde: nel ’98 lavorava con LTCM, il grande fondo speculativo che venne ricapitalizzato da una cordata di 14 banche organizzata dalla Federal Reserve di New York.
Allora il superfondo fu piegato anche dalle scommesse del mercato sulla sua crisi, ma alla fine in pochi ci persero. Oggi vede differenze e analogie?
«La somiglianza è che in questi momenti in tanti si mettono a predicare dal pulpito che l’apocalisse è in arrivo o a distribuire altra saggezza, ma quasi mai sanno di cosa parlano. La differenza è che allora i numeri erano più drammatici, c’era meno liquidità ».
Di recente lei ha messo in guardia sui rischi di turbolenza. Cosa la preoccupava?
«Erano in campo i due ingredienti fondamentali del panico: gli operatori avevano attivi difficilmente trasformabili in denaro liquido in poco tempo e, al contrario, un’esposizione molto tangibile. E c’era molta leva finanziaria in giro, ossia operazioni condotte indebitandosi».
Questi sono fattori tradizionali. Intravede novità nella situazione di queste settimane, con le paure sui mutui americani a rischio?
«Il punto chiave è che una volta la contraddizione fra attivi poco liquidi e debiti liquidi si poteva verificare in una banca, ma le banche erano strettamente vigilate e i regolatori sapevano tutto della loro situazione: chi aveva debiti, quanti soldi doveva e a chi. Oggi non si sa: si studia, si fanno ipotesi».
Perché le banche centrali e le autorità di Borsa sono così all’oscuro?
«Perché la rete fra gli attori del mercato e molto più vasta e complessa, il debito viaggia nelle forme più diverse fra banche, fondi speculativi, fondi istituzionali, una miriade di entità diverse. I regolatori non sanno più dove si trovino i punti nevralgici del sistema. Prima potevano intervenire in maniera chirurgica, oggi non più».
Per questo la Banca centrale europea e la Federal Reserve lanciano enormi iniezioni di liquidità aperte a tutti?
«In parte sì. Ma non significa che il vecchio mondo fosse bello e questo nuovo orrendo: oggi c’è maggiore capacità di disperdere i titoli più rischiosi su molti investitori diversi e le banche centrali sono diventate attori di mercato quasi sullo stesso piano di tutti gli altri. Nella nebbia percepiscono i segni del malessere, ma non possono vedere chiaramente dove si trovino le vere sofferenze».
 l’ignoranza che produce il panico?
«Non c’è dubbio. La distribuzione del rischio riduce la volatilità finché i mercati sono liquidi, ma in caso contrario l’ignoranza su chi ha le posizioni più difficili spinge tutti a comportamenti difensivi. Le vendite diventano generalizzate, così si genera un acceleratore delle perdite».
Allora non appena emergerà chi ha perso e quanto, il mercato si riprenderà?
«Probabile, a meno che non ci siano inversioni di tendenza negli indicatori di fondo dell’economia, che per ora non vedo. I fondamentali sono buoni ovunque, anche se l’Europa è più forte degli Stati Uniti. I Paesi emergenti tengono bene. Ma c’è un’incognita: dobbiamo capire se il sistema finanziario europeo sia davvero contagiato dai mutui a rischio. Un’ipotesi è che alle banche siano stati venduti i titoli più vulnerabili o ne detengano ancora di quelli emessi da loro stesse».
La Bce e la Fed manterranno una linea di rigore sui tassi d’interesse?
«Credo di sì. In passato un livello dei tassi troppo basso della Fed di Alan Greenspan può aver causato un’inflazione di certi valori finanziari e immobiliari».

LA STAMPA, MARTEDì 14/8/2007
SANDRA RICCIO
Comprare, comprare, comprare. Era il consiglio d’oro che arrivava dagli studi delle migliori banche d’affari prima che sui mercati si abbattesse la crisi dei «subprime» americani. Il richiamo era irresistibile: un rialzo dei listini tra il 10 e il 20% entro la fine di quest’anno, vale a dire che chi aveva puntato 10 mila euro sui titoli o sui fondi azionari, in poco tempo si sarebbe portato a casa 2 mila euro di guadagni.
Non è andata così. Le previsioni delle fini menti delle case di analisi sono state clamorosamente smentite dai fatti degli ultimi giorni con le Borse che si sono inabissate rimangiandosi in pochi giorni tutto quello che avevano guadagnato negli ultimi dieci mesi: miliardi bruciati e tanto terreno da recuperare per quei risparmiatori che avevano dato retta ai consigli dei guru della finanza.
Cosa fare di fronte allo scenario uscito dall’ultima settimana di Borsa? La risposta ha fatto litigare due delle maggiori case di analisi che ieri si sono espresse sul da farsi: agli investitori Morgan Stanley ha impartito il consiglio di acquistare mentre dall’altra parte la rivale JP Morgan si è detta convinta che le azioni sono da evitare.
Perchè comprare? Dai maxi-computer della prestigiosa banca d’investimenti è uscita una spiegazione semplice: per il calcolatore, che mette in correlazione milioni di variabili, è di nuovo venuto il momento di buttarsi sui titoli perché il rapporto tra rischio e ricompensa di un investimento in azioni è migliore oggi rispetto a due-tre mesi fa.
Non solo. L’orso e l’incertezza potrebbero già aver raggiunto il punto massimo che per definizione rappresentano l’occasione d’acquisto. «E poi con le società in ottima salute, le economie emergenti in piena forma, un’ampia disponibilità di propellente per fusioni ed acquisizioni, nonché le principali banche centrali disponibili ad intervenire per evitare scivoloni, non si può non aumentare la quantità di azioni in portafoglio», hanno tagliato corto dalla banca newyorkese.
Al commento Morgan Stanley ha fatto seguire i fatti incrementando del 3% il proprio investimento in titoli azionari e alleggerendo le quote che deteneva in bond. La banca ha consigliato poi di girare al largo dalle piccole società e ha invitato a puntare sui settori dei tecnologici e dei finanziari. Nei giorni scorsi anche i professionisti di Dresdner Kleinwort avevano inserito i titoli finanziari tra quelli da preferire in questo momento prevedendo per il comparto un rialzo del 17% nel corso dei prossimi mesi. Tra i titoli che saliranno di più ci sarebbe anche l’italiana Unicredit insieme alla britannica Hbos.
Proprio le azioni delle società finanziare, e in particolare le banche d’investimento, sono invece quelle da cui si deve stare il più lontano possibile secondo JP Morgan, l’altra importante campana di Wall Street: «noi crediamo che i mercati mondiali potrebbero soffrire ancora e che potrebbero arrivare a perdere tra il 10 ed il 20%. Aumentare la propria esposizione sui listini pensando di approfittare della recente correzione è un errore», avverte il team degli strateghi che vede ancora guadi all’orizzonte.
Quasi tutte le società finanziarie europee sono estranee o marginalmente esposte al problema del collasso dei derivati sui mutui ipotecari, ma per JP Morgan, la lontananza dall’epicentro del sisma non le mette al sicuro, al contrario, è probabile che possano essere zavorrate e trascinate al ribasso dal flusso di brutte notizie che continuerà ad arrivare dal fronte dei famigerati «subprime».
Per gli esperti della banca Usa, il mercato non ha ancora compreso la reale gravità della situazione e si sta sollazzando con l’idea che qualche decine di migliaia di famiglia in difficoltà con il pagamento della rata del mutuo non siano un problema serio per il sistema. Di sicuro il mercato non è nelle condizioni di perdonare altri errori dalle banche e dalle società finanziarie.

IL FOGLIO, MARTEDì 14 AGOSTO
Milano. Dopo la débâcle delle prime due settimane di agosto dei mercati finanziari internazionali e il ritorno precipitoso dalle vacanze dei top manager allarmati di fondi e banche, la tripla iniezione di liquidità della Banca centrale europea, l’ultima da 47 miliardi di euro proprio ieri, e della Federal Reserve statunitense ha avuto come effetto principale quello di spostare l’attenzione di banchieri ed economisti europei e americani sui fondamentali dell’economia e la possibilità che a settembre, al rientro dalle ferie estive, le banche centrali mondiali decidano di tagliare i tassi di interesse per contenere le sempre più probabili spinte inflazionistiche legate all’immissione dei circa 400 miliardi di dollari di liquidità. Questo anche a costo di danneggiare, seppure temporaneamente, investitori, hedge fund e banche. Le Borse europee, come era facilmente prevedibile, dopo la chiusura positiva di Wall Street venerdì scorso, ieri hanno messo a segno un’altra seduta in progresso rintracciando parte delle perdite accumulate nei giorni scorsi. In realtà alcuni esperti newyorchesi temono che un taglio dei tassi da parte della Fed, nel mese di settembre, possa alimentare nuove speculazioni borsistiche, rischiando di mettere nuovamente in difficoltà grave i mercati. Anche perché nessuno è ancora in grado di quantificare il danno subito dai grandi fondi speculativi né di capire chi potrebbe aver guadagnato dal tonfo delle Borse internazionali. In luglio l’ex presidente della Federal Reserve Bank di Atlanta, William Ford, aveva previsto ”una crescita delle possibilità che l’economia americana entrasse in recessione”. Una premonizione annunciata nonostante il numero uno della Fed, Ben Bernanke, e del Tesoro, Henry Paulson, avessero dichiarato svariate volte nei mesi precedenti che i danni legati ai subprime sarebbero stati ”contenuti”.
Adesso il mercato si divide in due correnti di pensiero: una parte degli analisti, come per esempio quelli della Bank Of America, ritiene che la recente crisi dei mercati, e la disfatta dei subprime, ”sia solo la punta dell’iceberg” e che nei prossimi mesi ”le dimensioni del problema diventeranno globali”. Altri ancora, soprattutto negli Stati Uniti, prevedono la messa in liquidazione di svariati hedge fund, com’era già successo nel 1998 con LTCM, e mercati estremamente volatili per almeno altri due mesi. Ovviamente il consiglio degli operatori più navigati di Wall Street è quello di mantenere la calma, visto che l’economia statunitense e quelle del Vecchio continente non mostrano segni particolari di rallentamento. Un’altra scuola di pensiero invece consiglia di investire ora che i prezzi dei titoli di alcuni settori hanno raggiunto livelli giudicati ”interessanti”. Non a caso, quando la crisi ha toccato il suo apice, il 7 agosto, gli analisti della banca d’affari tedesca Dresdner Kleinwort hanno consigliato ai propri clienti di acquistare azioni del settore bancario in Europa, citando l’italiana Unicredit e l’inglese HBOS.
Le banche internazionali, secondo quanto riportato da Bloomberg, hanno bruciato oltre 600 miliardi di dollari in poco più di due settimane, diventando di fatto molto interessanti per qualsiasi tipo di investitore. E le prime a beneficiare della ripresa degli indici internazionali sono state proprio le grandi istituzioni statunitensi capeggiate da Goldman Sachs e Bear Stearns, tra le prime ad aver ammesso di avere problemi di liquidità in alcuni fondi. Lo spettacolo deve comunque andare avanti e già si inizia a vociferare della possibilità che Bear Stearns diventi preda, non appena i mercati si rimetteranno in carreggiata. La Bce ieri ha fatto sapere che ”le condizioni del mercato monetario sono in via di normalizzazione e che la liquidità è ampia. Con operazioni di aggiustamento, la Bce sta ulteriormente accompagnando la normalizzazione delle condizioni del mercato monetario”.

IL FOGLIO, MARTEDì 14/8/2007
La Bce, la Banca centrale europea, è a Francoforte, nel cuore del sistema della finanza tedesca. Il suo presidente Jean-Claude Trichet ha un passato di grand commis francese (nell’amministrazione finanziaria e come capo di una grande banca statale, il Crédit Lyonnais, che subì gravi traversie finanziarie dovute alla sua sovraespansione). Di fronte al cattivo investimento nei subprime loans immobiliari statunitensi di un fondo di una banca tedesca semistatale, la Ikb, e di tre fondi di Bnp Paribas, la seconda banca francese per importanza dopo Crédit agricole, la Bce ha erogato sul mercato finanziario europeo, fra giovedì e venerdì, circa 160 miliardi di euro. E poi altri 47 miliardi e passa ieri. Per una strana coincidenza, alla fine della settimana scorsa si era appreso che anche la banca statale tedesca WestLB, che aveva investito in subprime loans statunitensi, si trovava alle prese con un problema di sofferenze in un suo fondo.
La Federal Reserve, che dovrebbe essere la più preoccupata per i subprime, giovedì aveva immesso sul mercato statunitense solo 59 miliardi di dollari, contro i 95 di euro immessi in tale giorno nell’area euro dalla Bce. Appaiono decisamente insolite, quindi, tutte queste iniezioni di liquidità a favore di banche tedesche e francesi da parte di Trichet – tanto più che lo stesso Trichet riteneva, così almeno aveva detto, che il rischio di inflazione fosse ancora elevato e che ciò comportasse un aumento dei tassi. Anche la drammatizzazione da parte delle grandi banche francesi e tedesche dei problemi dei loro fondi di investimento desta sorpresa. Si tratta infatti di colossi finanziari per i quali le perdite subite dai fondi sono marginali, rispetto agli utili che continuano a conseguire con il resto delle loro attività. Se queste banche avessero dichiarato: ”Ci assumiamo la responsabilità degli investimenti sbagliati dei nostri fondi”, probabilmente il mercato borsistico europeo non avrebbe registrato i tonfi che hanno dato alla Bce il ”la” per derogare al suo rigore. Si tratta di un brutto precedente, per la valutazione dei rischi di impresa, che ricorda il principio della privatizzazione del profitto e della statalizzazione delle perdite.

CORRIERE DELLA SERA, MERCOLEDì 15 AGOSTO
GIANCARLO RADICE
MILANO – Alla crisi finanziaria innescata dai mutui subprime
americani s’aggiunge adesso la minaccia di un calo dei consumi Usa in grado di gelare l’economia.
Ieri la Bce è tornata per il quarto giorno consecutivo a immettere sui mercati liquidità per soddisfare le esigenze del sistema bancario europeo, limitandosi però a un’iniezione di 7,7 miliardi di euro (dopo i 250 distribuiti fra giovedì e lunedì). Un segno di «normalizzazione » del mercato monetario (confermato dallo stesso presidente Jean Claude Trichet, secondo cui bisogna «mantenere i nervi saldi»), che è però andato a inserirsi in un clima di rinnovata paura. In tutta Europa le Borse hanno aperto in discesa sulla scia della deludente chiusura di lunedì a Wall Street e delle (nuove) brutte notizie provenienti dai mercati americani. A fine giornata, dovunque ha dominato il segno rosso: meno 1,21% Londra, meno 1,63% Parigi, meno 0,82% Milano, meno 0,66% Francoforte. E a Wall Street, dove la Fed è rimasta alla finestra senza intervenire sul mercato monetario, è andata anche peggio: l’indice Dow Jones Industrial Average ha infatti perso l’1,57% e il Nasdaq l’1,70%.
Del resto, le notizie diffuse nel corso delle ore da banche e società finanziarie internazionali giustificano pienamente l’allarme per gli effetti che potrebbe provocare l’onda lunga dei subprime. Sotto i riflettori è finita subito Sentinel Management, grossa società Usa di gestione di fondi specializzati in future sulle materie prime, che ha annunciato di voler bloccare i riscatti da parte della clientela. Una richiesta negata dalla Cfic, l’Authority di settore. Poi s’è aggiunto il rapporto di Sanford C. Bernstein, secondo cui il colosso Citigroup potrebbe perdere un miliardo di dollari nel terzo trimestre proprio per la crisi dei mutui ad alto rischio. Come non bastasse, ecco che Male Countrywide Financial, il maggior erogatore di mutui americano, ha reso noto che pignoramenti e insolvenze sono saliti a luglio a livelli record.
E un bollettino nero è anche quello proveniente da alcune blasonate banche europee: Deutsche Bank ha rivelato di far parte di un consorzio che ha garantito crediti per 6,5 miliardi di euro a un fondo di Ikb, la finanziaria tedesca esposta con i subprime per 17,5 miliardi di euro, mentre il colosso elvetico Ubs ha ammesso che i suoi conti nella seconda parte dell’anno saranno condizionati dalla crisi del mercato immobiliare Usa. E in Spagna, il Banco Santander risulta esposto ai «cattivi crediti» per 2,2 miliardi attraverso una sua finanziaria Usa. Ma ad alimentare la paura per gli effetti che i mutui a rischio potranno avere sui consumi, e dunque sulla stessa crescita economica, hanno contribuito soprattutto i due giganti assoluti della distribuzione «Made in Usa»: Wal Mart e Home Depot. Il primo ha rivisto al ribasso le stime di vendita da qui a fine anno, mentre Home Depot, leader del «fai da te» per la casa, già registra utili in flessione nel trimestre maggio- giugno: da 1,86 miliardi di dollari dello stesso periodo 2006 a 1,59 miliardi di dollari.
Intanto, appare già in frenata l’economia europea. Le stime di di Eurostat dicono che il pil di Eurolandia è cresciuto nel secondo trimestre solo dello 0,3% (e dello 0,5 per l’Ue a 27), contro lo 0,7% dei primi tre mesi. E l’Italia viaggia in coda, con un incremento di appena lo 0,1%.

CORRIERE DELLA SERA, MERCOLEDì 15 AGOSTO
MILANO – la domanda che si stanno ponendo un po’ tutti i sottoscrittori di fondi: che rischi corre il mio investimento?
Una prima risposta la danno le analisi di Morningstar, società specializzata nella valutazione dei fondi comuni, che ha passato al setaccio gli investimenti dei fondi venduti agli italiani per individuare quelli esposti in Abs ( asset-backed securities), vale a dire le cartolarizzazioni all’origine, per la parte che riguarda i subprime, della crisi finanziaria di queste settimane.
Ne emerge che un centinaio di fondi sono esposti genericamente in titoli Abs. Non si tratta però di prodotti gestiti in Italia. Dei circa 1.100 fondi domestici solo una decina conta esposizioni in Abs, e tutte inferiori al 3% del patrimonio. Ad aver investito massicciamente in cartolarizzazioni sono i fondi cosiddetti
round trip, quelli di diritto estero ma promossi da intermediari italiani, banche, reti di promotori, siti on line. Un settore, quello dei fondi round trip, che negli ultimi anni è andato crescendo vertiginosamente, tanto da contare alcune migliaia di prodotti e avere in gestione quasi 200 miliardi di euro affidatigli da risparmiatori italiani, contro i 340 miliardi di euro gestiti dai prodotti made in Italy. Molti di questi fondi sono peraltro poco conosciuti dai sottoscrittori perché acquistati attraverso gestioni patrimoniali in fondi o attraverso i cosiddetti «fondi di fondi ».
Chi ha puntato di più sulla formula «abs», secondo la composizione del patrimonio al 31 luglio scorso rilevata da Morningstar, sono i fondi Franklin U.S. Ultra Short Bond (gruppo Franklin Fidelity) con il 32,8% del patrimonio investito in asset-backed securities.
Sono fondi distribuiti in Italia da una sessantina di soggetti, dalle piccole banche locali alle reti di promotori, ai colossi del credito. Segue West Lb Mellon Compass Fund (ha sospeso i rimborsi la settimana scorsa), con il 26,2% del patrimonio in cartolarizzazioni, e poi lo svizzero Julius Baer Dollar Medium Term (23,6% del patrimonio), l’MS Sicav Us Bond (23,3%), l’Ab Short Maturity Dollar (20,9%), il Parvest Dynamic Abs (20,7%), l’MLIIF Us Dollar Short Duration (20,4%), il Fortis L Money Market Usd Account (20,4%) e il Lehman Bros Us Bond (18%). La maggior parte dei fondi più investiti in cartolarizzazioni è peraltro composta di prodotti monetari o obbligazionari a breve termine, vale a dire quelli che dovrebbero innanzitutto proteggere il capitale.
Va detto che asset-backed securities non è necessariamente sinonimo di titoli spazzatura. Sotto questa denominazione, infatti, vanno sia i mutui subprime,
all’origine della crisi finanziaria che sta scuotendo le borse, sia le cartolarizzazioni più solide, legate ad attività a basso rischio. Il problema è che gli Abs sono titoli che fanno categoria a sé, hanno un loro mercato, non sono quotati in Borse ufficiali e oggi scontano tutti una grave crisi di fiducia. « tutto il mercato Abs a non essere più liquido », spiega Francesco Tam, responsabile del desk Structured bond per la sede italiana della Abn Amro, «e a risentire della crisi ormai non sono più solo le cartolarizzazioni di mutui subprime,
ma anche quelle dei mutui prime ».

***

Il fondo speculativo ha bisogno di liquidità, e quindi deve scommettere contro se stesso. Ecco che cosa (dice il Wsj) spiega lo zigzag di tanti titoli. Prima beniamini del mercato e poi negletti, o viceversa. E’ grazie ai loro modelli matematici che gli hedge fund scelgono strategicamente se vendere o acquistare. In questi giorni però nei modelli qualcosa non ha funzionato. E quindi, per fare cassa, gli hedge fund sono stati costretti a fare il contrario di ciò che avevano preventivato. Accentuando la volatilità delle Borse

CORRIERE DELLA SERA, MERCOLEDì 15 AGOSTO
FEDERICO FUBINI
MILANO – Migliaia di bocciature o di minacce di riduzione dei voti in poche settimane, nel caso di Moody’s anche su titoli legati a mutui a rischio presentati con il massimo dei voti (la cosiddetta «tripla A»). Passi falsi come quelli commessi da Standard & Poor’s il mese scorso, quando l’agenzia di rating scosse i mercati: annunciò declassamenti in serie per titoli del valore di 12 miliardi di dollari, per poi ridimensionare il calcolo a 7,3 solo dopo il crollo dei listini. Revisioni dei metodi a crisi aperta, in un’implicita ammissione che qualcosa non funzionava: solo a giugno Moody’s ha iniziato a prendere in considerazione i redditi dei proprietari di case con mutui a rischio, i «subprime», poi rivenduti sui mercati.
Come sempre quando si scatena il panico, la caccia al colpevole è partita. E le agenzie di rating, chiamate a valutare le probabilità d’insolvenza sui titoli di debito, stavolta rischiano di trovarsi in prima linea. In questa fase il sistema europeo delle banche centrali e il Fondo monetario internazionale si concentrano sempre di più sul ruolo degli analisti di questo settore nella crisi di fiducia che ha contagiato i mercati. Per il momento difficilmente la Banca centrale europea o l’Fmi agiranno. Probabile però che il «Global Financial Stability Report », il rapporto del Fondo del prossimo ottobre, si concentri sulle contraddizioni del sistema emerse platealmente negli ultimi giorni.
Alla guida del dipartimento del Fmi sui mercati dei capitali c’è Jaime Caruana, dal 2000 al 2006 governatore della Banca di Spagna e componente del consiglio della Bce. E proprio i banchieri centrali europei sono fra i più attenti ai problemi emersi in questi giorni. Non è affatto scontato che da ora in poi si scateni un processo ai rating come avvenne contro i revisori dei conti dopo i crac di Enron o Parmalat. Ma i responsabili della diplomazia finanziaria iniziano già a mettere a fuoco ciò che non ha funzionato e il mercato lo ha percepito: nell’ultimo mese Moody’s Corporation ha perso circa il 20% a Wall Street e McGraw-Hill, il gruppo di controllo di S&P’s, anche di più.
Nel sistema dei più svariati mutui americani reimpacchettati in titoli finanziari e rivenduti a banche o a fondi, le agenzie di rating dovevano in realtà dare indicazioni sui rischi d’investimento. Almeno per due ragioni quel giudizio ha assunto un peso sempre maggiore: i fondi-pensione possono comprare solo titoli con rating elevati (spesso da «A» a «tripla A») e le nuove regole internazionali sui requisiti di capitale spingono anche le banche a incamerare investimenti giudicati solidi dalle agenzie. In queste condizioni, Moody’s, Standard & Poor’s o Fitch si sono trovate al cuore del sistema. Non a caso gli emittenti dei titoli basati (anche) sui «subprime» lavoravano con gli analisti delle società di valutazione fino a produrre miscele di mutui e derivati che garantissero voti accettabili da banche e fondi. Per le agenzie, si trattava di una fonte di entrate molto più ricca di quella offerta per esempio dai ben più visibili giudizi sugli Stati: nei primi tre mesi di quest’anno la finanza strutturata ha garantito a Moody’s il 46% dei ricavi.
S’innesta qui l’anello debole che adesso attira l’attenzione dei banchieri centrali europei. Perché quei rating sui titoli venivano dati al momento dell’emissione sulla base del controvalore dell’immobile presentato in garanzia. Ma quando in America i prezzi delle case sono caduti, riducendo di molto le garanzie, le agenzie spesso non hanno adeguato i loro giudizi sul rischio insito nei titoli: i tagli ai rating sono arrivati solo a cose fatte, con l’insolvenza alle porte.

LA STAMPA MERCOLEDì 15/8/2007
VANNI CORNERO
Dopo aver tamponato l’emorragia in tutto il mondo le Borse cercano di consolidare le posizioni, ma non è facile: il terremoto dei mutui americani ad alto rischio continua a far sussultare i listini e gli operatori sono all’erta per capire in anticipo se vicende come quella di Sidney, dove le quotazioni della Rams Home Loans Group specializzata in questo tipo di mutui hanno subito un tracollo del 19%, siano vibrazioni d’assestamento o annunci di una nuova grande scossa. E, naturalmente, dopo un rogo che ha bruciato centinaia di miliardi di euro e di dollari si cercano le falle nel sistema ed i colpevoli. In Italia è l’Adusbef a farsi portavoce dello sgomento dei risparmiatori puntando il dito «sulla latitanza delle autorità di Borsa preposte ai controlli, dalla nostrana Consob alla statunitense Sec». Questo proprio mentre, come riporta il quotidiano spagnolo Abc il Banco Santander sarebbe esposto sul mercato dei mutui Usa per 2,2 miliardi di euro attraverso la controllata Drive Financial. L’entità dell’esposizione sarebbe pari al 5,33% del totale dei crediti al consumo di Santander Consumer Finance, il ramo della banca spagnola che si occupa di questo settore. Ma anche gli istituti non direttamente impegnati sul fronte dei «subprime» soffrono. Ieri il colosso bancario svizzero Ubs, numero uno in Europa, perdeva il 3,86% sui timori di un calo degli utili nella seconda metà dell’anno causati dall’eventuale persistere della crisi. Un elenco negativo che si è esteso alle principali banche d’Europa: Credit Suisse (-2%), Credit Agricole (-1,62%), Bnp (-1,6%), Deutsche Bank(-1,54%), Unicredit (-1,6%), Capitalia (-1,45%),Intesa Sanpaolo (-0,75%).
Tra le azioni a livello istituzionale ieri la banca del Giappone ha riassorbito la liquidità immessa sui mercati nei giorni scorsi, convinta che la crisi stia rientrando e la Fed non è intervenuta con nuove iniezioni di capitali. La Bce, invece, ha messo in circolo 7,7 miliardi di euro, mentre il suo presidente,Jean-Claude Trichet, assicurava ancora una volta: «Le condizioni del mercato monetario stanno progressivamente tornando alla normalità. Continueremo comunque a monitorare strettamente la situazione». Parole, alla luce dei risultati registrati dai listini europei, poco ascoltate.
La giornata si era aperta in Asia con risultati contrastanti sulle principali Borse dell’area (Tokyo +0,27%, Hong Kong +0,05%, Shanghai +0,76%, Taiwan -0,31%, Seul -1,70%) mentre l’Europa, sull’onda della chiusura debole di lunedì a Wall Street è partita al ribasso per poi virare in positivo, Zurigo esclusa, dopo l’avvio positivo di New York. Una condizione che è di nuovo, definitivamente, mutata quando gli indici Usa sono passati sul segno meno. A far cambiare umore a Wall Street, più che altro, è stato l’allarme sui profitti della catena di grande distribuzione Wal-Mart, ma certamente ha pesato la notizia che gli analisti di Sanford C. Bernstein hanno previsto per Citigroup una perdita sino a 3 miliardi di dollari nel terzo trimestre dell’anno a causa della crisi del credito subprime. In chiusura il Dow Jones ha perso l’1,57% e il Nasdaq l’1,70%.
Anche nel Vecchio Continente il bilancio è stato tutto negativo: Londra -1,21%, Parigi -1,63%, Francoforte -0,66%, Madrid -1,21%, Milano -0,82%, Amsterdam -0,94%, Stoccolma -0,97%, Zurigo -1,59%.Insomma, il capitolo dei mutui subprime, per gli investitori non è ancora chiuso.


WWW.REPUBBLICA.IT GIOVEDì 16/8/2007
ROMA - Piazza Affari salta un turno per Ferragosto, ma le altre Borse sono aperte. In Asia i mercati sono andati tutt’altro che bene mentre in Europa, dopo un calo di quasi un punto e mezzo percentuale, c’è stato un miglioramento condizionato dall’andamento positivo della borsa di New York (che ha però girato nelle ultime ore di contrattazione, chiudendo a 1,29).

Europa. Nel Vecchio continente, (dove oltre a Milano sono chiuse Atene, Vienna e Lussemburgo) però le borse hanno cominciato a riprendere dopo il recupero di Wall Strett. Segno positivo a Francoforte (+0,37%) e Zurigo (+1,24%), mentre Parigi (-0,71%) e Londra (-0,59%) hanno quasi dimezzato le perdite. La Bce continua a vigilare, pronta a immettere nuova liquidità su mercati che mostrano buoni fondamentali ma restano dominati dalla paura dei "subprime".

Usa. Come sempre tutti gli operatori attendevano con ansia l’apertura di Wall Street. La Borsa americana ha aperto in leggera flessione. Poi l’inversione di tendenza che ha condizionato positivamente le borse europee e la nuova inversione di tendenza in chiusura: alal fine il Dow Jones ha fatto segnare un deciso -1,29.

Asia. I mercati asiatici hanno chiuso tutti col segno meno. A Tokyo (indice Nikkei a -2,2%) la discesa è stata guidata dalle grandi banche: Mitsubishi e Sumitomo Mitsui hanno toccato i minimi degli ultimi due anni dopo aver ammesso perdite dovute a investimenti nel settore dei mutui "subprime" americani. E in Giappone, a differenza di quanto è accaduto negli Usa e in Europa, la Banca centrale non ha potuto schierarsi con gli altri maggiori istituti di emissione all’estero, per attenuare la stretta creditizia come aveva fatto all’inizio della crisi.

Anzi, nel timore di veder precipitare i tassi di interesse e riaffacciarsi lo spettro della deflazione esorcizzato da poco più di un anno, la Banca del Giappone ha dovuto assorbire liquidità per 2.000 miliardi di yen (13 miliardi di euro).

"Le autorità nipponiche - ha commentato un esperto occidentale da tempo residente a Tokyo - sono chiaramente convinte che la ripresa economica del Paese ha sane fondamenta e quindi finirà per resistere bene alle turbolenze finanziarie provenienti dall’estero".

(15 agosto 2007)

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 17/8/2007
GIANCARLO RADICE
MILANO – Vendere. A tutti i costi. L’appello che il governatore della Bce Jean-Claude Trichet ha rivolto agli investitori («Tenete i nervi saldi») è durato lo spazio di un respiro. Ieri sui mercati è scesa una spessa cappa di paura: c’è ormai la sensazione che la crisi innescata dai titoli sui mutui subprime
americani possa rivelarsi molto peggiore di quella che nel 1998 fece saltare Long Term Capital Management, la «madre» di tutti i fondi speculativi. Dall’Asia all’Europa agli Usa, le borse sono cadute una dopo l’altra. Partendo da Tokio (meno 1,99%), Hong Kong (meno 3,29%) e Seul (meno 6,93%) l’ondata si è poi spostata a Londra (meno 4,10%), Francoforte (meno 2,36%), Parigi (meno 3,26%), Milano (meno 3,45%), Zurigo (meno 2,76%). Complessivamente sulle piazze europee sono andati in fumo almeno 304 miliardi di euro. E a precipizio hanno aperto la seduta anche gli indici americani, nonostante l’intervento della Federal Reserve con due operazioni pronti contro termine da 17 miliardi di dollari. Fonti di mercato dicono anche che Ben Bernanke abbia chiesto (e ottenuto) un apporto di liquidità nel sistema da parte dei grandi fondi pensione. Con il risultato di far tirare il fiato a Wall Street, dove l’indice Dow Jones si è ripreso fino a terminare a meno 0,12%.
Ma l’allarme è tutt’altro che cessato. Ed è ormai la fonte di preoccupazione numero uno anche per i leader politici. Soprattutto quelli europei, fra i quali si legge tutta l’indignazione per la disinvoltura di società finanziarie, a partire dagli hedge fund, che muovono enormi flussi di capitale in modo tutt’altro che trasparente. In una lettera inviata al cancelliere tedesco Angela Merkel, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha lanciato ieri un appello per sollecitare i capi di stato e di governo del G7 ad affrontare nel meeting in programma a ottobre il problema di una migliore regolamentazione dei mercati finanziari e dei loro protagonisti. «Le operazioni di cartolarizzazione che si sono sviluppate negli ultimi anni hanno trasferito rischi bancari sui numerosi attori dell’economia – recita il documento dell’Eliseo ”. Ma i sostenitori finali di questi rischi sono oggi molto male identificabili e questa mancanza di conoscenza è di per sé un fattore di instabilità». «Certamente d’accordo » con il presidente francese si è dichiarato il leader italiano Romano Prodi, che ha anche espresso il suo appoggio alla Bce: «Le misure adottate dalla Banca centrale europea vanno nella giusta direzione’ ha detto ”. Vedremo nei prossimi giorni se saranno sufficienti». «I rischi sono molti seri» – gli ha fatto eco il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco ”. Bisogna continuare a vigilare».
E’ certo comunque che dagli Usa, epicentro dell’instabilità finanziaria, anche ieri sono arrivati segnali che depongono per un ampliamento della crisi. Countrywide Financial, il maggiore operatore di mutui immobiliari, ha ammesso in mattinata di aver ottenuto una nuova disponibilità di credito per 11,5 miliardi di dollari, necessaria per evitare quella che gli analisti di Merrill Lynch hanno definito «un’ipotesi concreta di bancarotta ». E il vicepresidente dell’agenzia di rating Moody’s, Chris Mahoney, si è spinto fino a pronosticare «il collasso di uno dei maggiori hedge fund».
Quanto poi al mercato immobiliare Usa, cioè la miccia da cui è partito l’incendio, quello che comincia ad emergere è uno scenario ormai prosciugato. Il Dipartimento del Commercio ha infatti reso noto ieri che l’attività è scesa in luglio al punto più basso degli ultimi 10 anni, con le costruzioni di nuove case che si sono ridotte del 6,1% rispetto all’anno precedente. Un dato che porta nuove ombre sull’atteggiamento dei consumatori americani. Tanto che il segretario al Tesoro, Henry Paulson, nella sua prima uscita pubblica dall’inizio della crisi, ha ammesso ieri in un’intervista al Wall Street Journal di aspettarsi «una penalizzazione del tasso di crescita dell’economia», anche se resta fiducioso che gli Usa «non rischiano una recessione». A fare la differenza rispetto alle altre crisi finanziarie, secondo Paulson (che ha un passato di amministratore delegato di Goldman Sachs, una delle regine di Wall Street), è il fatto che «l’economia globale è particolarmente solida», trainata dalla crescita dei Paesi emergenti come Cina e India e alla ripresa in corso in Europa.
Ma il responsabile del Tesoro Usa non ha risparmiato parole dure verso «il deterioramento degli standard con cui sono stati concessi i mutui». E ha lasciato anche intendere quale potrebbe essere la sorte di alcune società finanziarie molto esposte su questo fronte: «Qualcuna cesserà di esistere – ha ammesso ”. Sarà questa la conseguenza dei loro eccessi».

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 17/8/2007
MARIA TERESA COMETTO
NEW YORK – «Era il sogno della mia vita. Avere una casa mia, dove vivere con i miei figli e gestire il mio business. Un anno fa credevo di averlo realizzato, ma ora mi sta crollando addosso. Non auguro a nessuno di trovarsi nella mia situazione». A sfogarsi è Quanda Moore, 36 anni, mamma single con quattro figli, due adolescenti e due bambini più piccoli: nel giugno 2006 aveva comprato una casa di due piani nella cittadina di Mount Vernon, nella Westchester county, un’area a nord di New York dove convivono ricchi pendolari di Wall Street e famiglie di lavoratori meno abbienti, molti latino- americani e neri come è Quanda.
La sua storia è comune a 1 milione di altri proprietari di case che, secondo RealtyTrac, quest’anno rischiano di essere sbattuti fuori perché non ce la fanno a pagare le rate dei loro mutui, gran parte dei quali sono "subprime", quelli che stanno facendo tremare i mercati finanziari. «La casa mi era piaciuta subito, con i pavimenti di legno, rifiniture di quercia e vetrate dipinte - continua Quanda - . Costava 561 mila dollari, più di quello che potevo permettermi. Ma il broker mi ha detto di non preoccuparmi, perché entro sei mesi sarei riuscita a rifinanziarmi riducendo le rate». Così Quanda senza versare un dollaro ha comprato la villetta con due mutui pari al 100% del suo valore, secondo uno schema che, prima dell’ attuale crisi, era comune sul mercato Usa: il mutuo principale finanziava l’80% e il resto era coperto dal secondario, piu’ caro. I tassi erano dell’8% per il mutuo maggiore e del 12,75% per il minore, più alti della media (6% un anno fa), perché Quanda era una cliente "subprime", cioè aveva un basso voto di affidabilità finanziaria: il suo reddito e la sua storia creditizia (come aveva pagato altri debiti) indicavano che era maggiore il rischio di bancarotta. Nel 2006 negli Usa sono stati erogati mutui "subprime" per ben 600 miliardi di dollari, il 20% di tutti i mutui, più del doppio che nel 2003.
«Le due rate arrivavano a 4.200 dollari al mese e io guadagno circa 6.200 dollari (prima delle tasse), lavorando 80 ore alla settimana con l’asilo nido privato che gestisco in casa e facendo i turni di notte e nel week-end in una casa di riposo - spiega Quanda - . Era dura, ma speravo nel rifinanziamento». Fino a quando i prezzi immobiliari hanno continuato a salire, per le famiglie americane era normale farsi rivalutare la casa e, a fronte di un aumento del prezzo, cambiare il vecchio mutuo con uno più conveniente, a un tasso inferiore. Ma con i prezzi piatti o in declino, ecco che il debito diventa maggiore della casa e non può essere ricontrattato: una situazione in cui si trova almeno il 7% dei proprietari secondo First American CoreLogic.
«Poi ci si e’ messa la sfortuna - singhiozza Quanda - . Mi sono ammalata e non ho potuto lavorare per due mesi. Ho saltato il pagamento di quattro rate e a luglio la banca mi ha detto che iniziava le procedure per requisire la casa ». Un dramma che colpisce un crescente numero di famiglie: secondo Countrywide financial services, la quota di ritardi nel pagare le rate è aumentata dal 4,1 al 5,1% di tutti i mutui nell’ultimo anno, e dal 14 al 20% fra i "subprime"; ed è raddoppiata dallo 0,5 all’1% la fetta di mutui finiti male che porta al sequestro della casa. Il totale di debiti non ripagati potrebbe arrivare a 100 miliardi di dollari, ha detto il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke: una mina vagante sui mercati finanziari, dove un imprecisato numero di bond è stato costruito sulla base di quei mutui.
«Ora sono quasi riuscita a rimettermi a posto con le rate e la banca ha congelato il sequestro - aggiunge Quanda - . L’associazione Westchester residential opportunities mi sta aiutando a contrattare un nuovo mutuo. Ma ho sempre paura di perdere tutto».

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 17/8/2007
PAOLA PICA
MILANO - «Il panico per esserci c’era: ieri è stato venduto praticamente tutto quello poteva essere venduto... Ma la tempesta non durerà a lungo e, anzi, sarebbe già il momento di comprare». Non teme il grande crollo e la crisi senza orizzonte, Angelo Abbondio, numero uno della società di gestione Symphonia (gruppo Intermobiliare) e uno dei nomi più noti in Piazza Affari, dove molti anni ha esercitato come agente di cambio.
Di scossoni, in Borsa, lei ne ha vissuti tanti. Ma questa è una crisi difficile da capire...
«Direi che è una situazione senza senso. Non è una bolla speculativa e l’economia non va così male. Il problema è sorto quanto alcune banche hanno precluso alla clientela la possibilità di uscire dai propri investimenti. Questo ha generato panico e gli investitori si sono messi a vendere il vendibile, si è fatto di ogni erba un fascio ».
La paura però si è estesa a tutti i mercati.
«In un mercato globalizzato, la corsa a liquidare le posizioni è generalizzata. Perché i grandi fondi, molti dei quali si sono finanziati tra l’altro in yen, valuta che sta crescendo, hanno bisogno di liquidità».
I risparmiatori italiani sono molto disorientati: cosa devono aspettarsi?
«In Italia non ci sono prodotti a rischio, almeno legati ai mutui sub-prime. O se ci sono sono investimenti molto marginali dentro a qualche fondo straniero ».
Si può stare tranquilli, allora?
«Direi proprio di sì. Anzi, si aprono proprio in questi momenti, con questi prezzi, opportunità interessanti. Ci sono molti titoli da comprare».
Lei pensa che il ribasso sia finito?
«Penso che non durerà a lungo. Magari ci sarà ancora qualche assestamento, ma quando i mercati risaliranno non sarà solo un semplice rimbalzo, sarà finito il ribasso».
Cosa la induce all’ottimismo?
«La grande velocità con la quale i prezzi sono scesi. Il danno subito fin qui dai listini sembra di molte volte superiore alle perdite che si immaginano dovute ai mutui sub-prime».
Ma tra i capi di governo c’è preoccupazione: si incontreranno per parlare di quanto avvenuto in questi giorni
«Quando si incontreranno e inizieranno a parlare, la crisi sarà gia rientrata».
Gli hedge fund sono o non sono un fattore di rischio per i mercati?
«In teoria dovrebbero essere difensivi e stabilizzanti: vendono qualcosa ma comprano sempre qualcos’altro».
E lei quali titoli comprerebbe in questo momento?
«Qualsiasi azione a largo mercato, i prezzi sono buoni. E fondi azionari».

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 17/8/2007
MARIKA DE FEO
FRANCOFORTE - La Commissione europea mette sotto accusa le agenzie di rating, per la lentezza dimostrata nella riclassificazione dei rischi legati ai crediti subprime e ai crediti strutturati, avvenuta soltanto nel luglio scorso. E preannuncia di rivedere entro l’aprile del 2008 il codice di condotta volontario seguito dalle agenzie, riservandosi, se sarà necessario, di arrivare anche a una modifica della legislazione europea.
Secondo la portavoce della Commissione Antonia Mochan, la Ue è «preoccupata dalla lentezza mostrata dalle agenzie di rating nel reagire a segnali concreti del deterioramento dei mercati in atto fin dalla metà del 2006». Infatti, le agenzie come Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch avevano aspettato fino a luglio - quindi dopo la crisi di alcune società coinvolte nei crediti ad alto rischio d’insolvenza - prima di riclassificare pesantemente i rischi connessi a questo tipo di investimenti. E nei giorni scorsi, il Commissario Charlie McCreevy si era già mosso per incontrare personalmente i responsabili di varie agenzie.
Da settembre quindi, la Commissione farà partire un’inchiesta sulle agenzie di rating del credito e in particolare sul «loro legame con il rating di prodotti strutturati», concentrandosi anche sulla revisione, se sarà necessaria, del codice di condotta volontario adottato dalle agenzie all’indomani del tracollo di Enron. E includendo poi altri aspetti delle agenzie, come ad esempio la governance e la gestione dei conflitti di interesse.
E poi, sempre secondo la Mochan, la revisione del codice di condotta sarà pronta "al massimo" entro l’aprile del 2008. E l’analisi della Commissione sarà «in parallelo » con la revisione del codice di condotta in preparazione presso la Iosco (l’International Organization of Security Commission,

l’organizzazione mondiale delle autorità
di vigilanza sui mercati finanziari) per risolvere le lacune emerse negli ultimi anni, rese ora evidenti dalla nuova crisi nei mercati finanziari.
E in conclusione, la portavoce della Commissione ha aggiunto che «non è escluso che venga rivista anche la legislazione in materia" e che "non esiteremo ad agire, se l’esame mostrasse che è necessario farlo". In questo caso, spetterebbe al Commissario al mercato interno, Charlie McCreevy, annunciare la decisione se proporre o meno una legislazione in materia nel corso del 2008.
La Commissione si è astenuta dal rivangare il passato o di sottolineare il nuovo colpo all’ immagine delle agenzie di rating. Ma ci hanno pensato ieri numerosi siti online tedeschi e anglosassoni a snocciolare gli errori commessi dalle agenzie nelle gravi crisi finanziarie precedenti, dal Messico alla Russia, alla Corea del Sud, a Enron. E in quest’ultimo caso si ricorda che fino al 27 novembre del 2001 Standard & Poor’s e Moody’s avevano classificato Enron come "creditore relativamente solido", mentre cinque giorni dopo era fallita. E in questi giorni, sotto i colpi delle nuove accuse, Moody’s per prima ha annunciato una revisione dei metodi di rating, mentre in Italia l’associazione dei consumatori Adusbef ha presentato un esposto-denuncia presso alcune Procure sul «gravissimo comportamento» delle agenzie internazionali.

1.016
Le riduzioni della valutazione del credito di società fatte dall’agenzia Moody’s negli ultimi due mesi

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 17/8/2007
FEDERICO FUBINI
MILANO – Per la prima volta nel dopo guerra fredda, i mercati giocano a parti invertite: i Paesi emergenti subiscono il contagio di un uragano che arriva dal mondo avanzato, non il contrario. Sembrano un’altra era gli anni 90 in cui Wall Street e le Borse europee tremavano per il peso messicano, i crolli dei listini a Bangkok o a Taipei e per il debito di Mosca in insolvenza: ieri l’America Latina e l’Asia dall’Occidente hanno importato solo instabilità e cadute delle quotazioni, non operazioni di salvataggio con fondi raccolti in cordata dal Tesoro americano e dalla Federal Reserve.
Robert Mundell, l’economista premio Nobel della Columbia University, osserva che l’inversione dei ruoli è persino più perfetta di così. Perché dieci anni fa l’America e l’Europa esportavano capitali in Asia, tramite il Fondo monetario internazionale e altri canali. Adesso invece, osserva, l’attenzione di molti è sempre più concentrata sulle riserve valutarie dei Paesi emergenti e sull’uso che Cina, Russia, Singapore o gli Emirati del Golfo potrebbero farne in futuro. Da quelle risorse, già salite sopra i 2.500 miliardi di dollari, verranno nei prossimi anni gli investimenti che ora sembrano fuggire dalle Borse. E per Mundell l’Occidente può biasimare solo se stesso se si trova a fare i conti con rapporti di forza ormai irriconoscibili.
«I fondi composti dai patrimoni sovrani degli Stati emergenti diventeranno un tema estremamente importante» osserva l’economista. A maggior ragione da ora in poi: per ridurre l’indebitamento, i fondi di «private equity» di Europa e Stati Uniti cercheranno probabilmente di vendere parte delle imprese che controllano. su questo sfondo che la Cina e altre economie emergenti, spiega Mundell, «hanno creato una massa finanziaria di manovra per lanciare investimenti e offerte d’acquisto coerenti con gli obiettivi di politiche nazionalistiche».
Non che il premio Nobel voglia dissuadere i cinesi dall’attaccare le imprese dei vecchi Paesi industriali. Da anni Mundell è probabilmente il consigliere finanziario occidentale più ascoltato dal governo della Repubblica popolare. In questa settimane, l’economista sta collaborando all’organizzazione di una grande conferenza internazionale da tenere a Pechino a novembre, proprio sul futuro dei «fondi sovrani». Per lui l’origine delle riserve asiatiche, quelle che ora fanno da contraltare alla crisi, è anche nelle scelte dei governi e delle banche centrali occidentali. «I fondi sovrani nascono in parte come risultato del rifiuto delle autorità monetarie internazionali di riconoscere l’esigenza di un nuovo sistema globale » dice Mundell. L’origine dell’accumulo di riserve dei Paesi in surplus commerciale sarebbe insomma soprattutto nel crescente deficit estero degli Stati Uniti, l’altra faccia di quell’eccesso di debito delle famiglie che ora esplode. Attacca Mundell, pensando palesemente alla Cina: «Era solo questione di tempo prima che certi Paesi usassero questo "non sistema" internazionale per accumulare massicce riserve, non solo per dotarsi di bottini di guerra come nel primo ’900, ma anche per alterare i rapporti di credito» con le economie avanzate. In attesa magari che i caveau di Pechino, temuti fino a due settimane fa, ora vengano invocati per salvare le Borse occidentali.

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 17/8/2007
SERGIO BOCCONI
MILANO – Forse incurante, o forse no, dell’effetto che possono fare simili frasi di questi tempi, ieri Chris Mahoney, vicepresidente dell’agenzia di rating Moody’s, l’ha detto: la crisi di liquidità può mandare a picco un mega hedge fund, con ripercussioni stile onda anomala sui mercati. Qualche operatore, in modo più tecnico, indica due delle tante «spie». La prima è europea: il titolo di Abn Amro, fra i preferiti degli hedge, scende a rotta di collo, inspiegabilmente ben al di sotto dei valori dell’Opa di Barclays. Cosa significa? Che qualcuno (si legga: gestore di hedge) può essere "costretto" a vendere. Il secondo segnale viene dall’America: Sentinel management group, il fondo che non riesce a rimborsare le quote e congela asset per 1,6 miliardi di dollari, conta fra le principali attività la gestione della liquidità degli hedge fund specializzati in materie prime.
Hedge, hedge, hedge. Chiaro no? Le "locuste", i fondi iper-speculativi, fino a qualche giorno fa coccolati dagli ultraricchi e dai maghi della finanza, guardati con rispetto anche se con un po’ di diffidenza dai regolatori che non sanno bene come prenderli, stanno diventando l’archetipo del crac, il nemico in agguato, il demone dei mercati. Il possibile crollo di un superbig paventato da Moody’s risveglia l’incubo del famoso Lctm, l’hedge dei due Nobel dell’Economia, Myron Scholes di Stanford e Robert Merton di Yale, che nel 1998 ha perso in quattro mesi 4,6 miliardi di dollari ed è stato salvato dall’intervento della Federal Reserve che ha organizzato un pool di banche.
Solo che, a ben vedere, c’è una bella differenza. Lctm era un fondo pioniere. Nel ’97 gli asset gestiti da questa categoria di investitori non raggiungevano i 2-300 miliardi di dollari. Oggi secondo alcune stime i protagonisti sono circa 10 mila e gli asset si sono decuplicati, superando i 2 mila miliardi di dollari. Una cifra che tuttavia poco dice della loro "vera" attività, perché gli hedge investono ricorrendo alla leva finanziaria, in altre parole indebitandosi, e possono utilizzare senza limiti strumenti derivati e tecniche speculative per lo più off limits per i fondi tradizionali. Risultato: la leva può moltiplicare per una decina di volte il loro potenziale di azione e i loro portafogli sono pieni dei cosiddetti titoli- salsiccia, quelli cioè che contengono un «tritato» di strumenti finanziari talvolta irriconoscibili anche per i più abili banchieri.
Un mix che oggi fa paura. Il timore non è tanto rivolto al singolo hedge fund, anche di dimensioni ragguardevoli, che se salta coinvolge un perimetro abbastanza limitato: gli hedge sono in pratica società per azioni e nel crac ci rimettono «solo» gli azionisti. No, il problema è rappresentato proprio dall’effetto leva, cioè dall’opacità dei derivati e dai riflessi sulle banche che hanno prestato soldi al fondo. Il collasso di un hedge superbig finanziato con grande generosità da un istituto di credito a sua volta superbig potrebbe avere conseguenze gravi e un’eco sistemica. Un’eventualità ritenuta da molti poco probabile, ma che in questi giorni di grande incertezza spaventa gli operatori.
Ecco dunque trasformarsi in demone uno degli strumenti più «coccolati» degli ultimi dieci anni, con il private equity (l’investimento in società non quotate considerate promettenti e da valorizzare) simbolo di un periodo d’oro della finanza che oggi sembra esaurito. Un periodo contrassegnato da tassi d’interesse contenuti, una fantastica liquidità e volatilità tutto sommato contenuta: condizioni che hanno favorito il boom degli strumenti «alternativi». Come gli hedge, appunto.
Che sono piaciuti così tanto ai super-ricchi da rappresentare oggi il 15-20% dei loro portafogli. Sia perché, considerato il fattore rischio, sono stati contrassegnati da soglie di accesso molto alte, sia perché gli hedge sono nati e si sono moltiplicati esaltando l’anima oscura della loro forza (la leva e la libertà d’investimento) ma anche e soprattutto la loro natura protettiva: hedge in inglese significa proprio garanzia, protezione. Come? Comprando e vendendo senza rete, indebitandosi e operando anche allo scoperto, possono agire controcorrente in qualsiasi condizioni di mercato, in teoria stabilizzando risultati e performance. Solo che il meccanismo è delicato e tutto fila liscio finché la liquidità è abbondante. Ma se, anche a causa proprio dell’incertezza da fattore-salsiccia sollecitata dai mutui subprime, si prosciuga improvvisamente, qualcosa può incepparsi. E il campanello d’allarme suona prima di tutto in banca: la leva adesso fa paura.

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 17/8/2007
FEDERICO FUBINI
MILANO – «Non vedremo più un crash dei mercati», previde John Maynard Keynes nel 1926. Tre anni dopo i suoi risparmi furono spazzati via dal crollo di Wall Street. I grandi banchieri centrali del pianeta possono dunque essere scusati, se non sono in grado di pesare fino in fondo la catena di conseguenze della tempesta che si è scaricata sotto i loro occhi.
La fallibilità umana però non spiega tutto. Non quando molti segnali indicano che né nella Banca centrale europea né nella Federal Reserve regna la calma e lo spirito transatlatico di squadra che i due presidenti, Jean-Claude Trichet e Ben Bernanke, ostentano in pubblico. Il tutto, mentre in America la pressione su Bernanke perché tagli i tassi di 0,25% o 0,50% a settembre (se non prima) si fa rapidamente insostenibile.
Una spia di nervosismo nelle ultime ore viene dal «Desk», lo sportello della Federal Reserve di New York. Quella è la finestra della banca centrale americana sul mondo: da lì, a pochi passi da Wall Street, la Fed di Washington attua i rifinanziamenti come nel caso dei 17 miliardi di dollari prestati al sistema ieri. L’operazione è andata in porto rapidamente, il problema è giusto nella differenza fra ciò che la Fed ha detto e ciò che ha fatto. Nel comunicato, la banca promette infatti di tenersi pronta a nuove iniezioni di capitale «intorno al tasso-obiettivo del 5,25%». Per Bernanke è come dire al mondo che lui non scivolerà negli errori del predecessore Alan Greenspan, niente sconti per togliere dai guai gli speculatori che hanno preso rischi smodati.
Fin qui le parole. In pratica invece i prestiti del Desk della Fed ieri sono usciti con lo sconto al 5,06% e quelli dei giorni scorsi ancor più a buon mercato, in media poco sopra il 4,80%: come se, senza ammetterlo, la banca centrale applicasse uno o due tagli ai tassi d’interesse. Ufficialmente, la Fed di New York nota che mira a facilitare il funzionamento del mercato, ma niente di simile accade in tempi anche solo di normale turbolenza. Al Desk aste sottocosto si sono viste tre volte: durante la crisi del mega-fondo Ltcm nel ’98, nella settimana dopo l’11 settembre e al giro di boa del millennio, quando si temeva il collasso informatico. In queste condizioni, con buona pace delle resistenze iniziali di Bernanke, il terreno sembra pronto per un taglio ai tassi in poche settimane. Lo sconto della Fed non è stato discusso con la Bce, che a sua volta aveva lanciato la prima operazione straordinaria sui mercati giovedì senza avvertire gli americani. Può darsi, come si è spiegato, che a Washington fosse ancora notte quando Francoforte si è mossa. Certo però gli americani si sono irritati per quello che hanno letto come un segnale di panico dato dai colleghi europei ai mercati. Più ancora dell’enorme somma iniettata al sistema (94 miliardi di euro), alla Fed non sono piaciute le parole di accompagnamento: «La Bce risponderà al 100% delle richieste di credito ricevute». Così l’Eurotower diceva a tutti che l’intervento era illimitato, per molti alla Fed era invece come se Trichet e colleghi ammettessero scompostamente di avere paura. In realtà l’esperienza può aiutare Trichet: guidava il Comitato monetario dell’Ue quando la speculazione di George Soros travolse la lira e la sterlina nel ’92. Anche oggi, come allora, rischia di trovarsi presto a resistere da solo contro l’onda dei mercati.






• Hollywood scopre i «subprime». Il Sole 24 Ore 21 agosto 2007. EASTHAMPTON. Michael Douglas è nei guai: è in ritardo sui pagamenti per il terzo mutuo sulla casa, ma riesce lo stesso a ottenere una carta di credito per la figlia che lavora al McDonald’s locale, in una valle della California. Pochi giorni dopo arrivano i camion dei creditori che gli svuotano la casa.  soltanto un piccolo episodio del nuovo film interpretato dall’attore americano, «King of California», in anteprima domenica sera a Easthamtpon, rifugio estivo per l’alta finanza in cerca di quiete. Senonchè, quella del credito facile e del brutto risveglio è stata la storia che nelle ultime due settimane ha dominato i mercati finanziari devastati dalla crisi subprime. anche la storia di ieri, con Wall Street debole, con gli operatori che intravvedono altri nuvoloni all’orizzonte, con i mercati che si preparano a una nuova prova di forza con la Fed: quando cadranno anche i tassi sui Fed funds? Il film diventa così un brusco richiamo alla realtà. Soprattutto per i finanzieri in sala. Per Henry Kravis, ad esempio, anche lui al cinema in pulloverino beige. Kravis ha avuto un problema non da poco giovedì scorso: la divisione immobiliare della sua società di private equity Kkr ha dovuto chiedere una proroga di sei mesi per un "commercial paper" da cinque miliardi in scadenza. Un’umiliazione. Si dice che il suo fondo rischi forti perdite. Di certo, giovedì, quelle di Kkr e Countrywide sono state le due crisi determinanti per la decisione della Fed di ridurre il tasso di sconto. Subito dopo il film, Kravis, scuro in volto, ha rinunciato alla cena organizzata in onore di Douglas da Woody Johnson, proprietario della squadra di football dei Jets, filantropo ed erede della fortuna Johnson and Johnson. Che sia un segnale? Di questi tempi si guarda a tutto. Ma Johnson è sereno, Henry era solo stanco, e lui si occupa d’altro: «Il mio mestiere è riempire gli stadi – dice - Sto preparando un nuovo numero per le cheer leaders e non credo che questa crisi diminuirà l’affluenza». Racconta di aver passato un fine settimana spensierato a giocare a golf con Douglas e la moglie, l’attrice Catherine Zeta-Jones. A giudicare dall’atmosfera agli Hamptons non si direbbe che l’America possa essere davvero sull’orlo del tracollo. Sabato sera c’erano almeno una dozzina di parties. I più ricercati, quello dell’oligarca russo Lev Blavatnik, barbecue all’aragosta sulla spiaggia a Mecox Bay con falò e musica "live": Blavatnik ringrazia il petrolio, che in crisi sembra non entrare mai. Party cubano a Southampton da Frank Lopez Balboa, banchiere a New York e party mediorentale a Bridgehampton da Donald Zhilka, per il compleanno della moglie Virginia, con cibo esotico e danzatrici del ventre. C’è anche George Soros, 77 anni, grande manovratore degli anni 90, svariati miliardi di dollari, titolare dell’omonimo fondo. Danza scatenato al ritmo del vecchio successo di Gloria Gaynor, «I will Survive». Quando gli chiediamo se alla fine, dopo le iniezioni di liquidità e dopo la riduzione del tasso di sconto, i mercati sopravviveranno è sorpreso: «Oggi mi occupo solo di filantropia e teoria politica… dei mercati non mi interesso». Luci e ombre di un’America tramortita dal pericolo? Incoscienza? Caduta completa delle responsabilità di un sistema finanziario che dovrebbe essere il punto di riferimento mondiale per trasparenza e rettitudine? In realtà dietro le musiche, le danze e l’apparente distacco, la preoccupazione c’è, eccome. Zhilka, un investitore oculato, ha due approcci, uno a breve e uno a medio termine. A breve è rientrato: «La settimana scorsa avevo il 40% in contanti. Oggi ho il 20%. Compriamo senza debito o scadenze al margine. A breve ci sarà turbolenza, ma credo che ne usciremo». A medio termine, a due o tre anni è più preoccupato: «Forse ci stiamo accorgendo che l’America non è più una roccaforte indiscussa: il dollaro si indebolirà e per finanziare il disavanzo delle partite correnti si chiederanno altre contropartite». Steve Roberts, presidente dell’università Brown, legato al fondo Reinassance, si concentra sugli squilibri a breve: «Troppa redistribuzione del rischio in pacchetti e strumenti esotici: le banche sono sfuggite alle loro responsabilità. Il vero problema oggi è che nessuno sa davvero che cosa ci sia davvero in certi strumenti finanziari». Roberts, ma anche Wilbur Ross (carbone) o Bob Pittman (finanziere, ex Aol Time Warner) sono preoccupati. Forse il peggio non è ancora passato. Bear Stearns, Lehman, JP Morgan e la stessa Goldman Sachs hanno dovuto liquidare con forti sconti alcune posizioni. E i confini tra realtà e finzione si fanno sottili. «Troppa ricchezza facile, è normale che i nodi vengano al pettine - osserva Michael Douglas - Ma il guaio più grave è un altro, se a pagare sarà solo la gente comune. Proprio come capita al protagonista del mio film». Mario Platero
• E’ difficilissimo prevedere l’esatta portata di una crisi durante la sua fase acuta. In retrospettiva, abbiamo la tendenza a etichettare le crisi – siano esse finanziarie o geopolitiche’ come fenomeni eccezionali di brevissima durata: basti pensare al «lunedì nero», la crisi dei mercati azionari del 19 ottobre 1987, o all’«11 settembre», gli attacchi terroristici di sei anni fa. Questa nozione di tremendi, ma brevi, scossoni rispecchia accuratamente la nostra tendenza umana a vivere nell’attimo presente. Eppure le vere, grandi crisi della storia si sono sviluppate nell’arco di mesi e anni, non in giorni. A mio avviso, in questo periodo stiamo vivendo una crisi prolungata o, per essere più precisi, due crisi. Una parola di incoraggiamento da parte del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, è bastata a convincere gli investitori che la crisi dei mutui ad alto rischio ( subprime) sta per esaurirsi e che presto tornerà il sereno. Ma io non ne sono tanto sicuro. Temo infatti che la strada della ripresa sarà ancora lunga. Per maggior chiarezza, pensiamo alla crisi asiatica del 1997-98, che ebbe inizio il 2 luglio del 1997 con l’assalto speculativo alla valuta tailandese baht e che terminò solo con l’intervento di salvataggio messo in atto dalla gestione di capitali a lungo termine (23 settembre 1998) e dai tre tagli successivi ai tassi di interesse effettuati dalla Fed il 29 settembre, 15 ottobre e 17 novembre. Si può tranquillamente affermare che quella crisi è durata, complessivamente, 503 giorni. Persino il crac del 1987 non si risolse certamente in 24 ore. Ci vollero 651 giorni prima che l’indice Dow Jones tornasse ai valori massimi anteriori alla crisi. Oggi mi chiedo, che cosa vedremo nei prossimi cinque o seicento giorni? Al momento, gli esperti concordano nell’affermare che le perdite complessive dovute alla crisi del mercato immobiliare Usa potrebbero ammontare a 100 miliardi di dollari, che derivano direttamente dalle inadempienze dei clienti senza garanzie che hanno chiesto prestiti e mutui, e ad altri 100 miliardi o giù di lì, che derivano indirettamente dai Cdo, obbligazioni garantite da prestiti e mutui. Tuttavia, non si riesce ancora a identificare con certezza chi sia stato maggiormente danneggiato da queste perdite. Nelle prossime settimane, con ogni probabilità vedremo una corsa alle vendite, man mano che gli investitori cercheranno di riscattare i fondi investiti negli hedge fund sospetti. Questo, a sua volta, potrebbe inasprire la pressione sulle banche che fungono da prime broker degli hedge fund. Ben Bernanke si era mostrato disposto ad aiutare temporaneamente le banche a corto di liquidità, aprendo uno sportello sconti alla Fed. E’ comunque assai improbabile che sia pronto a salvare una banca insolvente e ancor meno un hedge fund fallito. Quando si sono diffuse nel sistema finanziario, le onde d’urto della crisi hanno provocato la perdita di posti di lavoro. E’ importante ricordare quanto siano più importanti i servizi finanziari oggi rispetto a vent’anni fa. Nel frattempo, in America il mercato immobiliare sta assistendo NIDASIO a qualcosa che è accaduto solo poche volte dagli anni Sessanta in poi: i prezzi medi delle case stanno scendendo. Gli esperti prevedono che i prezzi delle abitazioni scenderanno almeno del 10% prima della fine della crisi. Si annunciano inoltre molti pignoramenti nei prossimi diciotto mesi, man mano che i mutui per un valore di circa un trilione di dollari verranno ricollocati a tassi più elevati. La combinazione di stretta creditizia, la perdita di posti di lavoro nei servizi finanziari e immobiliari e un crescente pessimismo tra i consumatori potrebbero rivelarsi un cocktail più velenoso di quanto non siano disposti a immaginare molti investitori. Ho passato giovedì al New York Stock Exchange, la Borsa più grande del mondo. L’atmosfera della vigilia di festa del Labor Day era serena, quasi a voler sdrammatizzare il volume eccezionale di scambi effettuati nell’ultimo mese. La volatilità è tornata, più pericolosa di prima, con un mercato altalenante a giorni alterni. Ma la tendenza al ribasso sarà ancora più marcata se la gente comincia a credere che negli Stati Uniti la recessione è dietro l’angolo. Né i dolori saranno confinati all’America del Nord. Malgrado tutti i discorsi incoraggianti sullo «sganciamento » dell’Asia dagli Stati Uniti, i prossimi diciotto mesi potrebbero svelare le debolezze della regione asiatica, la cui economia fa sempre affidamento alle esportazioni verso il mercato americano. La crisi geopolitica odierna si svolge lungo un arco temporale altrettanto esteso. Dall’invio dei rinforzi americani, la sicurezza in Iraq ha fatto indubbiamente molti progressi, come conferma anche l’ultimo rapporto della Brookings Institution sul tasso di perdite civili in Iraq, ammirevole per la sua imparzialità. Eppure il tasso mensile di mortalità non ci dice nulla sulle immediate prospettive di pace. Si stima che 655 civili iracheni abbiano perso la vita il mese scorso negli attacchi suicidi. Settantacinque soldati americani sono morti e 402 sono stati feriti. Nel frattempo, le prospettive per una soluzione politica duratura e pacifica al conflitto che divide sciiti, sunniti e curdi sembrano assai remote. In patria, la fiducia dei cittadini nella strategia del presidente Bush ha toccato il punto più basso. Sotto questo punto di vista, il presidente Bush ha forse visto giusto nel tracciare un parallelo tra l’Iraq e il Vietnam. L’America cominciò a interrogarsi sulla guerra del Vietnam dal giorno dell’offensiva Tet, che iniziò alla fine del gennaio 1968. Dall’ottobre 1968 in poi, dai sondaggi risultava che una netta maggioranza di americani considerava ormai la guerra un errore. In quel periodo, erano già stati avviati i negoziati di pace di Parigi tra gli Stati Uniti e il Vietnam del Nord, ma si arrivò alla firma solo il 27 gennaio del 1973. In altre parole, l’agonia della guerra del Vietnam si protrasse per oltre 1.800 giorni. Né fu quello il capitolo conclusivo della storia. Saigon fu espugnata solo il 30 aprile del 1975 e l’ultimo ambasciatore americano del Vietnam del Sud venne prelevato in elicottero dal tetto dell’ambasciata. Allo stesso modo, la conclusione dell’intervento americano in Iraq sarà decisa non a Bagdad, bensì a Washington, anche se l’epilogo della tragedia sarà di nuovo un ponte aereo, stavolta dalla Zona Verde. Prima o poi, questo presidente o il suo successore si troverà ad affrontare una pressione pubblica insostenibile e sarà costretto a ordinare il ritiro dei soldati americani dall’Iraq. E questo accadrà, come in Vietnam, prima che la situazione nel Paese abbandonato sia stata veramente stabilizzata. Ed è altrettanto prevedibile che la fine di un Iraq unito, ricalcando il destino del Vietnam del Sud, sarà altrettanto sanguinosa. La grande crisi della politica estera americana, di pari passo con la crisi finanziaria a combustione lenta che stiamo attraversando, si dipanerà nell’arco di centinaia, forse migliaia di giorni. Per tutto questo tempo, leggeremo nei comunicati stampa che l’invio di truppe supplementari ha dato i risultati sperati e che i mercati si stanno riorganizzando. Ma si tratterà semplicemente di voci e rumori, le solite interferenze sulle onde radio della storia. Come nei primi anni Settanta, tutte le crisi finanziarie e geopolitiche del nostro tempo sono strettamente, e inesorabilmente, collegate tra loro. © Niall Ferguson, 2007 Traduzione di Rita Baldassarre di NIALL FERGUSON
• LA STAMPA 10/8/2007
MARCO CASTELNUOVO
TORINO
Il fantasma dei mutui «subprime», prestiti ad alto rischio, ha aleggiato sulle borse mondiali. Solo in Europa, in una giornata ad altissima tensione contrassegnata dalle vendite, ieri sono stati bruciati 160 miliardi di capitalizzazione.
La scintilla
La corsa alle vendite si è scatenata con la notizia che la francese Bnp Paribas ha congelato tre fondi esposti sui prestiti subprime, proprio a causa dell’«evaporazione dell’offerta di liquidità». Immediatamente è scattato l’allarme, e la rete di protezione, della Banca Centrale Europea. Eurotower, nel bollettino mensile diffuso ieri, ha indicato per il mercato europeo dei prestiti «alcune analogie con il mercato statunitense dei mutui ipotecari di qualità non primari che potrebbero dar adito a timori per la stabilità finanziaria nel caso di una svolta avversa nel ciclo del credito». In parole povere i banchieri centrali temono che la crisi dei mutui non onorati scoppiata negli Usa possa investire anche l’Europa.
La rete di protezione
La Bce ha inoltre immesso liquidità sui mercati per 94,84 miliardi di euro allo scopo di fronteggiare la crisi. la più ampia misura di emergenza mai varata dagli attacchi alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 quando, in due tranche, la Bce immise un totale di 109 miliardi di euro. Una mossa a sorpresa seguita a ruota dalla Fed che è intervenuta con 24 miliardi di dollari, pari a 17 miliardi di euro circa. E anche la Banca centrale canadese ha fatto altrettanto. Per tranquillizzare i mercati è intervenuto anche il presidente Usa George Bush: «La nostra economia è forte - ha detto Bush -. c’è sufficiente liquidità nel sistema, abbastanza per consentire correzioni di mercato». Il presidente ha inoltre espresso «enorme solidarietà» per le persone che hanno perso la propria casa per non essere riuscite a ripagare il mutuo acceso, ma ha chiarito che «non saranno concesse sovvenzioni ai proprietari immobiliari, sarà però garantita maggiore flessibilità alle istituzioni finanziarie per aiutare le persone a ripagare il debito».
160 miliardi in fumo
La rete di Bce, Fed e le parole del Presidente Bush, è scattata subito. Ma l’interpretazione data dagli investitori è stata un invito a vendere, soprattutto i titoli del comparto bancario ed assicurativo. E così è stato, con vendite concentrate in Europa: le Borse hanno chiuso la seduta di ieri con pesantissimi cali: a Parigi il Cac 40 ha lasciato sul terreno il 2,79%, a Francoforte il Dax il 2%, a Londra il Ftse 100 l’1,9%, giù anche Milano con un -1,38% del MibTel. Non va meglio oltreoceano: negli scambi a Wall Street l’indice Dow Jones ha ceduto il 2,83%%, il Nasdaq il 2,16%, lo S&P500 il 2,96%.
Giù tutti i bancari
I bancari sono stati maggiormente esposti alla cessione con Dexia (-5,42%), Bnp (-4,6%) e Natixis (-5,57%). A Francoforte arretrano Commerzbank (-4,5%), nonostante il raddoppio degli utili nel secondo trimestre e Deutsche Bank (-3,5%). A Milano perdono Unicredit (-2,88%), Intesa San Paolo (-1,94%), e Capitalia (-2,7%).
Inflazione
Nel bollettino di ieri, la Bce ribadisce che occorre «vigilare con molta attenzione per evitare che si concretizzino rischi per la stabilità dei prezzi nel medio periodo». La formula rispecchia quella già usata al termine dell’ultimo direttivo, quando si è deciso di lasciare i tassi invariati al 4%, aprendo la porta a un rialzo di un quarto di punto a settembre. Sull’inflazione, Eurotower ripete che i prezzi «rimangono soggetti a rischi al rialzo», riconducibili «alle quotazioni petrolifere e, in particolare, a fattori interni», quali la dinamica dei salari e l’eccessiva liquidità. Sulla crescita economica «le prospettive di espansione nel medio periodo rimangono favorevoli» e si prospetta dunque una «crescita sostenuta».

CORRIERE DELLA SERA, 10/8/2007
ANDREA GRECO
MILANO - Come dopo l´11 settembre 2001. Se restavano dubbi che la crisi dei mutui di seconda scelta americani stesse squassando i mercati mondiali, i dubbi sono svaniti. La Banca centrale europea e la Fed di Washington hanno investito oltre 100 miliardi sui listini, una massa monetaria volta a garantire che l´offerta non schiacciasse la domanda, da anni copiosa ma ieri ridotta a un rivolo. servito solo in parte, perché le Borse colmassero i feroci ribassi del mattino. Ma quelle europee hanno perso 160 miliardi, con indici in calo di circa il 2% con le relative eccezioni di Madrid (’1,1%) e Milano (’1,45% l´S&p Mib). New York è partita male per finire peggio: ”2,83%% il Dow Jones, ”2,16% il Nasdaq.
Comportamenti isterici se ne vedevano da settimane, dal fallimento di alcuni speculatori esposti nella cartolarizzazione di mutui casa americani concessi, largheggiando, ai pagatori più deboli e privi di garanzie ipotecarie. Ma finora erano per lo più fondi di nicchia e Oltreoceano. Ieri mattina lo sbarco in Europa della crisi, quando si è capito che anche un´insospettabile colosso europeo come Bnp Paribas poteva finire nei guai per i mutui detti subprime. L´istituto parigino – un leader continentale, che l´anno scorso sborsò senza fiatare una decina di miliardi per spazzar via i furbetti dalla Bnl – emanava una nota sibillina: « sospeso temporaneamente il calcolo del valore liquidativo e le movimentazioni dei tre fondi Parvest dynamic, Bnp Paribas Abs Euribor e Bnp Paribas Abs Eonia», investiti direttamente nei subprime Usa. Su cui grava un´illiquidità «quasi totale», motivo per cui non si possono valorizzare correttamente le quote. Dietro felpate parole il mercato ha intravisto perdite imminenti e l´abisso del contagio schiudersi. Gli ordini di vendite sul titolo sono partiti (alla fine Bnp perde il 4,6%) e si sono estesi a tutti i bancari: Dexia, Commerzbank, Barclays, Socgen, Ing e tante altre hanno segnato cali attorno al 5%. In sincrono il bollettino mensile della Bce incupiva lo scenario: «Il mercato mondiale dei prestiti a elevata leva finanziaria, compreso un ampio segmento europeo, mostra analogie con il mercato Usa dei mutui, e potrebbe dar adito a timori per la stabilità finanziaria nel caso di svolta avversa nel ciclo». In poche ore la situazione precipitava, e le banche centrali sono corse ai ripari, fedeli alla funzione per cui sono nate, di prestatori di ultima istanza per arginare l´instabilità quando si presenta sui mercati. Così verso le 15 era reso noto l´intervento per 95 miliardi di Francoforte, una mole quasi uguale a quella riversata i due giorni successivi agli attacchi alle Twin Towers. Dal canto suo la Fed ha contribuito con 12 miliardi di dollari. In meno di mezz´ora il rimbalzo generalizzato, che tuttavia non dirada le nubi nere. La sensazione è che lo scetticismo tendente al panico resterà il sentimento prevalente fino a che i problemi del mercato creditizio saranno chiari e circoscritti. Cosa non semplice, vista l´elevata sofisticazione dei prodotti finanziari che circolano sui mercati. Basta pensare che quei fondi subprime di Bnp, già falcidiati da un mese nel prezzo di quotazione, erano distribuiti come investimenti sul monetario, quel comparto supersicuro indicato anche come parcheggio della liquidità a ignari risparmiatori.
Intanto la Bundesbank tedesca è alle prese col primo salvataggio europeo di questa crisi: ieri ha formato il pool di banche (guidate da una pubblica) chiamate a coprire le perdite di Ikb. Banca europea che coi subprime Usa ha perso 3,5 miliardi.

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LA REPUBBLICA, 10/8/2007
JOSEPH E. STIGLITZ*
I PESSIMISTI che da tempo prevedevano che l´economia americana stesse andando incontro a guai seri, sembrano infine riscuotere i loro giusti meriti. Francamente, però, non c´è di che stare allegri vedendo i prezzi delle azioni crollare in conseguenza di sempre più frequenti insolvenze da parte dei mutuatari. La situazione, tuttavia, era assolutamente prevedibile, come prevedibili sono le conseguenze che si ripercuoteranno sia su milioni di americani che dovranno far fronte a gravi difficoltà finanziarie, sia sull´economia globale. Tutto risale alla recessione del 2001.Con l´avallo di Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve, il presidente George W. Bush aveva fatto approvare uno sgravio fiscale finalizzato ad avvantaggiare gli americani più ricchi, ma non a risollevare l´economia dalla recessione che aveva fatto seguito allo scoppio della bolla di Internet. Una volta commesso quell´errore, alla Fed restava ben poca scelta: se voleva rispettare il proprio mandato, consistente nel mantenere la crescita e l´occupazione, doveva necessariamente abbassare i tassi di interesse. E così ha fatto, ma con modalità che non hanno precedenti: ha infatti portato i tassi di interesse fino all´uno per cento.
La manovra ha funzionato, ma in maniera sostanzialmente diversa da come la politica monetaria funziona abitualmente. Di norma, infatti, bassi tassi di interesse stimolano le aziende a sottoscrivere più prestiti per investire di più e, sempre di norma, a un maggiore indebitamento corrispondono asset più produttivi.
Considerato però che l´eccessivo investimento degli anni Novanta costituiva parte del problema alla base della recessione, i tassi di interesse più bassi non hanno stimolato granché gli investimenti. L´economia è migliorata, ma più che altro perché le famiglie americane sono state convinte ad accollarsi sempre più debiti, rifinanziando i loro mutui e spendendo parte delle loro entrate. Finché i prezzi delle abitazioni sono aumentati in rapporto ai più bassi tassi di interesse, gli americani hanno potuto fingere di non accorgersi di essere sempre più indebitati.
Di fatto, anche questo non è servito a stimolare più di tanto l´economia. Per invogliare un maggior numero di persone a prendere in prestito più denaro, gli standard di solvibilità sono stati ridotti, e ciò ha innescato il moltiplicarsi dei cosiddetti "mutui subprime" (mutui concessi alle categorie meno abbienti e quindi con un elevato indice di rischio per gli istituti eroganti, ndt). Sono stati inoltre messi a punto nuovi prodotti, che riducendo gli importi degli anticipi hanno reso ancor più facile per i clienti sottoscrivere mutui più cospicui.
Alcuni mutui hanno avuto addirittura un ammortamento negativo: i pagamenti non hanno coperto gli interessi dovuti, così di mese in mese il debito è andato aumentando. I mutui fissi, con tassi di interesse al sei per cento, sono stati rimpiazzati da mutui a tasso variabile, il pagamento degli interessi dei quali era ancorato ai più bassi tassi di un T-bill (Bot) a breve termine. I cosiddetti "teaser rates" (tassi di interesse ridotti applicati per il primo anno e appositamente concepiti per attirare clienti, ndt) hanno consentito inoltre di ridurre ancor più i pagamenti per i primissimi tempi: ma erano appunto "teaser" (letteralmente "stuzzicanti", ndt), e pertanto hanno sfruttato il fatto che molti mutuatari non fossero granché esperti da un punto di vista finanziario e non fossero in grado di capire fino in fondo in che cosa si stavano cacciando.
Alan Greenspan li ha incitati a esagerare con i rischi, spingendo questi mutui a tasso variabile. Il 23 febbraio 2004 Greenspan osservò che «molti proprietari di casa avrebbero potuto risparmiare decine di migliaia di dollari se nell´ultimo decennio avessero sottoscritto mutui a tasso regolabile invece che mutui a tasso fisso». mai possibile che Greenspan si aspettasse davvero che i tassi d´interesse sarebbero rimasti per sempre all´uno per cento, un tasso di interesse reale assolutamente negativo? Possibile che Greenspan non abbia pensato a quello che sarebbe accaduto agli americani poveri con mutui a tasso variabile quando i tassi di interesse fossero saliti, come quasi inevitabilmente avrebbero finito col fare? Indubbiamente il comportamento di Greenspan si spiega col fatto che durante il suo mandato l´economia si è comportata molto meglio di quanto si sarebbe comportata altrimenti. Ma doveva essere soltanto questione di tempo prima che questa performance diventasse insostenibile.
Per fortuna, la maggioranza degli americani non ha seguito il consiglio di Greenspan di cambiare tipologia di mutuo orientandosi su quello a tasso variabile. Nondimeno, anche quando i tassi di interesse a breve termine hanno incominciato a salire, il giorno della resa dei conti è stato soltanto rinviato e altri mutuatari ancora sono riusciti a ottenere mutui a tasso fisso, con tassi di interesse più meno fissi e non in aumento. Stranamente, a mano a mano che i tassi di interesse a breve termine hanno iniziato a salire, i tassi a medio e lungo termine sono rimasti immutati, stranezza alla quale si è fatto accenno utilizzando il termine di "rompicapo". Una delle possibili spiegazioni per questa stranezza è che le banche centrali straniere che stavano accumulando trilioni di dollari nei loro forzieri alla fine si siano rese conto che avrebbero avuto buone probabilità di continuare a tenersi queste riserve per anni e anni a venire, e abbiano pertanto deciso di potersi permettere di investire quanto meno parte del denaro in emissioni a medio termine del Tesoro statunitense che (almeno in un primo tempo) assicuravano guadagni superiori rispetto ai Bot.
La bolla immobiliare alla fine è scoppiata e, con i prezzi in calo, alcune persone hanno scoperto che i loro mutui erano più cari del valore delle loro abitazioni. Altre si sono rese conto che con l´aumento dei tassi di interesse non riuscivano più a far fronte alle rate del mutuo. Troppi americani non avevano previsto alcuna forma di riserva di sicurezza per il loro budget, e gli istituti eroganti, impegnati a evidenziare soltanto le rate generate dai nuovi mutui, non li hanno incoraggiati a farlo.
Tanto era prevedibile lo scoppio della bolla immobiliare, quanto lo sono le sue conseguenze: la costruzione di nuovi immobili e la vendita di quelli esistenti sono in forte rallentamento mentre la disponibilità di case è in netto aumento. Da alcuni calcoli risulta che negli ultimi sei anni oltre i due terzi dell´aumento della produzione e dei posti di lavoro erano da mettersi in relazione al settore immobiliare, e ciò riflette come i nuovi proprietari di casa e le famiglie abbiano ipotecato le loro case per soddisfare la loro frenesia nei consumi.
La bolla immobiliare ha indotto gli americani a vivere al di là dei propri mezzi. Il risparmio netto è negativo da un paio di anni. Ora che questo motore di crescita si è fermato, è difficile immaginare in che modo l´economia americana potrà non subire una frenata. Ritornare al risanamento fiscale sul lungo periodo sarà sicuramente positivo, ma nel breve periodo ridurrà la domanda globale.
Secondo un vecchio adagio, gli errori perdurano nel tempo ben oltre che chi li ha commessi se ne è andato. Ciò è sicuramente vero per Greenspan, ma nel caso di Bush stiamo iniziando a subirne le conseguenze addirittura prima che egli se ne sia andato.

*L´autore, premio Nobel per
l´Economia, è docente
alla Columbia University
Copyright: Project Syndacate, 2007 www.projectsindacate.org
(Traduzione di Anna Bissanti)

LA REPUBBLICA 10/8/2007
NEW YORK - Nel giorno in cui la crisi dei mutui subprime raggiunge l´Europa, il presidente americano Bush lancia messaggi rassicuranti sullo stato dell´economia americana: il mercato immobiliare va verso un «atterraggio morbido», c´è «sufficiente liquidità» per consentire una correzione dei mercati, l´economia americana «poggia su fondamenta solide».
«Sono abbastanza saggio per ricordarvi che non sono un economista e che sarebbe meglio che le domande specifiche venissero fatte a chi si occupa stabilmente di economia. Però posso parlare dei fondamentali della nostra economia e i fondamentali della nostra economia sono solidi. La mia speranza è che il mercato, se funziona normalmente, possa essere in grado di fare un atterraggio morbido, questo, del resto, è quanto è accaduto finora», ha detto Bush durante la conferenza stampa tenuta ieri mattina alla Casa Bianca. Ha rivendicato i successi della sua presidenza in campo economico («quando sono arrivato alla Casa Bianca nel 2001 il nostro paese stava andando verso una recessione; abbiamo tagliato le tasse e gli americani hanno usato questi benefici fiscali per far crescere l´economia»), ha ricordato come l´inflazione e la disoccupazione siano basse e come i salari reali al netto delle tasse siano cresciuti mediamente di 3.400 dollari: «L´economia americana è invidiata in tutto il mondo, quindi dobbiamo continuare su questa strada».
Anche se da Wall Street stavano arrivando segnali negativi e se la Fed era stata costretta a seguire la Bce immettendo nel mercato 24 miliardi di dollari per aumentare la liquidità, Bush ha insistito sull´andamento positivo dell´economia, compresa quella internazionale: «La cosa interessante è che l´economia globale è solida, cosa che ci ha permesso di aumentare le esportazioni con un aumento del 3,4% cento nel secondo "quarter". La liquidità? Mi dicono che sui mercati c´è abbastanza liquidità per consentire una correzione. I mercati hanno periodi di rialzi e ribassi, è la loro natura. Credo che se gli diamo una chance metteranno in atto una correzione che non danneggerà l´economia». Per quanto riguarda più direttamente la crisi dei mutui Bush ha detto che «dobbiamo mostrare una enorme empatia verso chi ha perso la propria casa». Sul come ha ribadito il suo credo: «Non so cosa significhi esattamente la parola "bailout"; ma se questo vuol dire dare aiuti diretti ai proprietari di casa la risposta è una sola. No, non appoggio questa richiesta». Per finire un richiamo al patriottismo anche sull´economia: «La nostra economia è in crescita perché l´America ha la più ambiziosa, istruita e innovativa gente del mondo».
I mercati ieri non sembrano aver reagito secondo le aspettative della Casa Bianca, ma negli Stati Uniti la crisi di ieri sembrava quasi fosse una faccenda tutta europea. A sentire qualche notiziario televisivo un po´ partigiano sembrava quasi che fosse colpa dei francesi di Bnp Paribas e del congelamento dei suoi tre fondi che avevano investito nei mutui subprime.

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LA REPUBBLICA, 10/8/2007
MAURIZIO RICCI
Non siamo al grande massacro della nuova finanza, quella dei titoli derivati, tanto sofisticati da essere definiti "esotici", che hanno cavalcato il boom dei mercati di questi anni. Ma, di sicuro, siamo alla grande paura. Le grandi istituzioni finanziarie mondiali, la Banca centrale europea e la Fed, da ieri stanno pompando soldi nel sistema bancario, allargando il credito e spingendo in giù i tassi d´interesse, poche ore dopo aver annunciato la volontà di tenere stretti i cordoni della politica monetaria, alzando i tassi (la Bce) o tenendoli fermi (la Fed). A spingere Jean-Claude Trichet e Ben Bernanke a questa repentina conversione a U, che suona come una sirena d´allarme a tutto volume, è l´allungarsi della lista delle vittime della crisi innescata dall´implosione dei mutui immobiliari americani che, ora, attraverso il labirinto della nuova finanza, rischia di allargarsi a macchia d´olio. Ieri, una grande banca francese, Bnp Paribas, ha congelato tre dei suoi fondi, bloccando l´uscita dei suoi investitori, mentre una banca olandese, Nib Capital, annunciava l´azzeramento dei suoi profitti. Sono le vittime più recenti di un´asfissia finanziaria che ha già colpito, a gradi diversi di pericolosità, gli americani di Bear Stearns e di New York Bank, gli australiani di Macquarie, i tedeschi di Ikb. E´ la prova che i problemi non sono solo americani e non sono solo i mutui immobiliari. Il punto, dicono i dirigenti di Paribas, è che «la liquidità, negli ultimi giorni, è evaporata». «La liquidità si è completamente prosciugata» conferma un operatore della Commerzbank: «Gli investitori si tengono stretti i loro soldi, invece di riciclarli». In buona sostanza, nessuno compra più nulla se non buoni del Tesoro.
All´origine della situazione attuale, c´è la politica di credito facile dell´ex presidente della Fed, Alan Greenspan. Ai bassi tassi dell´era Greenspan (l´1 per cento per un anno, nel 2003), infatti, banche e finanziarie che erogano mutui avevano solo la preoccupazione di stipularne il più possibile, anche con creditori via via meno affidabili. Metà delle case sono state vendute in questi anni a compratori che sborsavano, di tasca propria, solo il 5 per cento del prezzo previsto nel contratto. Quando questi compratori, con tassi di interesse che, via via, aumentavano (fino all´attuale 5,25 per cento) hanno cominciato a saltare le rate, il problema è esploso. Ma il credito facile non riguarda solo qualche povero cristo che voleva comprarsi casa. L´ultimo Bollettino della Bce avverte che il meccanismo non è molto diverso per i grandi della finanza, impegnati negli acquisti a credito (i leveraged buyouts) delle grandi aziende. La Carlyle, ad esempio, acquistò a suo tempo le Pagine Gialle americane, per un valore di 7 miliardi di dollari, prendendone a prestito 5,5 miliardi. Un rapporto, tra denaro fresco e credito, nota la Bce, non troppo diverso da quello esistente nei mutui subprime. E´ un primo collegamento fra la crisi dei mutui e i timori di una instabilità generale del mondo finanziario.
Un secondo collegamento è negli strumenti della finanza derivata utilizzati per rendere possibili queste transazioni. In misura massiccia, negli ultimi anni, debiti come i singoli mutui immobiliari sono stati raggruppati e cartolarizzati, trasformati cioè in titoli, collocati poi sul mercato. Sono le Asset-backed securities, titoli a garanzia patrimoniale. Con essi, le banche e gli istituti che erogano mutui e prestiti hanno interesse a stipularne il più possibile, ma nessuna convenienza diretta a garantirsi che vengano ripagati, visto che li hanno trasferiti ad altri. La finanza derivata compie, però, un altro passo. Questi titoli cartolarizzati, originati dai mutui immobiliari, vengono ulteriormente raggruppati con altri titoli a garanzia patrimoniale, che nascono invece da mutui commerciali, obbligazioni vere e proprie o dai prestiti alle aziende impegnate nelle scalate. Titoli-salsiccia sono stati chiamati, anche se il nome ufficiale è Cdo, collateralized debt obligations. Come le salsicce, possono essere affettati in diverse tranches, a seconda della rischiosità dei debiti contenuti: quelli a più alto rischio hanno il tasso d´interesse più alto, quelli a più basso rischio anche il tasso più basso, ma la più alta probabilità di essere ripagati. Non è finita, tuttavia, c´è ancora un terzo passaggio: i Cdo assumono vita propria. Ci sono Cdo che contengono solo Cdo, ad esempio, oppure i Cdo vengono utilizzati come garanzie di altri prestiti. Il problema è che, dopo queste ripetute operazioni di macinazione e reimpacchettamento, nessuno sa più bene cosa contenga la salsiccia. Neanche le agenzie di rating, che, infatti, hanno dato a molti Cdo la tripla A della massima affidabilità. Così, a comprare Cdo non ci sono stati solo hedge funds e investitori d´assalto, ma anche serissimi fondi mobiliari a rendimento garantito. Con la tripla A, sembrava di comprare buoni del Tesoro, ma con tassi d´interesse più alti.
Ora questo meccanismo rischia di avvitarsi su se stesso e i soldi hanno smesso di girare sui mercati. Nessuno sa quanto valgano davvero i mille miliardi di dollari di Cdo finora emessi, perché nessuno sa quanto valgano i debiti che contengono. E nessuno li compra al buio. D´altra parte, un prezzo di mercato non esiste, perché vengono trattati privatamente. E questo è un primo rischio della situazione attuale. Perché, con il panico creato dalla crisi dei mutui, se un prezzo emergesse (ad esempio perché una finanziaria in difficoltà viene messa in liquidazione) sarebbe probabilmente assai più basso del nominale. E chi li detiene dovrebbe iscrivere a bilancio le perdite relative, con prevedibili sconquassi anche per grandi banche e istituti finanziari. Un secondo rischio è la paralisi che questo congelamento dei Cdo sta determinando sul mercato degli investimenti. Senza i Cdo, le banche che hanno già sottoscritto obbligazioni e prestiti di grandi aziende non sanno come ricollocare questi prestiti agli investitori sul mercato. Fra Europa e Usa ci sono probabilmente oltre 400 miliardi di dollari di sottoscrizioni di prestiti incagliati nei cassetti delle banche. Un terzo rischio è che questi Cdo dall´incerto destino occupano una quota significativa degli investimenti di fondi pensione e fondi mobiliari che gestiscono anche piccoli risparmiatori. Grandi banche, grandi aziende, piccolo risparmio: la crisi innescata dai mutui immobiliari attraversa orizzontalmente tutto il panorama della finanza. Una miscela esplosiva di cui, in queste ore, Trichet e Bernanke stanno tentando di evitare l´innesco.

CORRIERE DELLA SERA, 10/8/2007
ENNIO CARETTO INTERVISTA LESTER THUROW
WASHINGTON – Apprensivo per ciò che riguarda Wall Street ma sereno per ciò che riguarda l’economia americana. Dopo l’allarme della Bce, la Banca centrale europea, sui mutui subprime, Lester Thurow, il noto economista liberal del Mit, il prestigioso Massachusetts institute of technology, rimane della sua idea: teme più una flessione della Borsa che non una recessione made in Usa.
Al peggio, dichiara, avremo un periodo di ristagno economico in America, ma con conseguenze limitate sull’economia globale. La ragione: l’Europa, la Russia inclusa, e soprattutto l’Asia, Cina e India in testa, vanno forte. Se esiste un pericolo a medio termine – non a breve però – è il deprezzamento del dollaro. Se si facesse disordinato, ammonisce Thurow, sarebbero guai.
L’instabilità di Wall Street non è una minaccia economica per l’America?
«Wall Street risente dell’insolvenza di un numero crescente di mutui subprime, un quinto del totale negli Stati Uniti, insolvenza che è già costata cara alla banca d’affari Bear Stearns. La Borsa potrebbe subire una caduta. Ma non brutta come quella del 2000 quando scoppiò la bolla dell’hi tech. Il disastro di sette anni fa produsse solo una minirecessione di pochi mesi in America. Per adesso non mi sembra che una crisi a Wall Street possa o debba avere conseguenze più gravi di allora per la nostra economia».
Ma in congiunture come questa, la psicologia degli investitori è fragile. Non potrebbero cedere al panico?
«Le confesso che non sono un esperto di Borsa, se lo fossi sarei miliardario. E’ vero che la scorsa settimana è stata per Wall Street una delle peggiori dalla sua ripresa nel 2002, ed è anche vero che il credito si sta restringendo. Proprio per questo ritengo possibile una sua ritirata. Ma la situazione odierna è diversa da quella del 2000, non c’è una marea montante di titoli sopravvalutati, non c’è la stessa corsa alle speculazioni».
Non esistono tuttavia altri motivi d’allarme per l’economia? Il nuovo rincaro del petrolio per esempio?
«Non voglio apparire ottimista a ogni costo, ma abbiamo superato senza troppi danni una serie di rincari precedenti. L’economia Usa rimane abbastanza forte, e come le dicevo le altre grandi economie continuano a crescere. Forse verrà il momento che un colosso come la Cina subirà una battuta d’arresto ma non ne vedo ancora i segni. Per tutti si tratta di non commettere imprudenze, è chiaro».
A questo proposito, come giudica la Fed sotto Ben Bernanke? E’ all’altezza di quella del predecessore Alan Greenspan?
«Sinora la Fed è riuscita a mantenere il giusto equilibrio tra il sostegno dell’espansione e la lotta all’inflazione. Mi pare attenta e guardinga e non dubito che interverrà se sarà necessario. Non credo che commetterebbe grossi sbagli in caso di emergenza».
Lei ha accennato al pericolo di un eccessivo deprezzamento del dollaro. Perché?
«Perché le monete si prestano a speculazioni. Ricorderete che in tempi passati capitò alla sterlina inglese e alla lira italiana. Ci sono hedge funds americani pronti a realizzare ingenti profitti anche a danno del dollaro. Non sono d’accordo con l’amministrazione Bush che lo lascia svalutarsi sperando di esportare di più e importare di meno. Non solo non raggiunge il suo obbiettivo di ridurre l’enorme deficit della bilancia commerciale, espone anche i mercati dei cambi a dure scosse».
Il suo ultimo libro, "La fortuna aiuta gli audaci" è dedicato alla globalizzazione...
«Ho scelto quel titolo perché la globalizzazione è il futuro, e l’America e l’Europa rischiano di perderne il treno».

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LA STAMPA 10/8/2007
CARLO BASTASIN
Il virus che covava da mesi all’interno del mercato dei mutui non primari americani si è manifestato ieri anche in Europa coinvolgendo poi i mercati dei capitali di tutto il mondo. Era del tutto prevedibile, ma quando si innescano crisi di liquidità, le previsioni non possono far conto solo sulla razionalità. Se così fosse, il quadro sarebbe semplice: vi sono squilibri strutturali nell’economia mondiale e soprattutto in quella americana, ma il forte sviluppo globale permette di farvi fronte.
L’instabilità alle porte di casa indurrà forse in Italia più cautela nel discutere con leggerezza delle riserve valutarie delle banche centrali. Da un punto di vista più analitico, invece, la crisi di questi mesi mette a fuoco due punti cruciali: il migliore equilibrio economico in Europa rispetto agli Stati Uniti; e ciò nonostante l’urgenza di una trasparenza maggiore nei comportamenti finanziari europei.
La crisi nasce ieri dall’annuncio di una grande banca francese, Bnp-Paribas, della sospensione dei rimborsi di tre fondi d’investimento per un valore di 2 miliardi di euro. Nel portafoglio dei fondi ci sarebbero attività di qualità non primaria che è diventato impossibile vendere sul mercato da quando gli investitori globali, spaventati dai subprime americani, rifiutano attività rischiose. Il valore dei fondi viene definito dalla stessa banca non valutabile perché la «liquidità è evaporata». I tassi europei overnight sono schizzati a un livello massimo da sei anni (4,7%), la Banca centrale europea è così intervenuta iniettando liquidità in asta per quasi 100 miliardi di euro, un intervento più massiccio di quello del 12 settembre 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle.

Itassi sono quindi scesi al 4%, calmando i mercati ed evitando che prendessero corpo le voci di altre banche europee in difficoltà. Voci di crisi a WestLB sono state smentite dalla Bundesbank, dopo che in Germania erano state coinvolte nei giorni scorsi la Ikb con Uim e Frankfurt Trust. Altri istituti venivano guardati col sospetto riservato ai malati contagiosi.
Il comportamento della Bce è apprezzabile. Nei giorni scorsi aveva lanciato un allarme più chiaro di quelli americani sulle «tensioni nel mercato monetario, nonostante la normale offerta di liquidità aggregata». Le tensioni derivano da attività finanziarie rischiose destinate, a quanto si presume, a investitori specializzati e non, come in America, a famiglie che comprano casa. Nonostante l’allarme, la Bce ha confermato che prevede di aumentare i tassi a settembre: terrà fermi gli obiettivi di politica monetaria, ma aiuterà senza limiti il mercato in caso di shock improvvisi. Un comportamento corretto e convincente, che rassicurerà i mercati e che offre, credo per la prima volta, una leadership della Bce sui mercati rispetto alla Federal Reserve americana.
La situazione europea, d’altronde, è diversa da quella americana, non tanto perché gli investitori finali dei prodotti finanziari rischiosi non siano famiglie - qualche dubbio resta: c’è chi stima che il 40% dei fondi pensione abbiano in portafoglio attività non di qualità primaria - ma perché l’indebitamento delle famiglie non è paragonabile a quello americano (5,1% del Pil). Il vincolo finanziario alla crescita è molto forte negli Stati Uniti che, in teoria, dovrebbero smettere di crescere per diversi anni per riequilibrare l’eccesso di consumi che li ha sostenuti attraverso l’effetto ricchezza indotto da bolle speculative successive: prima l’hi-tech, poi le obbligazioni, gli immobili e la finanza rischiosa collegata. Molti affrettati giudizi, anche recenti, sul declino europeo andrebbero ricalibrati.
Tuttavia, se la situazione europea è più solida a livello strutturale e di sistema, a maggior ragione andrebbero puniti i singoli comportamenti azzardati che oggi riguardano Bnp o Ikb e a quanto pare Italease. Singoli, ma molto più diffusi di quanto si immagina. C’è un’epidemia di strumenti di copertura del rischio venduti come tali mentre in realtà aggravano la volatilità dei portafogli anche di risparmiatori sprovveduti. I pregiudizi sono controproducenti alla trasparenza: non tutte le banche sono uguali, c’è anche chi si comporta correttamente. La crisi attuale può essere l’occasione per distinguere. Ma perché sia possibile è necessaria un’attitudine alla trasparenza - e anche alla punizione - che non è comune a quelli che Nietzsche chiamava i bianchi borghesi della finanza. Nel caso della Ikb, per esempio, è stato costituito un cordone bancario di salvataggio dell’istituto in crisi che, solo formalmente, non vedeva il governo tedesco coinvolto (avrebbe violato le regole Ue). Per Bnp sarebbe una sorpresa se Parigi alzasse anche solo il sopracciglio. Mai come oggi dunque, il presidente francese della Bce ha un’ottima occasione per dimostrare il valore della propria autonomia colpendo - per esempio con «tassi punitivi» - la banca francese che ieri ha scosso la finanza globale.

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LA STAMPA 10/8/2007
FRANCESCO MANACORDA
«Marginale». La risposta tra banche, assicurazioni e fondi d’investimento italiani quando si evoca l’esposizione ai cosiddetti mutui «subprime» - quei mutui americani di cattiva qualità che non vengono più rimborsati e che tanti problemi stanno creando al mercato finanziario - è una sola, praticamente una parola d’ordine.
Lo ha detto ad esempio pochi giorni fa Alessandro Profumo, gran capo di Unicredit: «Ci tengo a sottolineare che l’esposizione del gruppo nel segmento è del tutto marginale». Ancora più netto l’ad di Intesa-Sanpaolo Corrado Passera: «Noi siamo molto sereni, è un’attività che non svolgiamo». E la musica non cambia se dalle banche si passa agli altri operatori, che pure in questi giorni stanno facendo i conti dettagliati delle loro posizioni. «L’esposizione dei nostri fondi comuni ai subprime è irrilevante», fanno sapere ieri da Pioneer, una delle maggiori società di risparmio gestito che fa capo proprio a Unicredit. Anche alle Generali si citano le parole dell’amministratore delegato Giovanni Perissinotto, che ha parlato in questi giorni di «una cifra irrilevante, sul bilancio del gruppo».
Parole tranquillizzanti, confortate anche da alcune valutazioni che circolano in ambienti della Banca d’Italia: il rischio per il sistema italiano in quanto tale è in fondo modesto, anche per il fatto che le nostre banche usano strumenti tradizionali, si avventurano meno di altri operatori nel mondo esoterico degli hedge fund e dei derivati e inoltre il mercato italiano dei mutui - assai meno elastico di quello Usa - non espone a rischi di tipo americano gli istituti di credito. In fondo anche il ritardato decollo dei fondi pensione di cui tanto ci si lamenta potrebbe in questo momento essere un vantaggio di fronte a una turbolenza - o è già una crisi? - globale del mercato finanziario.
Troppo poco e troppo presto, però, per tirare un respiro di sollievo. Lo dimostrano anche le vendite pesanti che ieri nelle Borse si sono addensate sui titoli bancari italiani ed europei. Quella dei mutui subprime si sta configurando infatti come una vera e propria epidemia, alimentata da diversi focolai e che si propaga per vie non sempre conosciute o prevedibili. E i mutui americani di «serie B», che con il rialzo dei tassi si sono trasformati in un virus pericoloso per la finanza, possono ritrovarsi in molti portafogli, senza troppi riguardi per le barriere nazionali. Un virus che agisce in modo diretto sui bilanci di chi tocca i subprime, ma che sparge i suoi effetti anche indirettamente e su scala più vasta: la crisi di liquidità alla quale la Banca centrale europea ha cercato ieri di porre rimedio evoca il rischio di «credit crunch», la situazione in cui la liquidità viene a mancare in modo strutturale e che può provocare gravi danni ai mercati finanziari per la difficoltà di trovare credito.
Per quel che riguarda i mutui subprime ovviamente, rischiano prima di tutti e più di ogni altro le finanziarie che offrono i mutui stessi. Ma proprio quelle società, per ridurre i loro rischi, hanno confezionato prodotti finanziari legati ai subprime che sono finiti non solo negli hedge fund, i fondi speculativi che dovrebbero essere riservati solo agli investitori professionali, ma anche nelle casseforti delle grandi banche d’affari, nei bilanci di istituzioni che uno immagina lontane mille miglia dalla finanza speculativa - l’Università di Harvard ha perso 350 milioni di dollari su 550 milioni investiti proprio in un hedge fund - ma anche in alcuni fondi d’investimento distribuiti al grande pubblico.
Se sono le banche a trovarsi i prodotti subprime in tasca - come ad esempio è avvenuto in Germania con la banca Ikb - il problema diventa dei loro bilanci e dei loro azionisti. Ma se il frutto avvelenato finisce nei fondi allora sono i sottoscrittori che rischiano di pagare caro il loro investimento: i tre fondi di Bnp Paribas che ieri sono stati «congelati» perchè sul mercato non c’era liquidità per fare il prezzo delle loro quote, hanno ben il 35% del loro portafogli investito proprio nei subprime americani. Presto per dire che quella percentuale è perduta, ma certo il fatto che non riescano a fare prezzo è tutt’altro che incoraggiante. Una Sicav tedesca distribuita anche in Italia, il WestLb Mellon Compass Fund-Abs Fund, pur precisando di non avere investimenti in subprime americani ha deciso il 6 agosto di sospendere «sottoscrizioni, conversioni e rimborsi». E anche il Frankfurt Trust Investment Abs Plus ha preso una decisione simile. E molti di questi strumenti ricadono nella categoria dei fondi «monetari», uno dei comparti sui quali i sottoscrittori italiani - negli ultimi mesi in fuga dell’azionario - stanno investendo di più.

IL FOGLIO 10/8/2007
La chiusura dei tre fondi di investimento di Bnp Paribas per crisi di liquidità, connessa all’impiego incauto nelle cartolarizzazioni di mutui immobiliari americani ”subprime”, ha generato una reazione a catena di rientri, che a sua volta ha determinato una carenza di liquidità in tutto il sistema finanziario europeo. La Bce, che poco prima aveva dichiarato che c’è ancora pericolo di inflazione, ha dovuto immettere cento miliardi di euro nel circuito finanziario. Ma molti hanno cominciato a tesaurizzare. E anche questa operazione è servita a poco. Le Borse si sono spaventate e le lancette dell’orologio della moneta fiduciaria e di quella derivata, M2 e M3, hanno iniziato a girare al contrario. Gli apprendisti stregoni europei dovrebbero riflettere sugli errori commessi. Quelli di Trichet e del suo direttorio, che parla di aumento di tassi, mentre il mercato sta perdendo liquidità e fiducia. Quelli della grande banca francese, che, invece che rassicurare i suoi clienti sui loro risparmi, ha chiuso di colpo i tre fondi di investimento determinando il panico. E quello delle altre banche che non hanno fatto ”sistema” con un’azione concordata, ma hanno perso tempo e poi si sono rubate i contanti a vicenda. Come quando la gente si accalca in fuga in caso di incendio, ci cono più morti e feriti a causa della ressa che delle fiamme. Per la Bce è la prima sfida come garante del sistema finanziario dell’euro. Speriamo che, dopo i passi malcerti, prenda in mano la situazione. Negli Stati Uniti, da cui è partito il contagio, non c’è questo panico.

LA REPUBBLICA 11/8/2007
ANDREA GRECO
MILANO - Altro giro altro regalo. Il venerdì nero delle Borse è soltanto l´indomani del giovedì, la crisi dei mutui subprime continua a terrorizzare gli investitori, blocca i portafogli e brucia più miliardi sui listini dei non pochi che le banche centrali del mondo immettono per aumentare la liquidità. Ieri sono stati investiti 61 miliardi di euro in forma di pronti contro termine da parte della Banca centrale europea, più altri 35 miliardi (in dollari) da parte della Fed. Simili ammontari erano stati versati alla vigilia. Tuttavia, come giovedì le perdite surclassano gli "aiuti" pubblici: ieri le Borse europee si sono mangiate 268 miliardi di euro, con perdite che gli indici non vedevano da quattro anni, comprese tra il 3,7% di Londra e l´1,45% di Francoforte. A dare la nota, stavolta, l´Asia, con Tokio giù del 2,3% (e Seul di oltre il 4%). Ore dopo negli States l´avvio era sofferto, ma la notizia degli interventi della banca centrale, e la voce che la Fed presto potrebbe abbassare i tassi di interesse, per far sì che la crisi non intacchi il ciclo congiunturale, hanno permesso agli indici di recuperare. Così a New York il Dow Jones (’0,23%) e il Nasdaq (’0,45%) hanno chiuso vicini allo zero.
L´attenzione delle autorità monetarie e delle istituzioni è crescente, rispetto a una crisi che ormai ha contagiato l´intero unico mercato globale, creando problemi alle negoziazioni che non si vedevano dal settembre 2001. Ieri s´è espresso il Fondo monetario: «L´economia mondiale è solida, il riprezzamento del rischio di credito è ancora gestibile – ha detto un portavoce – l´Fmi continua a seguire gli sviluppi, inclusi gli impatti nei singoli paesi, rispettando le responsabilità del sistema monetario».
Anche in Italia le autorità competenti hanno ritenuto di uscire allo scoperto. Dapprima la Banca d´Italia: «Seguiamo attentamente la situazione. Non ci sono motivi di allarme per la specifica condizione del mercato e degli intermediari in Italia», hanno detto fonti di Via Nazionale. Una «prudente attenzione» viene dalla Consob, in contatto continuo con Bankitalia e l´Isvap assicurativo. E anche dal Tesoro si fa sapere che Tommaso Padoa Schioppa «segue da molto vicino la situazione, a stretto contatto con Bankitalia». Vacanze contingentate, insomma, per gli arbitri del mercato e dell´economia. C´è molto da fare, del resto, per ristabilire quel clima di fiducia che è un patrimonio impalpabile eppur fondamentale perché gli investitori facciano le loro offerte. E che la fiducia stia sotto i tacchi lo si è visto ieri un po´ ovunque. Titoli in svendita, a partire – ancora – dalle grandi banche, nessuna esclusa: in due sedute gli istituti leader sono scesi quasi del 10%. Anche i titoli delle materie prime, lambiti dalla crisi, soffrono: a Londra Bhp ”6%, Rio Tinto ”4%, a Milano i cementieri stanno sui minimi. Male vanno pure gli energetici, complice un petrolio che scivola sempre più giù rispetto ai massimi di luglio (il Wti si è fermato a 71,47 dollari, in calo di 12 cents dopo un certo recupero).
La speranza, per i risparmiatori, è che le istituzioni politico-finanziarie sappiano convincere i gestori di portafogli più di quanto riescono a fare finora i pareri di operatori privati. Non ultima Standard & Poor´s, che ieri ha stimato un impatto limitato sulle banche europee, giudicando anzi «salutare» la correzione in corso. Una voce in più nel coro di chi ritiene che i fondamentali delle aziende, su cui si basano i loro profitti, sono sani. E che l´attuale è solo una circoscritta crisi finanziaria.


LA REPUBBLICA 11/8/2007
LUIGI SPAVENTA
TRE giorni fa ci si chiedeva, su questo giornale, se il contagio della crisi dei mutui fondiari americani, trasmesso attraverso la creazione e la distribuzione di obbligazioni strutturate che li rappresentavano, fosse circoscritto a un numero limitato di fondi di investimento e di istituzioni specializzate o potesse estendersi, con conseguenze potenzialmente più gravi, al sistema bancario. I due massicci interventi di rifinanziamento decisi giovedì e ieri dalla Banca Centrale Europea, e quelli, meno ingenti, del Federal Reserve americano e di altre banche centrali, indicano che la seconda possibilità si è fatta più concreta. NON è certo la caduta delle borse a spiegare quegli interventi. Le banche centrali solitamente sono, e devono essere, indifferenti all´altalena dei mercati dei titoli: altri essendo i loro obiettivi, non tocca ad esse correggere gli eccessi di rialzo o di ribasso. Ancora il 2 agosto scorso il presidente della Bce si dichiarava preoccupato soprattutto per l´inflazione, ravvisando nelle recenti vicende dei mercati una benvenuta normalizzazione dopo un lungo periodo di sottovalutazione dei rischi da parte degli investitori; si impegnava peraltro a seguire con grande attenzione gli sviluppi futuri, sottolineando comunque che "le autorità devono mantenere la loro compostezza". La caduta delle borse, in un ambiente di crescita soddisfacente e di profitti elevati, è il sintomo dello stesso fenomeno che ha impensierito le banche centrali, sino ad indurle a un comportamento apparentemente contraddittorio: paventare l´inflazione e tuttavia rendere disponibile una quantità ingente di mezzi liquidi. Quel fenomeno è l´improvviso esaurimento della liquidità, che ha trovato la sua manifestazione più evidente nell´improvviso salto all´insù, fra giovedì e venerdì, del tasso overnight, il tasso a brevissimo termine al quale gli intermediari offrono e domandano disponibilità liquide. La Bce, infatti, ha motivato gli interventi di rifinanziamento del sistema con la necessità di "assicurare condizioni ordinate nel mercato monetario in euro". Quali le cause del temuto disordine?
Ve ne possono essere di specifiche: non certo la chiusura degli sportelli di qualche malaccorto fondo d´investimento carico delle obbligazioni delinquenti; piuttosto gravi difficoltà di qualche banca impegnatasi in proprio. Non lo sappiamo, perché non sappiamo dove siano esattamente finiti i rischi dei derivati di credito, ieri assunti a prezzi di affezione e oggi privi di compratori: si ignora ancora, ad esempio, quale sia l´effettiva esposizione di una banca tedesca medio-piccola, la Ikb, finita a gambe all´aria. Ma vi sono anche cause generali, che riguardano una pluralità di intermediari. Alcuni di essi potrebbero aver dato affidamenti di credito a entità-veicolo che trattavano e distribuivano i prodotti ad alto rischio: la mobilizzazione di quel credito essiccherebbe le tesorerie delle banche. Ad altre potrebbero essere rimasti sul gozzo titoli rappresentativi di credito o crediti concessi per operazioni importanti, non più cedibili, in forma variamente cartolarizzata, in queste condizioni di mercato. Una cosa è certa: per mancanza di domanda, qualsiasi contrattazione su titoli rischiosi comporterebbe strappi di prezzo insopportabili, perché evidenzierebbero perdite elevate del venditore. In una situazione siffatta il mercato si ferma; e, se si ferma, aumenta la domanda e si riduce l´offerta di mezzi liquidi; le condizioni monetarie si inaspriscono improvvisamente, i fabbisogni di finanziamento a breve delle banche non vengono soddisfatti e la stabilità viene messa a rischio.
Anche in assenza di una causa specifica, dunque, gli interventi delle autorità monetarie sono stati opportuni e tempestivi: si osserva solo che una comunicazione più esauriente delle ragioni che li hanno motivati non avrebbe indotto alcuni operatori a chiedersi se ve ne fossero di nascoste o da nascondere. Ci si può chiedere se quegli interventi siano sufficienti a riportare ordine e un po´ di tranquillità. I rimbalzi delle borse dopo il loro annuncio non bastano a motivare una risposta affermativa. Per ora si è data assicurazione al sistema che le banche centrali sono pronte a rendere disponibile tutta la liquidità necessaria per il suo funzionamento. Tuttavia le operazioni di ispezione e di bonifica del vasto territorio in cui rischi mal prezzati sono stati distribuiti a piene mani dureranno ancora a lungo e potrebbero riservare qualche sorpresa spiacevole; auspicabilmente serviranno anche a imporre obblighi di trasparenza e di valutazione dei portafogli da cui sinora una bella fetta del sistema finanziario è rimasta esente.
Nel frattempo, come dicono sugli aerei, la possibile presenza di condizioni di turbolenza, pur non essendo motivo di panico, consiglia di tenere le cinture allacciate.

LA REPUBBLICA 11/8/2007
MAURIZIO RICCI
ROMA - «Bce e Fed fanno bene ad immettere liquidità sul mercato. Non potrebbero non farlo. Ma non credo che servirà a molto. Qui sta esplodendo la bolla del credito facile. La crisi è più grossa». Nouriel Roubini, professore alla New York University e titolare di un blog (www.rgemonitor.com) assai seguito, guarda da tempo con pessimismo all´economia americana e questo l´ha portato a prevedere per tempo la crisi edilizia, quella dei mutui e l´attuale panico finanziario. Adesso, non ha dubbi su quanto succederà: «Le crisi del credito richiedono sempre aggiustamenti dolorosi, anche nell´economia reale».
A quali altre crisi assomiglia quella di queste settimane?
"Non al crollo di Borsa del 1997 o al panico del 1998, quando saltò un grosso hedge fund, come l´Lctm. Allora, Greenspan potè tamponarle in breve tempo, perché i fondamentali dell´economia americana, che stava crescendo al ritmo del 4 per cento l´anno, erano buoni e perché la crisi era effettivamente di liquidità. Voglio dire che chi c´era in mezzo si trovava effettivamente senza soldi, ma temporaneamente, perché non riusciva, sul momento, a vendere i beni, di cui però disponeva e che, nei tempi giusti, avrebbe potuto collocare. Qui, invece, l´economia è debole e il grosso dei protagonisti è tecnicamente insolvente. I beni non li ha o non valgono più niente: sarebbero già falliti se non avessero potuto continuare a fare debiti, grazie al credito facile. Il paragone va fatto con la bolla tecnologica del 2000 o con l´esplosione della bolla immobiliare di fine anni ´80 e la successiva crisi delle Savings&Loans, le Casse di risparmio. E tutt´e due sono sfociate in una recessione».
Non è più, dunque, solo la crisi dei subprime, i mutui concessi alla clientela meno affidabile che oggi non è in grado di pagare le rate.
«No, e non da oggi. Le stesse pratiche spregiudicate adottate per i subprime (niente richiesta di un pagamento in denaro fresco al momento dell´erogazione del mutuo, niente garanzie di reddito) sono state applicate anche ai mutui definiti di prima fascia. Metà dei mutui erogati negli ultimi 2-3 anni è stato dato senza rispettare elementari regole di prudenza, che li si definisse subprime o no. Infatti, la crisi ha investito e sta investendo istituti, come American Home Mortgages e Countrywide, che trattavano solo mutui per la clientela ufficialmente più affidabile, ma che evidentemente non riescono a pagare lo stesso le rate».
Quanto può essere ampia la crisi?
«E chi lo sa? Il presidente della Fed, Bernanke, parla di perdite possibili per 100 miliardi di dollari. Ma ancora non sono venute fuori. Dove sono? Quello che sappiamo è che ci sono centinaia di migliaia di mutuatari insolventi, ci sono istituti che erogano mutui insolventi, ci sono hedge funds, che avevano investito in mutui, insolventi, come quelli di Bear Stearns, ci sono imprese insolventi. Nell´edilizia, dove non riescono più a vendere le case che hanno costruito, e fuori dell´edilizia».
Perché fuori dell´edilizia?
«Perché molte aziende commerciali e industriali, in questi anni, sono andate avanti solo grazie al credito facile. Storicamente, negli Usa, ogni anno fallisce il 3% delle aziende. Considerando il buono stato di salute dei profitti aziendali, diciamo che il tasso naturale sarebbe il 2,5%. L´anno scorso il tasso di fallimenti è stato solo dello 0,6%. Questo perché molte aziende potevano pagare gli interessi sui loro debiti, contraendo nuovi debiti a bassi tassi d´interesse, grazie al credito fornito, ad esempio, dagli hedge funds. Ora che tutti sono diventati più consapevoli del fattore rischio e i tassi sono saliti, questo credito si prosciugherà».
Prevede conseguenze anche per le grandi banche, come Goldman Sachs, Merrill Lynch e gli altri nomi della grande finanza?
«Non credo che nessuna salterà. Nessuna è insolvente. Hanno però un sacco di perdite ancora nascoste. Sono esposte direttamente nel settore dei mutui, ma anche nella finanza derivata, come i Cdo, nei prestiti al settore immobiliare, agli hedge funds. Tanti canali separati, che possono produrre perdite. E ciò non può che aggravare la stretta del credito».
Con quali conseguenze per l´economia americana?
«Secondo me, era già in atto un circolo vizioso: la crisi immobiliare, con la discesa dei prezzi delle case, e quella dei mutui colpiscono i consumi, che costituiscono i due terzi dell´intera economia. La crisi finanziaria peggiorerà le cose».
Il grosso degli economisti prevede una crescita del 2-3% per il resto del 2007.
«Non ci credo. La mia previsione è di una "recessione della crescita", cioè uno sviluppo dell´economia sotto l´1%. E mi aspetto che la frenata si prolunghi al 2008. Se poi ci sarà una vera e propria recessione, è difficile dire. Ma il rischio c´è. Altro che atterraggio morbido».
E l´Europa?
«Al contrario dell´America, i fondamentali dell´economia europea, come del resto del mondo, sono buoni. E´ in ripresa e dipende solo in parte dall´andamento dell´economia Usa. Certo tempesta finanziaria e frenata americana avranno un costo e la ripresa rallenterà».
Questa tempesta finanziaria internazionale può avere un impatto sulla situazione della finanza pubblica italiana, appesantendo la gestione del debito, vista la mole di titoli pubblici che dobbiamo ogni mese collocare sul mercato?
«E´ vero il contrario. I tassi di interesse dovrebbero scendere e la tempesta significa una corsa verso gli investimenti sicuri, come i titoli del Tesoro. Anche quelli italiani».

LA REPUBBLICA 11/8/2007
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
ALBERTO FLORES D´ARCAIS
NEW YORK - «C´é un po´ di nervosismo, peró vedrà, ci sarà anche una piacevole sorpresa». All´angolo di Broad Street il giovane broker sorride, all´apertura del New York Stock Exchange (la Borsa di New York) mancano una ventina di minuti e lui sta rientrando nel più famoso palazzo della finanza internazionale sorseggiando un caffé. Le notizie che arrivano dall´Asia e dalla Borse europee non sono rassicuranti, dopo le perdite di giovedí qualcuno prospetta un "venerdí nero", ma a Wall Street l´atmosfera é quella di sempre: gente che cammina frenetica, qualche "limo" da cui scendono al volo businessmen in giacca e cravatta, pochi turisti a scattare fotografie sotto una pioggia incessante e un vento che rende quasi inutili gli ombrelli.
La piacevole sorpresa é che a far scattare la "Opening Bell", la campanella che dà il via alle operazioni di mercato, c´é un´ elegante signora in tailleur bianco circondata da due splendide ragazze vestite di nero; sono Sharen Turner, presidente e Ceo di Victoria´s Secret (la più famosa casa di biancheria intima americana) e due supermodelle, Karolina Kurkova e Selita Ebanks, invitate alla Borsa per il 25° anniversario dell´ingresso di Victoria´s Secret nel listino di Wall Street. L´interesse dei brokers per le modelle dura meno di un minuto, quando le contrattazioni prendono il via gli occhi di tutti sono concentrati sui numeri. La Borsa di New York, come prevedibile, inizia in perdita, un po´ di nervosismo si sente, ma non c´é alcuna sensazione di panico. Qualcuno scherza sulle frasi rassicuranti pronunciate da Bush il giorno prima, «é vero l´economia americana va bene, proprio come va bene la guerra in Iraq...», un paio si mettono a discutere se Bernanke sia meglio o peggio di Greenspan, nessuno sembra veramente preoccupato.
I titoli oscillano, l´indice Dow Jones perde inizialmente duecento punti poi recupera e ad un certo punto, a metà giornata - grazie all´intervento della Fed che inietta il mercato con 38 miliardi di dollari - volge anche al positivo, prima di ripiegare nel rosso. Preoccupa di più l´intervento della Sec, la società di controllo sulla Borsa, che - come anticipato ieri mattina dal Wall Street Journal - ha deciso di indagare sulle presunte perdite (non comunicate) di alcune grandi banche d´affari per quanto riguarda le attività collegatre al settore dei mutui subprime. Secondo il Wsj, la Sec ha aperto un´inchiesta sui libri contabili di due colossi finanziari come Goldman Sachs e Merrill Lynch per accertare la reale esposizione ai mutui subprime e l´eventuale rischio di default. John Nester, portavoce della Sec, non ha smentito la notizia, ed ha ammesso che «é sempre fonte di preoccupazione» stabilire il valore degli asset investiti nei subprime e dei derivati.
Preoccupa, e molto, la situazione di Countrywide, la società leader nella concessione dei mutui, che ha annunciato di essere in difficoltà nel reperire nuovo credito e il cui titolo é crollato ieri mattina del 12,2 per cento (anche se poi ha recuperato). In una nota inviata alla Sec la Countrywide precisa di aver registrato «perdite senza precedenti» aggiungendo che «il mercato secondario e la situazione relativa alla liquidità sta evolvendo rapidamente ed il potenziale impatto sulla società è al momento sconosciuto».
Diversi analisti di Borsa puntano adesso il dito contro il presidente della Federal Reserve, Bernanke e contro il ministro del Tesoro Usa, Henry Paulson. Il primo perché aveva ripetutamente dichiarato che la crisi dei subprime sarebbe stata «contenuta», il secondo per aver detto che non avrebbe creato problemi all´economia americana. «Il presidente della Fed si sbagliava. E si sbagliavano anche il Segretario al Tesoro e l´amministratore delegato di Merrill Lynch, Stanley O´Neal, scrive un´analista di Bloomberg, «i problemi del settore dei mutui subprime erano contenuti, dissero tutti e tre. La crisi invece risultata contagiosa».
Il presidente Bush é stato ieri «tenuto regolarmente informato» sull´evolversi della situazione in Borsa e sugli impatti della crisi dei mutui subprime sull´economia americana e su quella globale. «Vi posso assicurare che il presidente é costantemente informato, in particolare su un soggetto come questo», ha detto Dana Paerino ai giornalisti che hanno seguito il presidente americano a Kennebunkport (in Maine) dove Bush trascorrerà questo week end. La Casa Bianca segue con attenzione ma non é preoccupata, ha aggiunto la portavoce, ricordando quanto sostenuto giovedí dallo stesso presidente Usa: «I fondamentali dell´economia americana sono forti. Esiste la Federal Reserve che é una istituzione indipendente che noi rispettiamo molto e la Casa Bianca non intende esprimere alcun giudizio sull´attività della Federal Reserve. Quello che vi posso assicurare é che numerosi consiglieri del presidente Bush seguono attentamente ogni attività di mercato e vigilano affinché siano messe in opera tutte le politiche necessarie affinché la nostra economia sia forte e prospera».

LA REPUBBLICA 11/8/2007
HUGO DIXON
HUGO DIXON
La Bce, come le altre banche centrali mondiali, vuole comprimere l´inflazione, ma è un compito arduo perché la disoccupazione è bassa, la crescita prosegue, le importazioni asiatiche rincarano e la massa monetaria continua a lievitare. Allora come mai la Bce ha iniettato liquidità nel sistema? Il fatto è che nelle scorse settimane alcuni operatori intimoriti hanno ritirato liquidità. In un certo senso le banche centrali si sono compiaciute della crisi dei mercati del credito, ritenendo che i finanziamenti fossero diventati troppo facili e a basso costo, ma i mercati finanziari sono un´altra cosa. Se alle aziende manca la sicurezza di poter prelevare il loro denaro dalla banca o dai fondi, l´intera economia potrebbe "grippare", quindi le banche centrali devono far capire che il sistema monetario non si bloccherà, accada quel che accada. Il sostegno delle banche centrali ai mercati finanziari ha rafforzato la fiducia degli investitori nelle autorità e ora i mercati scontano due tagli dei tassi overnight Usa nel 2007, mentre sembra più probabile che la Bce rimanderà altri aumenti. Il dilemma delle banche centrali è che le strette monetarie abbinate ai timori degli investitori facciano deragliare l´economia reale, ma le iniezioni di liquidità e i tagli dei tassi alimentano l´inflazione. E se gli investitori si sentiranno più disposti a rischiare, le banche centrali avranno a che fare con una nuova bolla speculativa prima ancora di aver sgonfiato quella precedente.
Edward Hadas
(Traduzione a cura di MTC)

LA REPUBBLICA




• LA REPUBBLICA 11/8/2007
HUGO DIXON
Il mercato valutario è stato appena sfiorato dal terremoto che sta facendo tremare quelli azionari e del credito, ma ci sono le condizioni perché venga presto il suo momento. Negli ultimi anni gli operatori valutari hanno avuto vita facile: bastava indebitarsi in divise a basso tasso d´interesse (particolarmente in yen e franchi svizzeri) e prestare i proventi in quelle di paesi con tassi d´interesse alti (Nuova Zelanda, Australia e Regno Unito). Ora la cuccagna potrebbe essere prossima alla fine se davvero fosse in corso la temuta contrazione della liquidità internazionale, o persino se i borsini la ritenessero possibile. Pochi operatori, infatti, saranno disposti a correre il rischio di un apprezzamento dello yen che cancellerebbe i guadagni consentiti dal divario tra i tassi d´interesse. Cosa accadrà adesso? Non sempre il confine tra realtà e speculazione è ben definito: ad esempio, il dollaro australiano è sostenuto dal miglioramento del 70% delle ragioni di scambio, ossia dei prezzi delle importazioni rispetto a quelle delle esportazioni, ma anche e principalmente dal rincaro delle materie prime. E´ una situazione confusa, ma si può avanzare qualche previsione, in primo luogo il deprezzamento della sterlina, ora sui massimi venticinquennali rispetto al dollaro, ma che potrebbe essere penalizzata dall´improbabilità dell´aumento del tasso d´interesse e dal pesante deficit commerciale. Sotto pressione potrebbero finire anche il peso messicano e la lira turca. Lo yen invece dovrebbe rafforzarsi perché la banca centrale non inietta più liquidità nel sistema e ha aumentato i tassi. Anche il franco svizzero, reso interessante dalla modesta inflazione e dal basso tasso d´interesse, potrebbe apprezzarsi sull´euro. Infine, il dollaro potrebbe riprendersi, almeno per un po´, nonostante l´immane deficit commerciale, perché in passato è stato molto penalizzato.
Ian Campbell e Edward Hadas
[Il megaintervento Bce]
Il massiccio intervento operato giovedì della Bce sui mercati monetari è stata un po´ una sorpresa, giacché nelle 48 ore precedenti Fed, Banca d´Inghilterra e Bce avevano rilasciato dichiarazioni di tutt´altro tenore. A determinare il ripensamento è stata la forte accelerazione dei tassi a breve, unitamente alla minore liquidità destinata ai commercial paper garantiti da attivi. Elementi che però di allarmante non avevano gran che, considerando che le voci di problemi di liquidità presso West LB sono rientrate, mentre la sospensione dei tre fondi di Paribas riguarda problemi di valutazione e rappresenta comunque poca cosa nel quadro generale della situazione. Di conseguenza, la mossa della Bce ha prodotto più interrogativi che risposte. E chiaro che l´obiettivo a breve è stato raggiunto, con i rendimenti overnight scesi al 4%, obiettivo della banca europea. Così come è chiaro che senza questo sostegno i fondi dei mercati monetari sarebbero stati costretti ad approvvigionarsi a livelli di segno pericolosamente negativo. Quello che preoccupa è l´entità dell´intervento. La decisione di offrire un sostegno illimitato traccia due possibili scenari, per certi versi inquietanti. Il primo è che la Bce fosse a conoscenza di elementi ignoti al resto del mercato, ad esempio un primario istituto in grandi difficoltà. Il secondo è che la Bce abbia risposto a una forte pressione politica per togliere le castagne dal fuoco per le banche europee. Aiuti di questo tipo sono sicuramente positivi sul breve, ma rischiano di creare grandi problemi nei periodi a venire.
Simon Nixon
(Traduzioni a cura di MTC)

LA STAMPA 11/8/2007
MAURIZIO MOLINARI
Gli americani hanno paura, molti perderanno la casa, crollerà la fiducia nelle banche, Bernanke rischia grosso e Bush non ha credibilità da spendere per sostenere l’economia»: severa l’analisi di Paul Samuelson, premio Nobel per l’Economia, sulla tempesta dei mutui che investe i mercati finanziari. E sulle conseguenze sceglie di essere assai cauto: «Non sappiamo se si ripeterà il crac del 1929».
Da dove viene l’attuale crisi finanziaria?
«Dall’eccesso di vendite immobiliari in America. Acquirenti e compratori si sono comportati troppo a lungo con assai poco raziocinio. Gli acquirenti comprando immobili che non potevano permettersi, scommendo sul fatto che proprio grazie alla crisi sarebbero presto diventate un buon affare. E i venditori facendo debiti in continuazione per costruire e vendere ai suddetti acquirenti».
Rischiamo un crac?
«C’è chi vede in quanto sta avvenendo la genesi di una bolla immobiliare capace di provocare un crollo dei mercati come avvenne nel 1929. Le bolle non sono nuove, ciò che è nuovo sono gli strumenti, a cominciare dai prodotti finanziari derivati. Queste novità teoricamente possono consentire alla società di condividere i rischi ed essere più efficienti ma in realtà creano la tentazione di prendere rischi sempre maggiori, più di quanto in effetti ci si accorga».
Quale il possibile impatto delle perdite di questi giorni?
«Non lo sappiamo. Molte perdite tuttavia sono reali».
 d’accordo con gli interventi fatti dalla Federal Reserve?
«Colpisce che tanto la Federal Reserve che la Banca Centrale Europea siano intervenute per sostenere il credito sui mercati confermando che il principale timore resta l’inflazione. il loro dogma, una verità a tal punto vera che nessuno può tentare di metterla in dubbio».
Lei ci crede?
«Non credo che loro credano in quel che dicono. Hanno come principale punto di riferimento l’inflazione e se scendesse da 2,1 a 1,9 per cento ballerebbero felici nelle strade. Ma è ridicolo: fra 2,1 e 1,9 non c’è praticamente differenza. Ciò che non sappiamo è se la crisi dell’immobiliare diventerà un macro-movimento, assumendo dimensioni internazionali. per questo che in giro c’è molta gente impaurita».
Quali le opzioni a disponizione del presidente della Federal Reserve Ben Bernanke?
«Se la situazione peggiora non potrà continuare a dire che la sua preoccupazione è l’inflazione. Dovrà sostenere i mercati come fece Alan Greenspan dopo il crollo dell’ottobre 1987. Bernanke non ha una palla di cristallo e non sa cosa avverrà, ma le decisioni che prenderà sveleranno se è davvero all’altezza dell’illustre predecessore».
Come giudica l’approccio della Casa Bianca alla crisi, che vede il presidente Bush sottolineare la solidità dei fondamentali dell’economia?
« quello che il presidente deve dire, ma non so se Bush comprende ciò che afferma. Probabilmente non fa che ripetere frase per frase quanto gli suggerisce il ministro del Tesoro, Henry Paulson. A causa dell’alto grado di impopolarità che lo affligge Bush non è in grado di rassicurare, o scoraggiare, proprio nessuno. Assomiglia piuttosto a un clown che ricordo nei fumetti di una volta. A Washington non c’è un efficace team economico, la situazione non è neanche lontanamente paragonabile a quando al Tesoro c’era Robert Rubins, durante Clinton».
Il colosso dei mutui Countrywide trema, milioni di americani temono per la casa. Cosa implica l’attuale crisi finanziaria per un modello di vita fondato sui prestiti di danaro concessi con grande facilità?
«Quanto avviene nell’arco di un mese non cambia certo il modo di vivere di un popolo ma molta gente perderà la casa e qualche abile negoziatore sarà in grado di acquistarla, guadagnandoci in futuro. Il maggiore impatto sarà l’incrinarsi del rapporto di fiducia fra cittadini e banche che, soprattutto nei piccoli centri, conoscono tanto le famiglie che le imprese, incoraggiandole a indebitarsi. Sono state queste banche che hanno spinto ad acquistare i mutui delle società che ora vacillano. Hanno affidato ai clienti prodotti a rischio dei quali ignoravano quale fosse l’origine. Anzichè minimizzare i rischi per i clienti, li hanno aumentati».

IL FOGLIO, 11/8/2007
UGO BERTONE
di Ugo Bertone

Warren J. Spector aveva senz’altro tutti i numeri in regola per aspirare alla corona di numero uno di Bear Stearns, una delle grandi banche d’affari di Wall Street: ex enfant prodige del bridge; studente modello; impiegato di talento, capace di scalare, passo dopo passo, ogni gradino lungo la scala che portava ai piani alti del quartier generale di Madison Avenue del successo; protagonista di successo della New York più mondana, quella che si raduna attorno alla vita culturale tra Greenwich Village e Soho, dove ha trovato Margaret, sua moglie che alle spalle ha una particina in ”9 settimane e 1/2, al fianco di Mickey Rourke e Kim Basinger”. E’ stato lui, mister Spector, a portare valanghe di utili alla banca, grazie a cdo (collateralized debt options), swaps e altre operazioni sofisticate che poggiavano sui mutui per la casa, compresi i subprime, cioè i prestiti più rischiosi, concessi alla clientela più debole. Ma alla vigilia della mèta tutto è crollato: il castello di carte su cui poggiavano i fondi messi a punto da Spector e dal suo collaboratore più stretto, Ralph Cioffi; la carriera di Spector, finita nella cornice di un tavolo da gioco, a metà luglio, in un grande albergo di Nashville. La vita, certe volte è davvero un film: una folla di appassionati di bridge che segue dalle telecamere la partita ai campionati nazionali di Spector, cui lui non ha rinunciato (o non ha potuto rinunciare) nonostante la marea del debito che saliva fino ai recinti di Wall Street. Lui, attento, concentrato sulle dichiarazioni di gioco mentre sul suo capo si addensa la bufera: una spada di Damocle di 3,2 miliardi di dollari. A tanto ammontavano i quattrini che i creditori, all’improvviso, chiedevano di incassare seduta stante. Gente tosta che non è abituata ad aspettare. Come Steven Black, uno dei boss di Jp Morgan che a Spector, come riporta The Wall Street Journal telefona così: ”Tocca a te garantire i riscatti dei tuoi fondi. Mettici i quattrini che servono...”. La replica? ”Conrad non fare l’ingenuo. Sai benissimo che non siamo tenuti a farlo. E non lo faremo, perché la crisi passerà”. Ma non è passata. E Bear Stearns ha dovuto alzare bandiera bianca, sospendendo i pagamenti su due dei suoi fondi. I primi di una serie che minaccia di essere lunga, anche perché la crisi ha contagiato l’Europa, al punto da costringere sia la Fed che la Bce a pompare centinaia di miliardi di euro e dollari a sostegno del mercato.
Tutto questo, insomma, ha preso avvio sotto i cieli di Nashville, cuore dell’America cara a Robert Altman che tanto avrebbe amato una storia come quella di Spector che gioca la sua partita più amara ostentando, estremo bluff, una sicurezza che nemmeno lui poteva avere. Anche perché, dall’altro lato del tavolo sorrideva, affettuoso come un pescecane, il presidente James Cayne, 73 anni, altro appassionato di bridge con una voglia matta di scaricare ogni responsabilità per la crisi più grave della storia della banca sul grande Spector, vincitore al tavolo di Nashville ma cacciato su due piedi il cinque di agosto, dal boss che si è limitato, secondo le cronache, a dire: ”Credo di non poter lavorare più con te”. Un dramma piccolo piccoclo, se si pensa che Spector può meditare sulle sue disgrazie standosene sulla spiaggia di Martha’s Vineyard, rifugio della New York più chic. Non è certo fatta di drammi da quartieri alti la crisi dei ”subprime”, i mutui per poveracci che, grazie all’alta finanza, si sono tradotti in una montagna di utili per la speculazione di Wall Street. Prendiamo il caso dei coniugi Elizabeth e Armando Motto, condannati a notti insonni in quel di Clarksburg, periferia con qualche pretesa nei sobborghi di Washington Dc. Nel novembre del 2005 i coniugi Motto, coppia piccolo borghese con quattro figli, si decisero al gran passo: cambiar casa. La scelta cadde su una villetta con tre camere da letto appena costruita dall’immobiliare Beazer Home. Il prezzo? Solo 540.000 dollari. Ma niente paura, disse subito il venditore, si può fare un mutuo. Anzi, niente Banca, al mutuo ci pensiamo noi. E per facilitare le cose, poche formalità: scriviamo che, per le rate del prestito, non ci sono problemi perché avete una rendita che copre gli interessi. ”Per carità – scrive la nostra Elizabeth quando si accorge delle tante bugie messe giù dal venditore – io sono una persona onesta”. Già, ma come si fa a dir di no alla casa dei sogni? Intanto, vendiamo la vecchia casa... Ahimè, non è andata così. I signori Motto si trovano sul gobbo l’appartamento di Rockville, Maryland, che non sono riusciti a vendere. Più le rate, nel frattempo schizzate all’insù, del nuovo appartamento: in tutto un milione di dollari, più o meno. A fronte dei quali ci sono 145 mila dollari risparmiati a fatica in una decina d’anni. Inutile prendersela con quelli della Beazer Home: quelli hanno problemi più immediati cui far fronte. Il titolo perde colpi, la società costretta a rifugiarsi nel Chapter 11 per cercare protezione dai creditori. E gli ispettori della Sec sguinzagliati per vederci chiaro sui criteri per vendere mutui facili, a loro volta impacchettati in prodotti finanziari sempre più astrusi e complicati, finiti, come in una gigantesca catena di Sant’Antonio, nel portafoglio di una banca tedesca o di un fondo di investimento francese. ”La vera novità di questa crisi immobiliare rispetto al passato – dice al telefono Robert Shilling, commentatore di Forbes che da almeno un anno prevedeva lo scoppio della bolla – sta proprio nella sua dimensione globale, anche dal punto di vista geografico. All’inizio degli anni Novanta, quando scoppiò la crisi delle Casse di Risparmio piegate dal crack delle immobiliari, i debitori con un mutuo da rinegoziare e direttori di banca si conoscevano di persona, frequentavano la stessa o lo stesso bar. E, prima o poi, ci si metteva d’accordo. Oggi, quei debiti sono volati chissà dove”. E non è facile nemmeno rintracciarli. O trova sulla sua strada un promotore che deve trovare clienti, a qualsiasi prezzo. Tanto, quei contratti li rivenderà subito. ”Un mio cliente – dice David Kotok – mi fa sapere di aver siglato un mutuo ad aprile, prima rata da pagare a giugno. Ebbene, in quei due mesi il suo contratto è passato di mano quattro volte e ha coinvolto due assicurazioni. E si è trovato a ricevere tre volte, per tre importi diversi, le tasse comunali”. Occhio a Kotok, presidente di Cumberland Advisors. La sua è un’opinione che conta, non solo perché è tra gli esperti più consultati da Barron’s e da Cnbc, ma perché gode da anni della fiducia di più di uno dei dodici governatori che compongono il board della Federal Reserve. E la sua preoccupazione per il caos che regna sul mercato è la stessa della banca centrale. No, non sarà facile muoversi nella giungla dei mutui, dove contratti truffaldini di ogni genere si sono moltiplicati. E dove non mancano i truffatori, anche per via elettronica.
Un esempio? Provate a cliccare il sito www.verifyemployment.net. Per soli 55 dollari, la società è pronta a garantire, con documentazione scritta, l’esistenza di un posto di lavoro con lo stipendio desiderato. Un’identità da opporre, naturalmente, al funzionario della banca o della finanziaria che elargirà il mutuo. Per altri venticinque dollari, la società che sta in California è pronta a fornire un addetto che risponderà al telefono per fugare qualsiasi sospetto dell’impiegato scrupoloso. Ma il più delle volte se ne può fare a meno. Il mutuo del nostro truffatore in erba, infatti, è destinato a essere impacchettato in un cdo (collateralized debt obligation), cioè un sofisticato prodotto finanziario ad alto rendimento su cui gente come Spector, per anni, ha fatto grossi utili sistemandoli presso i fondi ai quattro angoli del pianeta. Nei posti più impensati e più imprevedibili. Niente esclude, infatti, che un po’ di questi mutui tarocchi dalla California abbiano preso la strada per Parigi, via il mercato di Chicago specializzato nei collateralized, per finire in uno dei tre fondi specializzati di cui Bnp Paribas ha sospeso l’attività, dopo una difesa imbarazzata che è costata una brutta gaffe al ”Sole 24 Ore” che giovedì 9 agosto titolava, la mattina stessa del black out, ”Bnp Paribas non teme il rischio subprime”. Ma guai a infierire: la crisi dei mutui Usa è destinata a riservare sorprese un po’ a tutti.
O almeno a quelli che non hanno dato retta alle vecchie volpi: a Warren Buffett, che si prepara a scendere in campo con 46 miliardi di dollari per comprare quando i prezzi saranno scesi a sufficienza, come ha già fatto nelle crisi precedenti; o a Wilbur Ross, detto l’oracolo del New Jersey, perché in cinquantanni di attività (ha cominciato come garagista) non ha mai sbagliato una previsione. ”Mi sa tanto che nel giro di due-tre mesi vedremo un boom” dichiarava il 20 aprile scorso al Financial Times. No, non è la fine del mondo, né il collasso del sistema questa crisi che rischia di interrompere il più lungo ciclo di espansione dell’economia americana del dopoguerra. Lo conferma l’aristocratico, colto e arguto presidente di Axa, monsieur Hervé de Castries. ”Vedo in giro tanta preoccupazione – dice – Anch’io non esito a paragonare quel che sta accadendo alla gelata del ”97-98 o ad altre crisi, più o meno drammatiche. Ma ho la sensazione che ci sia anche gente che sta facendo un sacco di quattrini”. Già, c’è chi, pure in mezzo a quest’improvvisa gelata, ha fiducia di fare un ottimo affare. Sono i signori Roy e Jenny Howard, due arzilli vecchietti che hanno deciso di vendere la fattoria e il terreno acquistato nel 1985 nel cuore dello Stato di New York. Il prezzo? Otto milioni di dollari. Non vi sembri troppo, perché quel terreno è sito nel comune di Woodstock, dove il 15 agosto del 1969 arrivarono i 450 mila giovani accolti dal proprietario di allora, il contadino Max Yasgur che accettò di prestare il suo ranch al festival, dopo il no del comune. E passò alla storia: ”Vado nella fattoria di Yasgur, vado a raggiungere la mia band – cantava Joni Mitchell – Vado ad accamparmi lì. E a cercare di liberare la mia anima”. C’è meno poesia ma più sostanza nel boom immobiliare che, in questi giorni di vacche magre, investe Sioux Falls, nel South Dakota, ex borgo selvaggio un tempo popolato di cowboys. Oggi un paradiso fiscale che, in attesa di Valentino Rossi, si accontenta di ospitare centri di servizi, cliniche e ospedali. Per questo prezzi salgono e le case vanno a ruba, anche quelle da un milione di dollari in sù. ”I dottori – spiega raggiante l’immobiliarista Barton Kacker – hanno tanti soldi da spendere”.
Certo, più di uno pagherà a caro prezzo l’euforia di questi anni, anche perché la Federal Reserve non sembra intenzionata a proteggere chi ha troppo osato. Ma stavolta bisogna fare i conti anche con le traiettorie imprevedibili di una strana carambola, in cui il credito facile a una famiglia indigente del Minnesota rischia di provocare una crisi di credibilità della Bundesbank. Roba degna dell’Italietta dei furbetti. Pensate a cosa potrebbe succedere dalle nostre parti se Alessandro Profumo o Corrado Passera, un certo venerdì, telefonassero in Consob per dire: ”Caro Cardia, so per certo che c’è una banca nei guai. No, non posso rivelarti la fonte”. Tutto questo è successo una decina di giorni fa: è stato Joseph Ackermann, amministratore di Deutsche Bank, a informare l’organo di controllo, la Bafin, della crisi di Ikb, banca dove un medio dirigente era riuscito a puntare otto miliardi di euro sui mutui americani. Che strano mondo, dove i banchieri di Wall Street, prima fra tutti Bear Stearns, vanno a bussare alla porta dell’unica vera potenza comunista del pianeta: la Cina rossa, primo forziere di dollari dell’economia globale. Lo ha fatto l’Amministrazione Bush offrendo, per bocca di Alphonso Jackson, ministro delle Aree urbane, l’acquisto di mutui subprime (quelli concessi alle famiglie più povere ) a prezzo scontato. E Pechino, per bocca del governatore della People Bank of China, Zhou Xiaochuan, ha detto di no. Meglio, semmai, investire tre miliardi di dollari in Blackstone, il private equity che si accinge a comprare la catena Hilton per 26 miliardi di dollari. Meglio fare affari con i genitori di Paris Hilton, insomma, piuttosto che cospirare per la caduta del sistema, il cliente numero uno delle imprese di Pechino e Shangai. Non è ancora chiaro dove si fermerà il contagio. Non è difficile capire perché le aziende più legate all’edilizia decidano, una dopo l’altra di rivedere al ribasso i programmi. Ma l’epidemia si è trasmessa, rapidissima, a tutto il sistema e minaccia di durare un bel po’ con il risultato di incidere, si vedrà fino a che punto, sulla fiducia dei consumatori. O, più ancora, sulla fiducia di chi presta denaro. Cambierà , almeno in parte, la mappa della ricchezza: Ma i ricchi hanno a disposizione l’ombrello del chapter 11, dietro cui rifugiarsi in caso di default. Oppure, ed è il caso di Bear Stearns, possono far emigrare i fondi alle isole Cayman, evitando di pagare il conto. Tutt’altro discorso per i poveri o per la classe media. Se si riveleranno vere le stime di Moody’s Economy.com almeno due milioni e mezzo di proprietari di casa, tra quest’anno e il 2008 ( anno elettorale) non saranno in condizione di far fronte ai mutui, spesso a rate crescenti; uno su tre, più o meno ottocentomila persone, saranno in grado di rinegoziare le condizioni con banche e finanziarie. Ma per gli altri, almeno 1,7 milioni, la prospettiva è di alzare bandiera bianca. ”Nel corso degli ultimi dieci anni – spiega William Wheaton professore di Economia e di real estate al Mit – almeno cinque milioni di famiglie che vivevano in affitto sono diventati proprietari. Ma per molti di loro i prestiti si sono rivelati insostenibili”. Almeno due terzi di quei neo-proprietari sono a rischio di tornare in affitto, aggiunge Wheaton.
Non è profezia da prendere alla leggera. Nei primi sei mesi dell’anno i protesti legati a mutui hanno interessato 573.397 proprietà, scrive Usa Today, voce dell’America più popolare. E la California, lo stato più colpito, con più di centomila default. Una grossa grana per Arnold Schwarzenegger: nei primi sei mesi la gelata delle vendite immobiliari ha ridotto del sette per cento le sue entrate fiscali, un record negativo condiviso con la Florida di Jeb Bush. Numeri del genere, nel vecchio continente, potrebbero far tremare i governi o anche di più. Ma l’America è davvero un altro mondo. ”Che accadrà? Semplice – conclude Wheaton – aumenteranno gli affitti. Così, tempo un paio d’anni, tornerà più conveniente comprare casa. Mi aspetto la ripresa nel 2009, massimo nel 2010”. Anche questa è l’America, terra dove le ricchezze talvolta svaniscono, talaltra fioriscono. Dove a Thousand Oaks, piccolo paradiso della California sede di cinque delle 500 società più importanti d’America e di un trofeo miliardario di golf che ospita Tiger Woods, fa notizia la disdetta, la pioggia di disdette, di auto di lusso dopo lo scoppio della crisi. Ma non fate confusione e non fatevi illusioni: per ora, in crisi è finito il mattone di carta, i debiti accumulati dalla speculazione; ma il mattone vero, quello non è affatto in svendita. Anzi, in mezza Europa, Londra in testa, si profila l’ennesima stagione di aumenti. Tra cinque anni, nella Great London, un appartamento qualsiasi costerà in media 478 mila sterline, il 48 per cento in più di oggi. Ovvero undici anni di stipendio. Meglio, come consiglia Nigel Bolton, gestore dei fondi immobiliari delle Vedove Scozzesi, uno dei più bravi a giudicare dai risultati, ”se avete quattrini comprate una casa a Berlino: il successo è assicurato, come è successo a Dublino dove, in dieci anni, i prezzi sono cresciuti di quattro volte”. Consiglio per consiglio, in settimana il miliardario Isaac Tshuva, proprietario della Delek Real Estate (Israele) ha deciso: basta America, basta Israele, nei prossimi tre anni si farà shopping solo in Europa. Londra, ma anche Zurigo o l’Europa del nord. Alla larga dalla Spagna, dicono i bene informati. Qui la corsa del mattone ha davvero superato ogni attesa. E cresce il numero degli appartamenti sfitti, almeno 300 mila a Barcellona e altrettanti a Madrid oltre che dei mutui. Ma, a onor del vero, le società immobiliari spagnole sono quelle che hanno perduto di meno in Borsa tra i grandi paesi dell’occidente. Per chi vuol guardare più in là, l’elenco è quasi infinito. Solo a sfogliare i giornali dell’ultima settimana, si scopre su Bloomberg una torre da 260 metri in cantiere a Istanbul, dove sono in costruzione dodici mega centri commerciali. A Mosca, intanto, prende corpo, ci informa ”Moscow Times” una nuova città dai numeri incredibili: sette grattacieli più alti di qualsiasi altra costruzione in Europa. Più la Russia Tower, data della consegna il 2012: un gigante alto 612 metri, quasi 200 in più dei 443 metri dell’Empire State Building. E tutt’intorno, investimenti per dieci miliardi di euro in alberghi, cinema, centri commerciali, uffici. Tutto sotto la regia di tycoon vecchi e nuovi: gente alla Oleg Deripaska, il re dell’alluminio che ha annunciato di possedere il cinque per cento di GM, ma che non ha il permesso di entrare negli Stati Uniti. E’ tempo di crisi, insomma, ma non per tutti. Anche perché pure il crash più fragoroso ha i suoi vincitori. Tra questi, un posto d’onore spetta a Sam Zell, classe 1941, figlio di Bernard Zielonka, un ebreo polacco che lascia Varsavia nell’agosto del 1939, giusto poche settimane prima l’arrivo delle truppe tedesche. Sam nacque due anni dopo, nella piccola Polonia ebraica radunata sulle rive del lago Michigan a Chicago. Zell è un grande immobiliarista, con un patrimonio alle spalle di una cinquantina di miliardi di dollari che fanno di lui il ricco n.52 nella classifica di Forbes. Grande anche per le dimensioni americane. Nessuno negli States possiede più appartamenti di Equity Residential, la sua società immobiliare. E, per giunta, a lui fa capo la Manufactured Home Communities, cioè una grande società di case montate sulle ruote, da trasportare su e giù dove chiama la scommessa della prateria. Fino a pochi mesi fa Zell, che dichiara di accumulare ogni anno più di mille ore di volo sul suo jet per scovare immobili da comprare negli Stati Uniti, era anche il numero uno degli uffici. Ma, con un colpo da maestro, a marzo, ha ceduto il controllo di Equity Office Properties Trust. Il prezzo? Solo 39 miliardi di dollari pagati dalla solita Blackstone che a sua volta ha fatto cassa rivendendo, a prezzi crescenti, parte del ”bottino”. Ma Zell non si lamenta di sicuro.
Parte di quei soldi li ha già destinati all’acquisto di Tribune Corporation, la catena di giornali, radio e tv che pubblica il Los Angeles Times e il Chicago Tribune. Forse l’affare si farà. Ma non è detto. Perché Zell, nel caso si trovi un’offerta più alta della sua per il Los Angeles Times (che fa gola a David Geffen, socio di Steven Spielberg, tifoso di Barack Obama) è pronto a tirarsi indietro. In tal caso, gli spetterà una commissione di 25 milioni di dollari.
Magari li girerà in beneficenza, ma non ci rinuncerà. E sull’editoria ha le idee ben chiare. ”Ho chiamato un reporter del Los Angeles Times che aveva vinto il Pulitzer per congratularmi con lui. E lui mi ha detto grazie, ma lo sa signor Zell quanto si spende per realizzare un articolo del genere?”. La risposta è da manuale: ”Lo so, ma finché genera incassi, quindi profitti, va tutto bene. Sia ben chiaro: i giornali devono guadagnarsi l’attenzione del pubblico e, di riflesso, generare quattrini. Perché non sono opere pie destinate a salvare il mondo. Ma imprese che, tra l’altro, operano in un mercato molto difficile”. Altro che furbetti. Zell non dimentica il mattone, ma vuol far vedere all’amico rivale Mortimer Zuckerman, il proprietario di Boston Properties, che può far meglio di lui come editore. Zuckerman, pellaccia alla Mordechai Richler cresciuto nelle periferie di Montreal, contende il primato nella Grande Mela a Rupert Murdoch, con il suo New York Daily, contro il Post. ”Rupert – dice – è una brutta bestia: è capace di perdere milioni di dollari pur di metter fuori gioco un concorrente”. Lui non se la prende a male: giocar duro piace anche a Mortimer che fa sapere che ”sul mercato del mattone arriveremo più avanti: i prezzi devono scendere ancora”. Qualcuno con il cerino in mano si deve ancora scottare.
Poi entrerà in campo Sam di Chicago o Mortimer da Montreal. O lo stesso Wilbur del New Jersey , che da buon oracolo, una previsione davvero fosca la fa: ”Con questi trend la classe media rischia di scomparire”. Per ora, causa la crescita verticale dei mutui, la classe media rischia più di andare in affitto. Che non sarà l’inferno, ma nemmeno il paradiso.

CORRIERE DELLA SERA 12/8/2007
MILANO – Una radiografia completa del settore finanziario italiano. Con l’obiettivo di scoprire se nei portafogli di banche, assicurazioni e società di gestione ci siano titoli di debito (in particolare i cdo, obbligazioni collaterali di debito che contengono raggruppamenti di mutui cartolarizzati, bond, prodotti derivati e così via) nei quali sono stati «impacchettati» quei mutui subprime
americani che sono all’origine della bufera che ha scosso i mercati internazionali negli ultimi giorni. E’ a questo che stanno lavorando le autorità monetarie e di controllo, dalla Banca d’Italia alla Consob all’Isvap, in costante contatto fra di loro.
MONITORAGGIO PERMANENTE – «Non ci sono motivi di allarme riguardo alle specifiche condizioni dei mercati e degli intermediari in Italia», ha fatto sapere venerdì via Nazionale. Ma dietro alle rassicurazioni formali c’è un’intensa attività di ricerca e monitoraggio. La Consob in particolare, così come gli organismi di tutela del mercato di altri Paesi, sta passando al setaccio i report di tutte le società finanziarie quotate per verificare la reale situazione. O meglio, l’eventuale esposizione in qualche modo collegata al segmento dei subprime o di altri mutui Usa a elevato rischio d’insolvenza. La «mappa» completa potrebbe arrivare già nel giro di un paio di settimane, in modo da poter fugare i timori degli investitori.
IL CASO WESTLB – Quello che si vuole evitare è lo stillicidio di notizie che ogni giorno alimentano la paura sui mercati. Proprio ieri, per esempio, la banca d’affari tedesca WestLb ha annunciato di avere crediti a rischio per 1,25 miliardi di euro. Un paio di giorni prima si era fatta sentire la francese Bnp Paribas, che ha congelato le attività di tre suoi fondi esposti sul fronte dei subprime e ormai prosciugati di liquidità. E prima ancora era andato in scena il default di American Home Mortgages, uno dei grandi gestori di mutui «di qualità non primaria», che è stata costretta a ricorrere al Capitolo 11 della legge Usa sulla bancarotta per mettersi al riparo dai creditori.
LA LENTE DELLA SEC – Giovedì scorso, la stessa Sec americana ha ammesso di aver messo sotto la sua lente d’ingrandimento il settore finanziario Usa, a cominciare da big di Wall Street come Merrill Lynch e Goldman Sachs. Solo nell’ultimo anno, del resto, negli Usa sono saltati una cinquantina di società e fondi legati al mercato dei mutui subprime: una galassia di piccoli gestori, ma nella quale era già presente un peso massimo come New Century. E anche un altro peso massimo, Bear Stearns, ha già pagato un conto salato sull’altare dei mutui, con il crollo di un paio di hedge fund sotto la sua gestione e un prosciugamento della liquidità che ha costretto la banca d’investimenti a cercare capitali freschi (attraverso una nuova enmissione obbligazionaria) pagando interessi di 2 punti e mezzo sopra la media del mercato.

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LA STAMPA 12/8/2007
FRANCESCO MANACORDA
MILANO
I danni della crisi dei mutui «subprime» americani cominciano a essere quantificati anche in Europa. Ieri è stata la banca tedesca WestLb - il terzo istituto pubblico del paese - sulla quale da giorni si rincorrevano voci di problemi, a esporre pubblicamente la sua situazione: 1,25 miliardi di euro della banca sono stati investiti in strumenti finanziari collegati al mercato dei «subprime». Ma nonostante l’entità della cifra investita in questo settore, un portavoce della WestLb ha detto che «siamo relativamente tranquilli rispetto alla valutazione a lungo termine dei nostri strumenti finanziari per la loro alta qualità».
L’87% delle obbligazioni legate ai «subprime» in mano alla banca ha infatti un rating pari o superiore alla AA, un gradino sotto la valutazione di massima affidabilità data dall’etichetta AAA. Affidarsi al rating per garantire la bontà dei propri investimenti rischia però di essere illusorio: proprio in questi giorni, mentre negli Usa infuria la tempesta sui crediti di cattiva qualità, anche l’operato delle agenzie di rating come Moody’s o Standard & Poor’s - quelle appunto che assegnano i voti alle emissioni obbligazionarie, certificandone la qualità per tutti i potenziali acquirenti - è finito nel mirino. Come è ovvio, il fatto che 1,25 miliardi siano investiti in strumenti legati ai «subprime» non significa affatto che siano automaticamente persi, ma è quasi certo che il 30 agosto - quando annuncerà i suoi risultati semestrali - WestLb sarà costretta ad annunciare accantonamenti straordinari per coprire eventuali rischi su quel fronte.
Le cifre che arrivano dalla banca tedesca saranno probabilmente seguite nei prossimi giorni da altre dichiarazioni dello stesso genere da parte di grandi banche e società d’investimento americane ed europee. Anche in Italia c’è chi sta facendo i conti per capire esattamente - operazione non facile, vista la complessità di alcuni strumenti finanziari - quanto e come il rischio «subprime» possa essere diffuso nei propri investimenti o nei portafogli dei sottoscrittori di fondi. Fino ad ora, comunque, dalle grandi banche italiane è arrivato un messaggio assai rassicurante, secondo cui l’esposizione al mercato dei «subprime» è trascurabile o addirittura nulla. E anche la Banca d’Italia è convinta che per quel che riguarda il mercato e gli istituti italiani «non ci sono motivi di allarme». Dunque, le vendite in piazza Affari che negli ultimi giorni si sono abbattute specialmente sui titoli bancari (nella settimana Unicredit ha perso il 3,49% e Capitalia, legata al titolo milanese dal rapporto di concambio fissato per la fusione, ha ceduto il 3,04%) sarebbero dettate più da timori irrazionali che da elementi di fatto. Dopo la chiusura in perdita assai moderata di Wall Street, venerdì notte, tutti gli occhi sono puntati adesso sulla mattinata di domani, quando la Borsa di Tokyo darà il primo segnale della tendenza dei mercati. Negli Stati Uniti il blocco al calo dei titoli di venerdì è stato innescato dalla previsione che il governo interverrà in qualche modo per evitare che la crisi dei mutui si avviti su se stessa. Banche centrali e altre istituzioni finanziarie restano comunque in stretto coordinamento tra di loro e pronte a intervenire, come hanno fatto questa settimana, con una mossa che ha pochi precedenti in quanto a entità: solo in Europa la Bce ha immesso oltre 150 miliardi di denaro fresco in due giorni per evitare il rischio di una crisi di liquidità innescata proprio dalla sfiducia delle banche sul fatto che altri istituiti siano in grado di ripagare i prestiti che ottengono.
Resta il fatto che il movimento complessivo sulle Borse internazionali fa tremare molti. Solo sulle piazze europee sono stati «bruciati» nelle ultime due sedute della settimana 428 miliardi di euro di capitalizzazione: per intendersi si tratta di più della metà della capitalizzazione complessiva di piazza Affari. Secondo l’Adusbef, in Italia, nell’ultimo mese sarebbero imputabili alla crisi dei «subprime» perdite per 130 miliardi di euro, 74 legati al calo della capitalizzazione di Borsa e altri 56 miliardi relativi «alle perdite su obbligazioni (eccetto i titoli di Stato che si sono rivalutati), fondi comuni e fondi pensione». Un calcolo suggestivo anche se è fin troppo facile obiettare che è impossibile attribuire con certezza alla crisi dei mutui americani qualsiasi movimento al ribasso dei mercati finanziari.

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LA STAMPA 12/8/2007
VANNI CORNERO
Maghi della finanza in trincea per battere la crisi mondiale dei mercati? No, in spiaggia, ma in compagnia del fido Blackberry. In una delle settimane più nere delle borse, almeno da quattro anni a questa parte, a fare la differenza è stato proprio questo portatile elettronico, un po’ telefono cellulare e un po’ computer da tasca, con servizio di e-mail e tutto il resto. Ad eleggere Blackberry a nuovo status simbol del supermanager è stato il «Financial Times», che al tascabile salvavacanze ha dedicato un robusto servizio. La foto che accompagna l’articolo dice tutto: un paio di occhiali da sole appoggiati su sandali infradito e vicino il portentoso apparecchietto sul cui schermo compare il planisfero. Insomma il controllo del mondo stando sotto l’ombrellone.
Ed è proprio così per Martin Egan, capo dei mercati primari di Bnp Paris, sdraiato su una spiaggia di Dubai: «E’una giornata cocente - riferisce il top manager al Financial Times - ma la situazione è altrettanto rovente negli uffici di Parigi. Qui e là siamo tutti in alto stato di allerta e in vacanza con me ci sono molti finanzieri, costantemente in contatto con i loro uffici di riferimento. E per farlo basta accendere il Blackberry. La situazione è molto difficile, anche perchè ad agosto le banche funzionano con la metà o addirittura un terzo del personale. Per questo chi fa il mio lavoro deve rimanere vigile, ma oggi può farlo prendendo il sole e bevendo un cocktail alla frutta alle Maldive».
Anche al culmine della crisi, quando una tempesta di vendite sconquassava i listini, i banchieri in vacanza sono rimasti connessi direttamente dalla spiaggia con i colleghi che presidiavano gli uffici nella City londinese e a New York. Un flusso costante di e-mail ha permesso loro di gestire la situazione e rassicurare i clienti. «Mi fido molto del mio team - ha detto Geraud Charpin, capo delle strategie di credito europee di Ubs - ma in momenti del genere non posso non seguire quel che sta succedendo». Lui è in vacanza in Francia, ad Aix en Provence, però è come avesse una finestra aperta sul suo ufficio ogni volta che vuole. Basta premere un pulsante.
Non che anche così sia una passeggiata, ma lo stress in vacanza si sopporta meglio. Michael Jacobs, la cui compagnia tratta futures sui tassi d’interesse a breve termine, non esita a dire che, per lui, giovedì scorso è stata una giornata terribile, la più caotica dell’anno: «Sono praticamente diventato matto - spiega sulle pagine del famoso quotidiano economico - e penso che molti la prossima settimana vogliano liquidare le loro posizioni, ma io ho in calendario le mie ferie e non ho intenzione di rinunciarvi».
Uno stratega del credito di Deutsche Bank si chiama Jim Reid e tra le sue passioni c’è il gioco del cricket, ragion per cui per le sue vacanze ha scelto l’Inghilterra. «Senza il Blackberry sino a qualche anno fa in un caso del genere avrei dovuto tornarmene a casa. Ma con questa tecnologia si può essere coinvolti nella vita d’ufficio anche standone fisicamente molto lontano. Io ho risposto alle mail della banca mentre prendevo un tè al club del cricket e l’unico momento in cui i miei clienti non possono mettersi in contatto con me è quando tocca a me battere».

CORRIERE DELLA SERA
LUNEDì 13 AGOSTO 2007
FEDERICO FUBINI
MILANO – Circa 600 milioni di euro di crediti a rischio per l’istituto tedesco Postbank. E altri 450 milioni, secondo l’agenzia Bloomberg, per le sei maggiori banche cinesi, dalla Industrial and Commercial Bank of China fino alla Citic. Anche ieri dal buco nero dei prodotti finanziari legati in qualche modo ai mutui subprime
americani, le cui dimensioni restano ancora ignote, sono emerse nuove particelle infette, sparse fra la vecchia Europa e la Cina del boom. Sono cifre di scarso rilievo, ma contribuiscono ad alzare la tensione alla vigilia della riapertura odierna dei mercati dopo la bufera della scorsa settimana. Le prime indicazioni verranno dalle piazze asiatiche, per proseguire poi in Europa e Usa. E sia la Bce sia la Fed si tengono pronte a ripetere il copione di giovedì e venerdì, quando hanno immesso nel sistema finanziario rispettivamente 156 miliardi di euro e 62 miliardi di dollari per evitare una crisi di liquidità.
ATTENZIONE AI TASSI – Una sequenza di interventi (alla quale, in misura minore hanno partecipato anche gli istituti centrali di Giappone e Australia) che potrebbe proseguire se non miglioreranno le condizioni di accesso al credito. Giovedì scorso, per esempio, la Bce ha scesa in campo quando il livello dei tassi, a cui banche e aziende dovevano far fronte per reperire le risorse necessarie alla loro attività, era salito al 4,70%. Per questo l’istituto guidato da Jean-Claude Trichet ha immesso liquidità a un tasso del 4,08%. E oggi, quando dovranno essere rimborsati i prestiti concessi venerdì, si vedrà se sarà necessaria una nuova iniezione di denaro.
Ma fra i banchieri centrali si sta già discutendo anche dell’atteggiamento sul fronte dei tassi d’interesse di base. I mercati scommettono sul rinvio del rialzo (dal 4% al 4,25%) preannunciato dalla Bce per settembre, ma all’istituto di Francoforte sembra prevalere l’idea di un rincaro nei tempi prefissati. I fondamentali dell’economia di Eurolandia sono ancora buoni e l’inflazione fa più paura della crisi derivata dai subprime, che per ora viene giudicata gestibile. Molto dipende però dai risultati della «mappatura» dell’esposizione di banche e società finanziarie che sia la Sec americana sia le authority europee stanno conducendo.
RADIOGRAFIA DEI RISCHI – Una radiografia completa dei rischi dovrebbe essere pronta per fine mese o inizio settembre. Ed è anche in base a questo, oltre che alla ritrovata o meno stabilità dei mercati, che la Bce deciderà cosa fare. Lo stesso interrogativo se lo stanno ponendo i governatori della Fed. E per ora un ribasso dei tassi (il mercato dei futures già sconta due tagli dello 0,25% ciascuno fra settembre e fine anno) non appare affatto scontato. Se la crisi dei subprime
non si rivelerà molto più ampia, al centro delle preoccupazioni di Ben Bernanke continuerà a rimanere l’inflazione piuttosto che le perdite che potranno subire quei «miliardari che gestiscono gli hedge fund», come li definisce il New York Times,
che per avidità hanno scommesso su titoli ad alto rischio.

CORRIERE DELLA SERA
LUNEDì 13 AGOSTO 2007
GIANCARLO RADICE
MILANO – «Da una parte l’enorme deficit fiscale, dall’altra la crescita esplosiva dei mercati finanziari: così gli Stati Uniti rischiano di essere la causa della prossima crisi globale». Non sono parole di oggi quelle di Kenneth Rogoff. Il suo monito, per la verità condiviso da molti economisti, risale molto indietro nel tempo. E, soprattutto nell’ultimo anno, lui lo ha ripetuto a ogni convegno, ogni dibattito, ogni intervento pubblico, suscitando spesso un’alzata di spalle da parte di quei colleghi per i quali la «bolla immobiliare» Usa non sarebbe mai scoppiata. Invece sta succedendo. «E ora, per evitare che l’attuale crisi si trasformi in un terremoto, molto dipende da quanta flessibilità sapranno mostrare le banche centrali – spiega ”. Hanno un compito difficile: a buttare massicce iniezioni di liquidità sui mercati si rischia di perdere molti soldi, tantopiù che si sta giocando contro una massa di prodotti finanziari collaterali che potrebbero rivelarsi molto più marci di quanto si pensi. Ricordiamoci che nell’ottobre dell’87, quando dovette affrontare il crollo di Wall Street, anche Greenspan fece perdere miliardi di dollari alla Federal Reserve. Il suo intervento fu però determinante per impedire una recessione mondiale».
Rogoff, ex capo delle ricerche economiche dell’Fmi, ex esponente del board della Federal Reserve, ora docente alla Harvard University, è uno degli economisti più ascoltati al mondo. Dal Brasile, dove si trova in questi giorni per lavoro, segue con attenzione quanto sta accadendo sui mercati finanziari. «Quale impatto avrà sull’economia? – si chiede – Tutto quel che posso dire è che il problema del mercato immobiliare americano è più grave di quanto sembri in questo momento, e va ben oltre il caso dei mutui subprime. Prima di arrivare a una valutazione realistica i prezzi degli immobili dovranno perdere ancora un po’ di punti percentuali.
Lo faranno nel corso dei prossimi anni, è inevitabile ». Ma da gran giocatore di scacchi qual è (perdipiù con sulle spalle una carriera professionale di livello internazionale) Rogoff ammette d’essere particolarmente intrigato dal dilemma che devono affrontare i banchieri centrali, in primo luogo Jean-Claude Trichet della Bce e Ben Bernanke della Fed. Da una parte – ragiona Rogoff – devono sostenere i mercati finanziari per impedire che, mancando la liquidità e le disponibilità di credito di cui le aziende hanno bisogno, l’intera economia si fermi. Dall’altra devono invece evitare di rendere troppo facile l’accesso al denaro per non alimentare l’inflazione. In termini estremi: alzare i tassi oppure ridurli, con il rischio però di incoraggiare una nuova bolla speculativa senza aver annullato quella precedente? «La Bce mi sembra quella che ha di fronte la scelta più difficile – ammette Rogoff ”. Solo pochi giorni fa ha infatti manifestato la sua decisione di rialzare il costo del denaro e ora invece non solo sta iniettando liquidità sul mercato ma, se la situazione si rivelerà più grave di quanto appare oggi, dovrà rassegnarsi a un taglio dei tassi».
E Bernanke? E’ scontato un ribasso di un quarto di punto a settembre e di un altro quarto in inverno? Rogoff sintetizza in una battuta: «Fra gli interrogativi mettiamo anche questo: l’ultima cosa che desidera Bernanke è quella di far credere ai mercati finanziari che tutte le volte che hanno un problema basta che lo chiamino al telefono e lui correrà in loro
soccorso».

LA REPUBBLICA
LUNEDì 13 AGOSTO 2007
GIORGIO LONARDI
MILANO - Comincia oggi a Tokyo il «giorno più lungo» dei mercati mondiali dopo i ribassi di giovedì e venerdì seguiti alla crisi dei mutui subprime. E Fed e Bce sembrano pronte a intervenire ancora, immettendo nuova liquidità sui mercati per scongiurare un pericoloso contagio alla crisi: fonti finanziarie, infatti, parlano di contatti tra le due autorità monetarie europea e americana su difesa dei mercati e tassi.
Con ogni probabilità sarà il Kabutocho a dare il senso della giornata e poi via via seguiranno le altre Borse. La tensione è alta: stamane molti operatori occidentali si sveglieranno già alle prime luci dell´alba per annusare l´aria e capire il mood dei mercati del Far East. In Europa, infatti, il clima non è allegro. L´ultima novità negativa riguarda la Deutsche Postbank, che sarebbe esposta per 600 milioni di euro in 2 strumenti d´investimento della Ikb, l´istituto tedesco finora più coinvolto nella crisi dei mutui subprime, che ha dichiarato un´esposizione di circa 4,7 miliardi di dollari. Stessa musica in Cina, dove sei banche quotate sarebbero coinvolte per 475 milioni di dollari.
Come si comporteranno oggi i mercati? Dopo il panico che solo in Europa ha «bruciato» in due giorni 428 miliardi di capitalizzazione, adesso ci si chiede se la tempesta è finita. E se la massiccia iniezione di liquidità effettuata dalle banche centrali (quasi 300 miliardi di dollari) ha ristabilito la fiducia. Oppure se ci si deve attendere un lunedì nero caratterizzato da ondate di vendite. Un panic-selling che già la scorsa settimana aveva scatenato la corsa ai beni rifugio. Lo conferma l´andamento dell´oro che ha guadagnato 8,8 dollari l´oncia, con i future consegna a settembre schizzati sopra i 680 dollari. In rialzo anche l´argento, che ha visto lo stesso tipo di contratto mettere a segno un aumento dell´1,3%.
Il secondo interrogativo, strettamente correlato al primo, riguarda proprio il comportamento delle banche centrali, a cominciare da quella americana. «Siamo nel mezzo della tempesta – spiega Chip Hanlon presidente di Delta Global Advisor – l´unica domanda è se la Federal Reserve lascerà che il mercato si aggiusti autonomamente o se giungerà in suo soccorso». Alcuni investitori, infatti, scommettono su un taglio dei tassi d´interesse da parte della stessa Fed. Un´ipotesi tutta da verificare perché Bernanke finora sembra preoccupato soprattutto dallo spegnimento dei focolai d´inflazione. In ogni caso prima che la Fed prenda una decisione bisognerà aspettare mercoledì il dato sull´andamento dei prezzi al consumo. Mentre fra giovedì e lunedì saranno rilasciati gli indicatori sulla fiducia dei consumatori, sulle vendite al dettaglio e sulle nuove costruzioni.
Quanto all´Europa la questione che si pone il presidente della Bce Jean-Claude Trichet è diversa da quella di Bernanke. Si tratta di capire, infatti, se continuerà la stretta progressiva sull´economia del Vecchio continente per scongiurare le spinte inflattive oppure se Trichet, di fronte allo sconquasso dei mercati, non decida di bloccare, o quantomeno di rallentare, la crescita dei tassi. Lo scenario più attendibile precedente al tifone subprime prevedeva infatti che il 6 settembre alla prossima riunione della Bce ci sarebbe stato un rialzo dei tassi dello 0,25%, cui ne sarebbe seguito entro fine anno un altro di analoghe dimensioni. Adesso, però, stanno crescendo le aspettative circa un solo aumento di 25 punti base nel giro dei prossimi sei mesi, non necessariamente già in settembre.

LA REPUBBLICA LUNEDì 13 AGOSTO
ANDREA TARQUINI
dal nostro corrispondente
BERLINO - La grande crisi finanziaria internazionale fa tremare anche la prima economia europea, la Germania. Alla vigilia della riapertura dei mercati crescono timori e diffidenze ai piani alti delle banche e inquietudine degli ambienti politici, specie governativi, per l´allargarsi del contagio, che sta coinvolgendo anche un colosso come la Deutsche Postbank. Economisti ed establishment invitano a non drammatizzare, ma temono che la crisi di liquidità spinga a una stretta creditizia negativa per la ripresa tedesca. E sperano che la Banca centrale europea agisca. Con nuove iniezioni di denaro sui mercati, date per scontate qui nei prossimi giorni, ma se possibile anche con una politica dei tassi più accomodante.
«Sui mercati in Germania c´è ancora molto denaro per cui cercare investimenti appropriati», ha detto il capo economista di Deutsche Bank Norbert Walter, invitando a «evitare allarmismi esagerati». E il leader del Consiglio dei cinque saggi (il più influente board di economisti del paese), Bert Ruerup, ha affermato che «la crisi resterà confinata sui mercati finanziari, almeno finché la Bce si comporterà in modo saggio e alimenterà a sufficienza il mercato con liquidità». Ma non tutte le voci sono così pacate.
«Dove non c´è fiducia non ci sono crediti», ha avvertito Ulrick Kater, capo economista di DekaBank. Secondo Thorsten Polleit, suo omologo a Barclays capital Germania, «si farà più esiguo il flusso di crediti che ha acceso il fuoco della congiuntura, e se questa tendenza continuerà farà sentire un effetto frenante sulla congiuntura in Germania, un effetto che si mostrerà negli investimenti e nel consumo».
I pessimisti temono anche contraccolpi diretti della crisi americana, visto che gli Usa contendono a Cina e Francia il ruolo di primo sbocco dell´export tedesco di beni di consumo, macchinari, tecnologia, software e investimenti. E secondo l´esperto di questioni delle piccole e medie aziende della Cdu (il partito della Cancelliera Angela Merkel), Michael Fuchs, il pericolo è che la Kreditanstalt fuer Wiederaufbau - KfW, società di aiuto pubblico agli istituti e alle imprese in difficoltà - sia più coinvolta nella crisi di quanto non si pensi, e possa quindi erogare meno soccorsi di quanto ha fatto finora, con una media di 590 milioni di euro l´anno. La KfW tra l´altro controlla il 38 per cento della IKB, l´istituto di credito delle piccole e medie imprese colpito nei giorni scorsi dalla crisi internazionale, e ha già dovuto compensarne le alte perdite. Der Spiegel parla persino di 7,8 miliardi di euro investiti in operazioni a rischio negli usa. «La KfW non dovrebbe partecipare a operazioni speculative», critica il democristiano Fuchs.
Preoccupazioni si colgono anche nel clima generale tra le banche tedesche. A Francoforte e a Monaco si respira un clima di sospetti reciproci: ogni istituto sospetta l´altro, anche l´abituale partner, di nascondere affari a rischio. Le banche quindi non sembrano più orientate a prestarsi facilmente denaro a vicenda come hanno fatto fino a ieri. Borsa stretta, in attesa di nuove notizie su altri istituti nazionali coinvolti nella crisi. La WestLB, la banca semipubblica del Nordreno-Westfalia (lo Stato più popoloso della federazione) ha ammesso di aver investito 1,25 miliardi di euro in fondi "subprime" americani. La Postbank, cioè la banca della Posta, fortissima nel mercato dei piccoli risparmiatori, si accinge a rivelare le cifre dei suoi investimenti a rischio. Si parla di almeno 600 milioni di euro (780 milioni di dollari) collegati a investimenti di Ikb.

LA STAMPA LUNEDì 13/8/2007
GIANLUCA PAOLUCCI
Anche le banche cinesi si scoprono esposte nel settore dei mutui subprime Usa, accrescendo il temuto «effetto contagio» sui mercati mondiali che nei giorni scorsi ha tenuto sotto pressione le Borse. E la Germania, uno dei Paesi che ha risentito per primo della crisi Usa e le cui istituzioni finanziarie sono tra le più esposte verso questo tipo di prodotti, scopre nuove falle nel suo sistema creditizio. Una prova della tenuta del sistema e delle ripercussioni della tempesta dei mutui si avrà già questa mattina alla riapertura dei mercati dopo la pausa del fine settimana. Dopo i 300 miliardi di liquidità immessi sui mercati dalle banche centrali di tutto il mondo, il mercato scommette adesso su un possibile taglio dei tassi Usa nel breve periodo, mentre la Bce potrebbe decidere di annullare l’atteso rialzo d’autunno.
Il contagio in Cina
Secondo quanto riferito dall’agenzia Bloomberg, sei tra le maggiori banche cinesi sarebbero esposte nel segmento dei mutui di scarsa qualità per oltre 475 milioni di euro. La più esposta sarebbe la China Construction Bank, scoperta per 576 milioni di yuan. L’elenco comprende anche la Industrial & Commercial bank of China per 120 milioni di yuan, la Bank of communication per 120 milioni, China Citic per 190 milioni e la China Merchants Bank per 103 milioni. Yi Xinanrong, membro della Chinese Academy of social sciences, interpellato dalla stessa Bloomberg, spiega come l’effetto «subprime» potrebbe farsi sentire in maniera pesante anche in Cina. Al di là degli effetti indotti dalla crisi statunitense, l’esperto di finanza e banche dell’Academy spiega infatti che «la qualità di mutui e prestiti per la casa in Cina è molto peggiore rispetto agli Usa». Inoltre, continua l’esperto cinese, negli Stati Uniti «c’è stato un controllo del sistema del credito, mentre in Cina tutti possono chiedere soldi per comprare una casa», con controlli sulla solvibilità che hanno maglie molto più larghe rispetto a quelli, già deboli, degli Stati Uniti.
Allarme per i subprime anche in Corea del Sud, dove sabato si è tenuta una riunione d’urgenza tra il viceministro dell’Economia, i rappresentati della Bank of Korea e commissione del servizio di supervisione finanziaria, l’autorità di controllo dei mercati finanziari.
Nel Vecchio continente
Dalla Germania, l’ultima novità è quella della Deutsche Postbank, esposta nei confronti della banca tedesca Ikb, finita nei giorni scorsi nella bufera mutui, per 600 milioni di euro. Tra questi, circa 200 sarebbero in strumenti direttamente collegati ai «subprime». Per una serie di banche europee - Commerzbank, Deutsche Bank, Bnp e Fortis - il timore è legato alla loro esposizione nei confronti di Homebanc, l’ultima in ordine di tempo tra le società Usa ad aver richiesto la protezione dai creditori per le perdite legate ai mutui casa. Tra gli azionisti di Homebanc figura, con una quota superiore al 5%, anche la svizzera Ubs. L’attesa è però per l’apertura dei mercati: nelle ultime 48 ore della scorsa settimana borsistica, hanno sofferto dell’effetto panico, bruciando solo in Europa la bellezza di 428 miliardi di euro. A trarne vantaggio sono stati i cosidetti beni-rifugio, con i prezzi dell’oro e dell’argento schizzati in alto. Per il metallo giallo, quasi nove dollari l’oncia in più, con i futures saliti fino a 680 dollari l’oncia.

LA STAMPA LUNEDì 13/8/2007
FRANCESCO MANACORDA
Hanno investito nella Rolls Royce degli «hedge funds», nel Concorde della finanza, nel Tgv dei rendimenti. Insomma hanno messo i loro soldi - in tutto la bellezza di 8 miliardi di dollari - nel segreto quanto celebre Alpha Global Fund della Goldman Sachs. Ma adesso i blasonati investitori - grandi gruppi finanziari, assicurazioni, i fondi pensione di qualche stato americano - si trovano in mano quote che secondo l’agenzia Usa Bloomberg valgono il 26% in meno rispetto all’inizio dell’anno. Eppure nello stesso periodo l’indice S&P dei 500 principali titoli Usa è salito del 16%.
Storia esemplare di un mercato finanziario senza più bussola, quello dell’Alpha Global Fund, il più famoso e finora redditizio tra i cosiddetti «fondi quantitativi». Sono i fondi che hanno come obiettivo quello di offrire rendimenti scollegati - e ovviamente assai superiori - a quelli delle Borse. Ma la crisi dei «subprime» e le scosse telluriche che si diffondono attraverso i mercati mondiali sembrano aver mandato a rotoli nel giro di pochi mesi i complicatissimi modelli matematici con i quali il duo d’oro - o ex tale - di Goldman Sachs composto da Mark Carhart e Raymond Iwanowski ha ottenuto finora risultati da Re Mida.
Carhart, ha solo ventinove anni, quando nel 1995 lascia il posto di assistente alla University of Southern California e si associa con il compagno di studi Iwanowski: assieme lanciano il primo modello quantitativo nel quale una mole immensa di dati macinata da appositi programmi consente di scovare le azioni davvero sottovalutate, da comprare a piene mani, e quelle sopravvalutate da vendere invece al più presto. In quell’anno l’Alpha Global Fund raccoglie 10 milioni di dollari. Ma nel ”96, quando i suoi pochi clienti si accorgono che in dodici mesi hanno guadagnato il 140% le sottoscrizioni fioccano. Nel 2005 l’Alpha Global non è un hedge fund, è «l’hedge fund» per eccellenza che applica il «quant», il metodo quantitativo non solo alle azioni, ma anche alle valute e alle obbligazioni. A questo punto ha a disposizione 10 miliardi di dollari e li fa fruttare come non mai: il rendimento di quell’anno è il 51% lordo, che sarà poi limato da ricchissime commissioni alla Goldman.
Nel 2006, però, il vento comincia a girare. L’Alpha Global perde circa il 6% nell’anno, sempre a dar retta alle informazioni degli «insider», visto che Goldman Sachs, non comunica le performance dei suoi fondi chiusi. «E’ noto che il fondo è volatile - si limita a dire nel dicembre 2006 un portavoce - ed ha già avuto periodi di volatilità in passato, Dalla sua partenza ha comunque ottenuto rendimenti positivi per gli investitori». Dalla volatilità si passa però a veri e propri precipizi. Sempre in base a informazioni non ufficiali l’ultima settimana di luglio il Global Alpha perde l’8% e la prima di agosto non va molto meglio. Giovedì scorso Goldman è così costretta a infrangere il suo proverbiale riserbo per smentire le voci che impazzano nelle sale operative di Wall Street: non intende mettere in liquidazione - contrariamente ai rumors - il fondo nè tantomeno vendere le quote che esso ha in molte aziende, dalla Continental, alla Fiat, alla joint-venture europea Eads. Oggi, alla riapertura dei mercati i computer di Carhart&Iwanoswki macineranno nuovi dati e i due stregoni di Wall Street faranno di tutto per risollevare il valore del fondo. Ma dovranno fare presto, prestissimo: entro il 15 agosto gli investitori che vogliono uscire dal Global Alpha e incassare i loro soldi per il 30 settembre devono comunicarlo a Goldman. Se le cose continueranno così la fila alla cassa potrebbe essere lunga.


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Dalla fabbrica del romanzo quarantuno storie al giorno

14.617

20 milioni

4.147

75 milioni

Pochi lettori tanti titoli: in un anno 15 mila opere fiction



In Italia circa 20 milioni i libri di narrativa acquistati nel corso di un anno
La classifica dei nuovi generi, crescono "murder" e "banality"
I vecchi generi letterari non esistono più, scalzati dai nuovi campi dell´immaginario ideati dal marketing

SIMONETTA FIORI
ROMA - Benvenuti nel romanzificio italiano, operosa officina che sforna oltre quaranta titoli al giorno, incluse domeniche e feste comandate. La porta d´ingresso non è tra le più accattivanti: Mercato e romanzo, generi, accessi, quantità, recita asettico il titolo del rapporto da poco pubblicato dall´Osservatorio permanente europeo della lettura. Bisogna vincere la noia delle tabelle per arrivare al dato essenziale, la chiave preziosa per interpretare la vertigine del lettore dinanzi allo tsunami quotidiano di titoli che inonda le librerie italiane. Soltanto nell´anno 2005 sono stati pubblicati 14.617 opere di fiction (dati Istat), il che significa che sono usciti oltre 40 "testi narrativi", e solo una piccola quota (1325) è rappresentata da "opere letterarie classiche", mentre il resto è dato da "testi letterari moderni": per chi ama i numeri 13.299 titoli, oltre un centinaio di novità al mese (su una produzione complessiva di 53.231 titoli). Una macchina narrativa sterminata, che potrebbe apparire paradossale dinanzi ai bassi indici di lettura esibiti dal nostro paese. Un Paese in cui, comunque, si stima vengano venduti circa 20 milioni di romanzi all´anno: 56.915 al giorno.
Sono questi i ritmi dettati dall´industria editoriale, in ossequio alla regola del consumo rapido. Naturalmente nell´alacre librificio la letteratura c´entra poco o niente. Come ci spiega bene Michele Rak, professore di Teoria e Critica della letteratura all´Università di Siena e curatore del rapporto Mercato e romanzo (Liguori Editore), non esistono più i tradizionali generi letterari, scalzati da nuovi campi dell´immaginario ideati dal marketing. Gli editori li hanno confezionati interpretando bisogni e desideri del "cliente", sincronizzati sulle suggestioni che provengono dalla cronaca: delitti, guerre, religioni, etnie, malattie, gossip e molto altro ancora. Niente di più o di diverso dalla produzione di altre merci. Anche la società letteraria ne viene fatalmente contaminata, includendo al suo interno "critici togati" e "interpreti abusivi", spesso dilettanti commentatori di romanzi però funzionali al consumo rapido.
L´attuale romanzificio italiano, così come viene disegnato in modo talvolta stravagante dal rapporto, include un ampio ventaglio di prodotti nazionalpopolari, tutti di sicuro appeal per il lettore. Tra i più frequentati è il genere murder, nelle sue varie articolazioni di giallo, noir, thriller, horror. Storie di morte violenta, con annesso arrovellarsi su moventi e colpevoli, per compensare e forse esorcizzare - suggerisce Rak - la paura alimentata dalla cronaca quotidiana. Il marchio historical soddisfa la richiesta più esigente di chi è attento alla problematica della società complessa e ai temi dell´identità. In questa sezione ci si imbatte nelle spy story finanziarie e giudiziarie, nelle saghe, nei romanzi storici, negli epistolari e nei diari, ed anche nei cosiddetti mix novel, nati dall´incrocio tra eros, violenza e cronaca. Proseguendo nella visita ai macchinari narrativi, s´incontra lo stand più pittoresco (e non indimenticabile) dello show writing, ossia la collezione di romanzi tratti da film e spettacoli oppure firmati da personaggi dello show business. Di segno quasi opposto, il genere ribattezzato ethnic, ossia i romanzi dedicati a culture, etnie, religioni di mondi un tempo lontani e oggi vicinissimi grazie alle migrazioni, oppure incentrati su abitudini e liturgie quotidiane di realtà periferiche del Mezzogiorno (può far sorridere che tra le opere esemplificate tra parentesi compaiano libri "siciliani" "napoletani" e "maghrebini"). Il variegato catalogo include anche il soap writing - il romanzo d´accoppiamento, lo definisce Rak, insomma il racconto erotico - e il cosiddetto banality, ossia storie di vita vissuta in formato nazionalpopolare. Se teniamo fuori il nothing, un´etichetta usata per indicare i libri finanziati dagli assessori o da case editrici a pagamento, arriviamo al cuore dell´officina, il Pen Club o il romanzo di penna, ossia l´unico che tenga conto della scrittura e dello stile, destinato a un lettore esigente. Contiguo e altrettanto nobile è il reparto Classic, nel quale sono classificati i romanzi delle tradizioni letterarie nazionali.
Sfrondando dalle statistiche fornite dall´Istat le collezioni periodiche (tipo Harmony o Urania), i libri allegati ai quotidiani, i racconti e le raccolte di racconti, i diari e i reportage, il rapporto pubblicato ora da Liguori arriva a quantificare a 4.147 le uscite narrative del 2005, con una significativa prevalenza di pen club (19, 4%) e murder (17,1 %) seguiti dai generi historical (12,9 %) ethnic (10,1 %) e banality (8,7%). Le cifre indicano la rilevanza della "letteratura delittuosa", con il consueto trittico omicidio-indagine-rivelazione, mentre il tradizionale horror registra nel favore dei lettori un evidente calo. Altra tendenza in forte crescita è quella del "romanzo etnico", caratterizzato da scenari esotici o comunque extra occidentali, un genere sicuramente aiutato dal successo di autori laureati dal Nobel come l´africano Coetzee o l´antillano Derek Walcott. Altro filone evidenziato dal rapporto dell´Osservatorio riguarda i bestseller e le sue innumerevoli imitazioni. Il 2005 fu l´anno di Dan Brown, o meglio della sua definitiva celebrazione, con una vasta schiera di follower pianificati (parodie, approfondimenti, dietro le quinte, contestazioni, eccetera), alcuni dei quali toccarono la vetta di 80 mila copie. Un mercato, quello tricolore, sempre più nazionale: diminuisce la quota dei libri tradotti e cresce l´attenzione per la narrativa italiana. Senza mai perdere di vista il target, naturalmente.

***

PAOLO MAURI
Se qualcuno fosse tentato di dire "che tempi!" leggendo le cifre del mercato del libro, tenga presente che, arretrando di quasi un secolo le cose, nella loro essenza, non cambiano di molto. Giuseppe Antonio Borgese, critico illustre e poi romanziere in proprio, nel 1911, commentando un dibattito sulla crisi del libro fatto da "alcuni egregi romanzieri e novellieri d´Italia" annotava: «L´argomento non è nuovo; di troppa affluenza d´autori e di troppo scarsa avidità da parte dei lettori si lamentano gli editori... L´industria del libro è in crisi un po´ dappertutto... il libro non soddisfa nessun elementare bisogno fisiologico e nemmeno si può annoverare fra quei generi di lusso che la moda comanda...La produzione del libro procede per via di faticosi esperimenti; ogni editore brancola finché abbia acchiappato un autore che per il suo genio o per la sua volgarità possa raggiungere le dieci o le centomila copie di tiratura...»
Le cifre ci dicono che gli editori hanno bisogno di pubblicare molto per una sorta di fisiologia industriale che non c´entra nulla o molto poco con il valore letterario. Giudicare i romanzi dal venduto è (criticamente parlando) una perdita di tempo: si fa solo sociologia e, come avverte Borgese, sempre la stessa.

• La prima osservazione da fare su quanto Romano Prodi ha detto l´altro giorno sull´opportunità d´aprire il dialogo con Hamas, è un´osservazione di metodo. C´è nel governo italiano, infatti, la tendenza a parlare delle questioni internazionali con la stessa imperterrita disinvoltura, la stessa mancanza di coordinamento con cui i ministri s´ergono ogni giorno a dire la loro, la loro soltanto, senza mai preoccuparsi della confusione e cacofonia che ne derivano. Il governo ha un suo portavoce ufficiale, il signor Silvio Sircana, ma è come se non l´avesse. Mastella e Di Pietro, Diliberto, Mussi e Giordano, Parisi e D´Alema esternano senza posa le loro riserve sull´operato del governo, suscitando sconcerti e soprassalti – quando non si tratta di bufere – all´interno della coalizione. I tanti richiami all´ordine non hanno mai avuto effetto, e il ruolo del signor Sircana s´è andato facendo sempre più virtuale, nominale, decorativo. Con la questione palestinese, la critica, pericolosa spaccatura Fatah-Hamas, succede più o meno lo stesso. Oggi parla Fassino, domani D´Alema, dopodomani uno di Rifondazione, e il giorno dopo Prodi. Il ministro degli Esteri D´Alema, uno che per il suo ufficio dovrebbe sapere meglio d´altri quando, come e dove parlare, aveva sostenuto la necessità di contatti con Hamas proprio lo stesso giorno in cui entrava in carica come negoziatore dell´Unione europea per il Medio Oriente, Tony Blair. Non tre giorni prima, non tre giorni dopo, in modo da evitare l´impressione d´una interferenza nel lavoro del negoziatore incaricato. No, lo stesso giorno. E infatti sembra che Blair e i suoi fossero rimasti sbalorditi dalla sortita del nostro ministro degli Esteri. Ma espressa la riserva sul metodo, e passando alla sostanza delle parole di Prodi, è vero che con Hamas bisognerebbe, se e quando sarà possibile farlo, tentare un´apertura di dialogo. Del resto, si tratta di un´opinione diffusa. In modo più formale, politicamente meno arruffato di quanto non avvenga a Roma, la Commissione affari esteri del Parlamento inglese ha infatti pubblicato ieri un documento in cui si parla dei rischi che possono venire dall´isolamento degli islamisti di Hamas. E inoltre si sottolinea l´errore commesso dall´Unione europea nei mesi scorsi, quando ancora esisteva il governo di coalizione Hamas-Fatah, nel rifiutare una completa ripresa degli aiuti economici all´Autorità nazionale palestinese. Il che coincide poi con quel che si legge da tempo sulla stampa "liberal" israeliana, vale a dire la pericolosità dell´illusione nutrita dal governo Olmert di poter chiudere Hamas nel ghetto di Gaza, aspettando che la fame e magari le epidemie inducano alla resa il partito islamico. E coincide anche con quanto sostiene Amos Oz, una delle voci più prestigiose ed autorevoli della società israeliana, riecheggiando una famosa frase di Rabin: è con gli avversari, che bisogna parlare. Dunque, un tentativo di dialogare con Hamas andrebbe fatto. La situazione com´è adesso in Palestina appare infatti precaria, aperta più a nuove convulsioni che ad un fruttuoso negoziato di pace. L´appoggio degli Stati Uniti e del governo israeliano al presidente dell´Autorità palestinese, Mahmud Abbas, è venuto – questo è il punto – troppo tardi. In quanto leader della corrente più moderata del nazionalismo palestinese, Abbas andava sostenuto già nel 2005, al momento del ritiro israeliano da Gaza. Ma Sharon non volle riconoscergli alcun ruolo e rappresentatività, sicché il ritiro avvenne come decisione "unilaterale" d´Israele e non come lo snodo d´una trattativa con i palestinesi. Più o meno lo stesso, nonostante un paio d´incontri privi di vero contenuto concessi da Olmert dopo l´uscita di scena di Sharon, è stato l´atteggiamento del governo israeliano sino a quando a Gaza non è scoppiata la faida tra Hamas e Fatah. E le conseguenze le vediamo oggi. Cacciato da Gaza, ma improvvisamente e vistosamente sostenuto dagli americani e da Israele, Mahmud Abbas appare suo malgrado, agli occhi d´una gran parte del suo popolo, come un alleato di coloro che i palestinesi considerano i responsabili della storica ingiustizia subita con i quarant´anni dell´occupazione israeliana: vale a dire Israele e gli Stati Uniti. Di colpo, infatti, sono venuti ad Abbas le armi e i finanziamenti che gli erano stati negati sino a ieri, Di colpo, si sono susseguiti gli incontri tra lui e Olmert. Di colpo s´è cominciato a parlare d´una conferenza sulla questione israelo-palestinese da tenere in America il prossimo autunno. Non è pertanto difficile immaginare, sullo sfondo delle frustrazioni ed umiliazioni del nazionalismo palestinese, l´impressione che può dare a Gaza – ma anche in Cisgiordania – questo subitaneo, affannoso avvicinamento ad Abbas e a Fatah dei suoi ex avversari. L´effetto che può fare l´accusa di collaborazionismo lanciata da Hamas, visto che in Cisgiordania la caccia agli estremisti islamici viene condotta dalle milizie di Fatah con l´assistenza dei servizi d´informazione israeliani. Insomma, l´abbraccio israelo-americano al presidente dell´Autorità palestinese rischia di rivelarsi disastroso. Sì, un dialogo con Hamas – nonostante la sua vocazione terroristica – sarebbe necessario. Ma non prima che Hamas abbia fatto un passo, un suo primo passo, verso il dialogo. Questo deve essere chiaro. Deve essere detto a chiare lettere, ciò che non risulta invece nelle dichiarazioni dei politici italiani. E´ da Hamas che deve venire il segnale d´una sua disponibilità a trattare. Perché Hamas non riconosce l´esistenza d´Israele, non intende rinunciare alla violenza, e non accetta gli accordi intervenuti tra israeliani e palestinesi da Oslo in poi. Così, se dialogo ci dev´essere è dagli islamisti barricati a Gaza che dovrà venire un´apertura. Un´attenuazione della loro intransigenza. Altrimenti, intavolare una qualsiasi trattativa sarebbe come assecondarne l´estremismo. Chiarito questo, si vede bene come gli auspici di dialogo pronunciati dai governanti italiani nei loro luoghi di vacanza siano in buona parte incongrui, e comunque prematuri.
• Harvard, Yale, Cambridge e Oxford, certo, non hanno bisogno di farsi pubblicità: basta solo il nome come garanzia di qualità, e i migliori studenti arrivano da soli. duro da scalfire il primato di queste università ma per gli altri campus americani e gli atenei europei non vale la stessa regola. Anzi, questi sono tempi duri: la concorrenza è spietata e mette a dura prova la loro offerta di corsi, così bisogna correre ai ripari, prima che sia troppo tardi. La competizione per accaparrarsi gli studenti di tutto il mondo è diventata globale, agguerrita la concorrenza di Cina e India, che stanno investendo milioni di dollari per migliorare le loro università, e degli istituti privati specializzati che, come cattedrali nel deserto, nascono anche nei paesi in via di sviluppo. Tutti hanno lo stesso obiettivo: offrire la migliore istruzione internazionale, il top delle strutture, un titolo riconosciuto nel mondo e corsi di laurea in inglese. Come racconta Newsweek, che alla corsa globale all´istruzione ha dedicato la sua copertina, per ora gli Stati Uniti restano i leader nel settore e continuano a occupare nella classifica delle migliori università del mondo la metà dei posti. Ma altri paesi guadagnano in fretta nuove posizioni: Cina, India, Corea del sud, Singapore, Giappone e Malaysia, provano a rubare «lo scettro dell´eccellenza». Una tendenza fotografata anche dalle statistiche: per la prima volta negli ultimi 30 anni sono diminuiti gli stranieri che si iscrivono nelle università americane. Tra il 2000 e il 2005, secondo l´American council on education, dei 2,5 milioni di persone che studiano all´estero gli Stati Uniti ne hanno ospitate solo il 17% in più, mentre sono cresciuti dell´81% quelli che hanno scelto come meta la Francia e del 108% quelli che hanno preferito il Giappone. Il mercato degli studenti stranieri frutta all´economia americana 14 miliardi di dollari l´anno, così le università cercano di contenere l´emorragia di stranieri. Quest´anno per la prima volta Washington ha lanciato un´aggressiva campagna di marketing e speso un milione di dollari per creare videoclip sui suoi campus da mandare in onda sulle tv cinesi e indiane. E in Gran Bretagna il 79% dei college e delle università hanno aumentato la loro spesa per reclutare studenti all´estero. Il governo francese vuole puntare sulla modernizzazione degli atenei, e ha programmato una spesa di 5 miliardi di euro entro il 2012. Basterà? John O’Leary, l´editore del Times Higher Education Supplement che compila uno degli indici più prestigiosi per valutare la qualità dell´offerta accademica, ha raccontato al settimanale americano che l´Università di Pechino, l´Università nazionale di Singapore e l´Università di Tokyo nelle ultime valutazioni si sono classificate tra i primi 20 posti. Oggi molti paesi puntano sui programmi internazionali: più di cento college indiani hanno stabilito dei collegamenti con le università straniere, così come quelli britannici offrono la possibilità di studiare anche in Cina. Per contenere la fuga di cervelli all´estero Pechino ha deciso di investire sulle sue università: oggi spende lo 0,4% del Pil ma nei prossimi anni vuole arrivare al 4%, più di Europa (1,1%) e Stati Uniti (2,7%) messi insieme. Entro il 2010 la Malaysia si è ripromessa di diventare un punto di riferimento per gli studenti internazionali ospitandone 100mila. Per attrarre docenti stranieri invece le università di Singapore offrono dei salari all´altezza di quelli americani: un giovane professore può arrivare a guadagnare più di 180mila dollari l´anno. A questo si aggiunge il fatto che, secondo le statistiche, entro il 2050 la Cina diventerà una "superpotenza scientifica". Ogni anno sforna centinaia di migliaia di laureati in ingegneria, più di 600mila solo nel 2005. seguita dall´India: dalle università del subcontinente ogni anno escono circa 500mila laureati in materie scientifiche. Molti centri asiatici inoltre sfidano i più prestigiosi campus del mondo sul loro stesso terreno: la lingua. Le università in Corea del sud, Giappone e Cina offrono interi corsi di laurea solo in inglese, mettendo a rischio uno dei punti di forza di quelle americane e inglesi. Se il primato occidentale è a rischio, secondo gli esperti, questa corsa alle università d´eccellenza avrà come effetto di creare davvero "studenti globali": domani anche gli americani si confonderanno con gli studenti di Pechino.
• Tra i Grandi del mondo, Romano Prodi si piazza al quinto posto dei politici meglio pagati. Ha uno stipendio triplo di quello del presidente francese Nicolas Sarkozy, e tallona Angela Merkel. Oltre alla Cancelliera, guadagnano più del presidente del Consiglio solo il presidente americano George W. Bush, il premier britannico Gordon Brown e il capo dell´esecutivo giapponese, Shinzo Abe. Lo ha scritto ieri la Bild (il quotidiano popolare più letto d´Europa), fornendo le cifre caso per caso.
Le vacanze di lusso di Sarkozy, invitato gratis - ha detto lui - in una villa dal fitto astronomico - hanno acceso polemiche. Bild fa i conti in tasca ai leader dei paesi membri del G8 (i paesi più industrializzati del mondo più la Russia), eccetto il premier canadese. E al numero uno della superpotenza in decollo, la Cina. E dalle cifre, ammesso che siano attendibili, vengono diverse sorprese.
Non stupisce che il capo della Casa Bianca sia con 24.167 euro, il più pagato tra i leader democraticamente eletti. Non meraviglia nemmeno che Gordon Brown lo segua a ruota con 23.334 euro, viste tradizioni imperiali e ambizione del Regno Unito. Né fa sobbalzare che Shinzo Abe, alla guida della seconda potenza economica del globo, guadagni 21.910 euro, o che subito dopo di lui venga Angela Merkel: Berlino è il terzo gigante economico del pianeta.
Sorpresa invece per la differenza tra i 18.900 euro mensili di Prodi, e i "miseri" 6.600 di Sarkozy. Tanto più se si tiene conto degli estesi poteri e responsabilità del capo della Quinta repubblica, inclusa l´ultima parola sul caso estremo, la possibilità di poter usare almeno 370 bombe atomiche. Mal pagato risulta Vladimir Putin, con 4860 euro. E il più "sfruttato" è Hi Jintao, che guida il boom cinese: 274 euro, roba da precari part-time. Ma non dimentichiamo che, a Mosca per tradizioni ereditate dagli zar e dall´Urss e ancor più a Pechino dal socialismo reale, i numeri uno hanno tutto spesato, o quasi.
I dati di Bild non includono "fringe benefits", copertura delle spese di viaggio e lavoro, costi di protocollo (abiti, pranzi, eccetera). Una spiegazione dell´abisso tra le retribuzioni di Prodi e Sarkozy comunque c´è. Il premier italiano riceve «5.102 euro per la carica di presidente del Consiglio e 11.269 come deputato della Camera», precisa una nota di Palazzo Chigi, e «resta da verificare se le cifre messe a confronto sono tutte al lordo delle tasse». Mentre il presidente francese continua a riscuotere dopo l´elezione la pensione di ex ministro, ex sindaco, ex premier o ex quel che si è stato. Chirac, oltre ai 6600 euro da numero uno del paese guadagnava 5322 euro come ex deputato, 5000 come ex sindaco di Parigi, 2900 come ex consigliere della Corte dei Conti. Adesso oltre a queste pensioni riceve i 12mila euro mensili di membro del Consiglio costituzionale, carica che gli spetta quale ex presidente. Sarkozy è più giovane, ma è stato ministro dell´Interno e dell´Economia e poi sindaco di Neuilly, il comune più ricco di Francia. Sui fondi speciali dell´Eliseo - dai trentamila ai sessantamila euro annuali, più parte dei bilanci dei ministeri devolute alla Presidenza - le polemiche sono poi ricorrenti.

• NEW YORK - Che gli uomini siano promiscui per loro stessa natura è risaputo: ciò rientra in una strategia genetica specifica, sviluppatasi per far sì che gli uomini diffondessero in lungo e in largo i loro geni. Per le donne, che devono affrontare così tante avversità per dare alla luce un bambino e allevarlo, le cose vanno in maniera sostanzialmente diversa: la donna è programmata per avere un uomo solo, che le stia accanto e la aiuti ad allevare i loro figli. I sondaggi lo confermano: di studio in studio, di Paese in Paese, gli uomini riferiscono di avere molte, spesso moltissime partner sessuali più delle donne. Da un sondaggio, reso noto dal governo americano, risulta che gli uomini hanno una media di 7 partner femminili, contro una media di 4 partner maschili rivelata dalle donne. Alcuni ricercatori britannici hanno assodato da un altro studio da loro condotto che nell´arco della loro vita gli uomini hanno mediamente 12,7 partner eterosessuali, contro i 6,5 delle donne.
Un problema, però, esiste: i matematici affermano che è impossibile da un punto di vista scientifico che in una qualsiasi popolazione avente un numero uguale di uomini e donne eterosessuali il numero medio di partner degli uomini sia diverso dal numero medio di partner delle donne, anche se la media, intesa proprio come media matematica, può essere diversa dal valore mediano, il valore centrale di un determinato range. Le statistiche di norma riportano il valore mediano.
Tuttavia, i matematici dovrebbero correggere questi valori: lo ha detto David Gale, professore emerito di matematica all´Università della California. «Malgrado i sondaggi e gli studi affermino il contrario, la conclusione che gli uomini hanno molte più partner di quanti ne hanno le donne non è e non può essere esatta, per ragioni di mera logica». Il professor Gale ha altresì fornito una prova del fatto che il valore mediano di ciascun gruppo deve essere esattamente lo stesso. I ricercatori che si occupano di sondaggi sul sesso dicono di essere a conoscenza del fatto che le donne e gli uomini in una data popolazione devono avere un numero pressoché uguale di partner. Perché dunque gli uomini riferiscono un numero di partner superiore a quello delle donne?
Sevgi Aral, direttore scientifico al Centro statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha detto che vi sono molteplici spiegazioni. La prima è che gli uomini cercano le partner anche fuori dalla popolazione considerata, rivolgendosi per esempio alle prostitute, che non sono coinvolte nel sondaggio, oppure hanno rapporti sessuali quando viaggiano in altri Paesi. La seconda spiegazione possibile, ovviamente, è che gli uomini esagerano il numero delle loro partner, mentre le donne lo riducono.
La spiegazione di gran lunga più verosimile è che non ci si può fidare dei numeri. Ronald Graham, docente di matematica e informatica all´università della California a San Diego, concorda con Gale. Dopo tutto, in media gli uomini dovrebbero in pratica avere tre partner in più delle donne. «Forse c´è qualcosa di immaginario, in tutto ciò. Due donne potrebbero esistere solo nella fantasia di un uomo e una sola esistere davvero» ha detto Graham. Secondo Gale, quando si rendono noti dati di questo tipo si tende a «ribadire gli stereotipi in base ai quali gli uomini sono promiscui e le donne caste».
(Copyright New York Times-la Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)

• ROMA - L´acqua è poca, il petrolio anche e persino lo champagne scarseggia. D´accordo, non è un bene di prima necessità, però se c´è magra di bollicine il problema è sempre quello: risorse che si prosciugano in un mondo che consuma sempre di più. Non era prevedibile, prima neanche ci si pensava, lo champagne era un lusso per pochi, era la vita frizzante e briosa di chi se la poteva permettere. Adesso è diverso, una bottiglia di Laurent-Perrier o una Vedova nera si stappano con maggiore facilità, per pasteggiare o per l´aperitivo, non più solo il brindisi per un´occasione (davvero importante). E poi c´è che i francesi lo nascondono nelle cantine come una specie di liquidazione per il futuro, un Tfr per la pensione che arriverà. Le tengono al riparo dell´arsura, sottraendo al mercato decine di milioni di bottiglie. Quest´ultima è una tesi tutta inglese: la Gran Bretagna è il primo consumatore europeo di champagne, quasi 37milioni di bottiglie, quindi è chiaro che gli interessa se i vicini di casa le imboscano anziché venderle (a loro). Ieri sul Times tra le ragioni d´allarme c´era questa, i produttori non ce la fanno più a sostenere una domanda sempre crescente, oltre a quelli tradizionali si aggiungono mercati emergenti: Stati Uniti, Russia, Cina, India. Per Patrick Le Brun, rappresentante dell´unione dei produttori di Champagne, le bottiglie sono quelle che sono e «se insufficienti per tutti, si preferisce dirottarle sui paesi strategici». Frédéric Cumenal, presidente di Moët & Chandon, dice che la differenza sta nel fatto che prima «l´industria è sempre riuscita a far fronte alle richieste e invece oggi no, i raccolti sono al loro massimo e a breve si toccherà la fine». La crisi dello champagne è il suo stesso successo. Le vendite mondiali sono aumentate dai 287 milioni di bottiglie del 2001 ai 321 del 2006 (+4,6% sul 2005). Quest´anno si stima di arrivare a 330. Soprattutto perché crescono le esportazioni in paesi come Russia (+39%), Cina (50%), India (+125%). Gli esperti dicono che al massimo, spremendo fino all´ultima goccia gli acini, si possono ottenere 350 milioni di bottiglie. Molti dubitano che questo limite potrà essere rispettato. Il problema potrebbe essere risolto (per gli inglesi) cacciando fuori dalle cantine i circa 100 milioni di bottiglie nascoste. Di anno in anno, antica tradizione, i produttori avrebbero messo da parte circa il 10% per crearsi un gruzzolo per un futuro assetato. Forse è così. Di certo le bollicine piacciono. In Italia il doppio, perché oltre allo champagne (9,3 milioni di bottiglie con una crescita del 5,13%, quinto posto dell´export mondiale) abbiamo il nostro spumante "metodo classico" che ormai poco ha da invidiare Oltralpe. Mario Falcetti, enologo di Contadi Castaldi (Franciacorta), dice che «ormai siamo quasi a un pareggio: le bollicine italiane sono migliorate in qualità, la comunicazione e l´immagine sono più curate, tra i consumatori c´è maggiore consapevolezza, i ristoranti hanno carte più ragionate e anche il turismo gastronomico ha dato il suo contributo alla diffusione di una cultura. E poi una bottiglia di media qualità nostra costa il 20-30% in meno della francese». Forse è l´accessibilità, la sdrammatizzazione di un prodotto d´élite ad aver inciso di più: Florence Guyot, export manager per l´Italia dei migliori champagne, è da anni che punta su questo, «una fetta di culatello e un calice». Non è da refettorio, però è più simpatica la bollicina adesso e finché ce ne sarà.
• ROMA - Sull´aumento dei prezzi dei prodotti alimentari consumatori all´attacco e agricoltori in difesa. Pane, latte e tutte le lavorazioni che comportano l´uso di cereali costeranno di più dall´autunno. L´annuncio fatto da produttori, industriali del settore e distributori di un ritocco dei listini tra il 5% e il 20% ha messo sul piede di guerra le associazioni dei consumatori: «I pesanti rincari sono solo speculazioni che non trovano alcuna giustificazione e sono inaccettabili», afferma in una nota il Codacons promettendo «denunce a raffica» e chiedendo l´intervento dell´Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza. «Secondo l´ultimo rapporto Eurostat - rileva poi l´associazione dei consumatori - i prezzi degli alimentari in Italia sono già i più cari d´Europa: +15% in più rispetto alla media». Per Adusbef e Federconsumatori proprio alimentari e bevande faranno la parte del leone nel "salasso" da 602 euro che secondo loro si profila a settembre. In arrivo «un aumento di 25 euro per la luce; di 40 euro per la bolletta del gas; di 20 euro per l´acqua; di 20 euro per i servizi bancari e di 35 euro per l´Rc Auto. Inoltre si attendono aumenti medi di 45 euro per l´acquisto dei libri scolastici; di 22 euro delle tariffe ferroviarie; di 105 euro per il riscaldamento e di 155 euro per i generi alimentari e le bevande. Il tutto per un costo aggiuntivo medio per nucleo famigliare di 602 euro».
Sugli alimentari la causa dei nuovi prezzi starebbe nell´aumento delle materie prime: specie per i cereali che secondo i dati dell´Ismea nell´ultimo anno hanno corso moltissimo: +45-55% per diversi tipi di frumento, +49% per l´orzo, +25-35% per i vari tipi di grano e la farina di grano. Alla base dell´impennata dei costi delle coltivazioni sia questioni prettamente locali, come l´andamento dei raccolti italiani, sia fluttuazioni globali che influenzano i prezzi nelle borse delle materie prime e le importazioni dei singoli stati.
Ma proprio gli agricoltori italiani non accettano di finire sul banco degli imputati: «L´andamento dei prezzi agricoli non giustifica i pesanti rincari annunciati per pasta, pane e dolci - spiega in una nota la Coldiretti - rischiano di avere effetti negativi sui consumi domestici che sono già pesantemente calati dell´8,8% per il pane e del 5,4% per la pasta di semola nel primo trimestre del 2007, rispetto allo scorso anno, secondo i dati Ismea-Ac Nielsen».
La tesi degli agricoltori è che il prezzo della materia prima incide molto poco sul prodotto finale. La Cia porta ad esempio il latte: un litro alla stalla costa 0,34 euro, mentre al consumo arriva a 1,40 euro. «La parte agricola, dove i costi continuano a crescere, incide poco più del 20% sul prezzo finale - fa notare la Confederazione italiana degli agricoltori - ancora più appariscenti i casi della pasta e del pane, su cui prezzi finali la percentuale agricola è, rispettivamente, del 10% e del 13%». Per i produttori quindi i colpevoli vanno ricercati nelle filiere troppo lunghe che dal campo portano fin nei supermercati arricchendo intermediari e favorendo le speculazioni.
Accuse respinte dal mondo della distribuzione che invece fa notare come il contenimento dell´inflazione di questi mesi debba essere ascritto ad una maggior efficienza proprio degli intermediari.

• Gli azionisti di Abn Amro sono avviliti: nonostante abbia due corteggiatori (Barclays e il consorzio guidato da Rbs) venerdì per un po´ il titolo della banca olandese è sceso sotto l´offerta di entrambi. Il motivo in parte è tecnico: alcuni fondi specializzati in arbitraggi vendono azioni per reintegrare le garanzie dei depositi titoli, e quelle di Abn, liquide e con quotazioni che fanno realizzare buoni guadagni, sono tra le prime a essere cedute. Tuttavia c´è chi comincia a sospettare l´incongruità di pagare un alto sovrapprezzo per una banca di secondo rango. Il calo della quotazione rende la parte in contanti dell´offerta (66 miliardi e 25 miliardi di euro rispettivamente del consorzio e di Barclays) più generosa per Abn e difficile da giustificare per gli acquirenti. I 71 miliardi del consorzio sembrano particolarmente azzardati, perché la metà dovrà essere presa in prestito, almeno all´inizio, e fino a un accordo sulla spartizione parte del patrimonio di Abn resterà congelato. Per una banca di medie dimensioni come Fortis, infine, il momento non è propizio a un aumento di capitale da 13 miliardi, anche se fosse tutto sottoscritto da Merrill Lynch. Anche in tempi meno ostici un organo di vigilanza cauto esiterebbe prima di autorizzare un´offerta con tante insidie. Ciò spiega in parte il fatto che venerdì il titolo Abn abbia chiuso il 13% sotto il valore corrente della proposta del consorzio. Molto meno rischiosa l´offerta di Barclays, una semplice fusione che non indebolirebbe gli stati patrimoniali delle due banche perché la parte in contanti è già stata finanziata da nuovi investitori. Ma se la tempesta sui mercati s´intensificasse, anche Barclays potrebbe trovare un motivo per offrire di meno, o addirittura per squagliarsela.
Mike Verdin
• Apparse nel 1782. Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos possono essere lette, assieme alle Massime, caratteri aneddoti, di Chamfort, come la desolante conclusione della grande inchiesta sulla società francese avviata sessanta anni prima da Montesquieu con le Lettere persiane. Nel suo capolavoro giovanile, l´autore dello Spirito delle Leggi aveva tracciato l´identikit di una società frivola, galante, imprudente, teatrale, eppure «capace di coraggio, di generosità, di franchezza, di un certo senso dell´onore». Una società sostanzialmente libera, vitale e aperta al futuro. Ma già a partire dagli anni 1760, ancora in pieno trionfo dei Lumi, quest´arte aristocratica del vivere assieme, che aveva fatto di Parigi la capitale d´Europa, trovava in Rousseau un censore implacabile. Discepolo fedele di Jean-Jacques, Laclos ne riprendeva, un ventennio dopo, le imputazioni, giungendo a conclusioni ancora più radicali. Nel denunciare, nella Nouvelle Héloïse, l´artificio, l´impostura e la volontà di dominio del bel mondo parigino, Jean-Jacques proponeva come contro-modello l´utopia salvifica di Clarins, una comunità basata sulla virtù e la trasparenza dei cuori. Per Laclos, invece, l´élite nobiliare francese appariva troppo irrimediabilmente corrotta per potersi rigenerare dal suo interno: aveva bisogno di una riforma morale imposta dall´esterno, di una «rivoluzione» che doveva presto diventare realtà e di cui lo scrittore, con il sopraggiungere del 1789, non avrebbe esitato a farsi parte attiva.
Preoccupazione centrale dell´Età dei Lumi, la riflessione sulla società e sulla natura dei rapporti che ne costituivano il criterio di valore, trovava in effetti nei tre grandi romanzi di Montesquieu, di Rosseau e di Laclos la sua espressione più suggestiva. Né era casuale che la formula narrativa adottata dai tre scrittori fosse quella del romanzo epistolare «polifonico». Essa permetteva, lettera dopo lettera, di illustrare con immediatezza la varietà dei caratteri e la diversità dei punti di vista dei diversi corrispondenti e, al tempo stesso, di servirsene per ricostruire un contesto sociale più ampio. E consentiva ugualmente di inscrivere la riflessione morale, politica, filosofica dell´autore all´interno stesso della logica narrativa, facendone parte integrante dello scambio epistolare.
Laclos per primo sembra invitarci a una lettura in chiave sociologica del suo capolavoro, definendolo una «raccolta di lettere di una intera società». E non stupisce che una specialista di Baudelaire come Cinzia Bigliosi Franck abbia privilegiato questa prospettiva critica nel presentare la nuova edizione de Le relazioni pericolose da lei curata per la casa editrice Feltrinelli (pagg. 373, euro 9,00). Negli appunti preparatori di un saggio che intendeva scrivere sul romanzo di Laclos, il poeta dei Fiori del male, non faceva forse sua l´indicazione dell´autore e non vedeva in questa storia che «brucia come il ghiaccio», «un libro di vita di società», un «libro essenzialmente francese», un libro «terribile ma sotto la frivolezza e le convenienze»?
Proviamo dunque, partendo dalle osservazioni dalla Bigliosi e della sua nuova traduzione italiana, piacevolmente scorrevole malgrado la sua estrema aderenza al testo francese, a riprendere in mano questo romanzo spietatamente lucido e al tempo stesso sommamente ambiguo.
Il grande tema del libro è il libertinaggio, un male mortifero che avanza mascherato e mina dal suo interno una società quella del «bel mondo» aristocratico così «calcificata» da essere incapace di riconoscerne la presenza, rendendo pericolose anche le relazioni apparentemente più innocenti.
Eppure non era sempre stato così. Per tutto il Seicento «libertinaggio» era stato sinonimo di libero pensiero e anche quando nei primi decenni del Settecento, il termine aveva perso la sua connotazione filosofica, per indicare semplicemente coloro che perseguivano senza remore morali il piacere dei sensi, non aveva per questo assunto un significato necessariamente negativo. Nei romanzi di Crebillon, ambientati al tempo della Reggenza, il libertinaggio appariva già come lo sport preferito di una società oziosa e narcisistica, ma segnava anche una vittoria della «filosofia moderna» sugli ipocriti formalismi di un´ideologia dell´amore diventata obsoleta.
Sotto il segno dell´"amour-goût", uomini e donne stabilivano un nuovo patto di complicità ludica che consentiva loro di conciliare desiderio e rispetto delle forme e di riconoscere la legittimità del piacere sessuale in armonia con il pensiero naturalistico settecentesco. E´ quanto avrebbe, d´altronde, teorizzato qualche decennio dopo Diderot nel Sogno di d´Alembert. E non si può non riconoscere che, al di là della monotonia e della ripetitività delle tematiche e delle situazioni, una stessa esigenza di libertà, una stessa sfida ai divieti della chiesa e dello stato assoluto sembra accomunare la maggior parte della produzione letteraria erotico - libertino - pornografica del tempo, facendone una alleata preziosa dei Lumi nella lotta ad oltranza contro ogni principio d´autorità imposta dall´alto.
Ne Le relazioni pericolose, invece, il libertinaggio descritto da Laclos non obbedisce più a un´esigenza libertaria, non promuove più una moderna morale del piacere volta ad esaltare l´autonomia dell´individuo, è dichiaratamente al servizio di un progetto dispotico. Per Valmont come per la marchesa di Merteuil la posta in gioco non è tanto il godimento sessuale quanto l´esercizio incondizionato di una perversa volontà di dominio.
Ricordiamo brevemente la trama. Per vendicarsi del conte di Gercourt, un bellimbusto alla moda che l´ha tradita, la marchesa di Merteuil chiede aiuto al cavaliere di Valmont con cui intrattiene, dopo esserne stata l´amante, una amicizia complice. Valmont dovrà fare di Gercourt «lo zimbello di Parigi», seducendone la giovane fidanzata, l´ingenua e inesperta Cécile, ed educarla o, per meglio dire, depravarla sessualmente, mandandola all´altare già gravida. Il cavaliere si cimenterà, oltre che in questo, nella ben più difficile conquista della angelica presidentessa di Tourvel con l´impegno di sacrificarla alla marchesa dopo averne ottenuto la capitolazione. A rendere questo progetto possibile non è solo la diabolica astuzia dei due libertini ma la loro perfetta padronanza di un codice di comportamento mondano che consente loro di ordire impunemente i loro intrighi criminali sotto gli occhi di una società fatua, dimentica dei suoi valori e attenta soltanto alle forme. Se la verità finirà per emergere è esclusivamente perché la Merteuil e Valmont, rotto il patto che li univa, sono passati a farsi una guerra all´ultimo sangue, perdendo così il controllo del gioco. La lezione che ne ricaveranno quanti se ne erano lasciati ingannare non lascia adito alla benché minima speranza di rigenerazione. «La nostra ragione» si limiterà a dichiarare l´improvvida madre di Cécile, «già così insufficiente a prevenire le nostre sventure, lo è ancora di più a consolarcene».
Il primo grande colpo di genio di Laclos è quello di rinnovare lo schema abituale della narrativa libertina mettendo in scena, al posto di un solo protagonista, una coppia. Un uomo e una donna, uniti dallo stesso nichilismo feroce, che incarnano la personificazione maschile e femminile del libertinaggio e mostrano come non ci sia pacificazione possibile ma solo accordi provvisori nella guerra tradizionale tra i sessi. Inutile chiedersi chi dei due risulti il più forte: credendosi entrambi padroni del proprio destino e accecati da questa illusione, ambedue finiranno per essere vittime di un delirio di onnipotenza che li porterà all´autodistruzione.
Vi è certamente la tendenza a vedere in Valmont una vittima della Merteuil. Succube della marchesa il cavaliere le sacrificherebbe la passione che ha saputo ispirargli Madame de Tourvel, provocando così la follia e la morte della donna amata e precludendo a se stesso la possibilità di essere felice nella pienezza della vita affettiva.
Questa interpretazione, tuttavia, come ha mostrato Pierre Hartmann in uno studio importante (Le contrat et la séduction. Essai sur la subjectivitè amoureuse dans le roman des Lumières, París. Champion, 1998) fa torto alla lucidità di Valmont e inficia la coerenza di un personaggio che Laclos ha eretto a simbolo di quell´ordine sociale obsoleto e corrotto di cui i Lumi non erano ancora riusciti ad avere ragione. Il cavaliere è una figura del passato, un eroe decaduto di Corneille, un superuomo narcisista che si possiede saldamente e basta a se stesso. In accordo con la morale della sua casta egli cerca «la gloria» non più, come ai tempi d´oro della nobiltà, sui campi di battaglia ma nel libertinaggio. E poiché la gloria è direttamente proporzionale alla difficoltà dell´ostacolo con cui misurarsi, la conquista di Madame de Tourvel gli appare doppiamente meritoria. Essa, infatti, deve fare i conti con un ostacolo esterno, la virtù della vittima prescelta, e uno interno, il sentimento inatteso che ha messo radice nel suo cuore. Perché Valmont avverte chiaramente che l´amore che prova per la Tourvel, l´amore autentico di cui fa per la prima volta esperienza è una relazione tra persone, un´apertura all´altro incompatibile con l´ideologia libertina di cui egli si vuole l´interprete supremo. Per salvare l´integrità del suo io minacciato, il cavaliere mette a punto una strategia implacabile di cui è pronto a pagare il prezzo. Dopo aver trionfato sui «pregiudizi» della sua vittima e averla indotta a darsi liberamente a lui per amore, le spezzerà il cuore con un congedo umiliante. Come lui stesso lucidamente dichiara «degradata dalla sua caduta, ella ritornerà così ad essere per lui una donna qualunque», consentendogli di trionfare definitivamente su se stesso. Un trionfo irreparabile di cui il cavaliere non sarà in grado controllare le tragiche conseguenze.
E´ precisamente per evitare la sorte in cui è incorsa madame de Tourvel, per non soggiacere alla iniqua condizione di sudditanza imposta alle donne dalla società patriarcale, che Madame de Merteuil ha imparato fin da giovanissima l´arte della dissimulazione. E´ per essere libera e «vendicare il suo sesso» che ella ha optato per il libertinaggio e ne ha fatto la sua scelta di vita.
L´attenzione che Laclos ha dimostrato in vari suoi scritti per i problemi legati alla condizione femminile potrebbero indurre a credere come propongono i women´ s studies - che a differenza di quella del tutto sterile di Valmont, la sfida libertina della Merteuil guardi al futuro. Ma è davvero così? La depravazione morale della marchesa, la sua stessa spietatezza non dipendono anche dal fatto che la sua è una rivolta solitaria e pur sempre servile? Solitaria perché lo sforzo di volontà che ella ha compiuto su se stessa per forgiare la sua corazza impenetrabile ignora la pietà e si basa sull´inganno. Servile perché per dominare gli uomini ella ha scelto di imitarne il comportamento, adottando in tutto e per tutto il modello del libertinaggio maschile, trovandosi così ad agire in una posizione di netto svantaggio. Se il libertino è un personaggio sociale perfettamente integrato nella vita di società e le sue conquiste sono fonte di prestigio mondano, la libertina, al contrario, è oggetto generale di biasimo: una donna perduta davanti a cui si chiudono tutte le porte.
In realtà è un sentimento tipicamente femminile, la gelosia per un´altra donna, a perdere Madame de Merteuil inducendola a vendicarsi di Valmont, ma lo smascheramento finale della sua impostura non farà che confermare la ragione della sua rivolta. Saranno solo le sue lettere, e non quelle di Valmont, a venire divulgate, sarà solo lei, resa ancora più criminale per essersi ribellata alle leggi del suo sesso, a fungere da capro espiatorio di una società ipocrita che non sa di avere le ore contate.

• Per Angelo Maria Ripellino, insigne slavista e critico letterario dallo stile elaborato e inconfondibile, la poesia era sempre stata una sorta di pratica quotidiana, una frequentazione ineludibile, se non addirittura una maniera - distaccata e partecipe - di osservare il mondo. O meglio: una maniera di trasfigurarlo e trascenderlo, fino a costruirne uno alternativo, fatto di montaggi di frammenti di quadri e di nascoste citazioni letterarie, di spezzoni di messinscene teatrali, con colonna sonora tratta da Mahler o Janáèek Aveva cominciato a scrivere versi fin dagli anni dell´Università, Ripellino, pubblicandoli anche saltuariamente su giornali e riviste, versi oggi quasi illeggibili ma che ci vengono - per completezza documentaria - riproposti nel volume Poesie prime e ultime (a cura di Federico Lenzi e Antonio Pane, presentazione di Claudio Vela, introduzione di Alessandro Fo, Aragno, pagg. 526, euro 30), insieme alle due belle raccolte d´esordio - Non un giorno ma adesso (1960) e La fortezza d´Alvernia (1967) - e all´ultima, Autunnale barocco (1978), appunto seguita dall´ampia mole degli inediti rinvenuti nei cassetti, da altre poesie apparse solo in rivista, e persino da abbozzi irrisolti degli ultimi mesi di vita. La fama dello studioso - sommata a una sua certa riservatezza - aveva a lungo messo in ombra la produzione poetica che si stava negli anni del dopoguerra accumulando nei cassetti, trovando raro sfogo sulle pagine della Fiera letteraria a cui Ripellino collaborava. Se a questo si aggiunge il costante ostracismo di Italo Calvino, allora consulente della Einaudi, nei confronti della scrittura ripelliniana, così lontana dai suoi orientamenti di quegli anni, diventa chiaro perché - dopo il primo volume, quasi fatto in casa, voluto e illustrato dall´amico Achille Perilli, che lo doterà anche di una splendida copertina - La fortezza d´Alvernia approderà non alla Einaudi - dove Ripellino in quegli anni sta pubblicando, tra l´altro, i suoi splendidi saggi su Majakovskij e sui maestri della regia russa, oltre alla traduzione di Una notte con Amleto di Vladimir Holan - bensì alla Rizzoli. Un misconoscimento che rimarrà sempre, per lui, ragione di rammarico, forse in parte lenito - nell´aprile del ”69, a otto mesi dall´occupazione sovietica - dalla recitazione dei propri versi a Praga, al cabaret Viola, lì dove cinque anni prima aveva ascoltato proprio l´holaniana Notte con Amleto. Sarà l´ultima visita a Praga prima dell´interdetto definitivo da parte delle autorità. Del tutto anomala nel panorama italiano di quegli anni di "imperante realismo", la poesia di Ripellino - cresciuta nel culto della metafora che era del cubofuturismo russo e del poetismo ceco anni Venti (V. Nezval) - si diverte a operare un´ininterrotta trascrizione metaforica della realtà, una gaia ricostruzione dell´universo, per cui la donna è «un cruciverba di nastri e specchietti / una trappola d´ossa, / un castello di vertebre scricchianti», o anche «una snella tromba avviluppata / di fragili asparagi biondi», il cielo è «pozzanghera di stelle», mentre - negli interni delle case - «come scimmie pendono dai cieli / intere famiglie di lampadari». Oppure nei versi irrompono frammenti di testi altrui e citazioni e rimandi («siamo a Kalda, all´estrema stazione del mondo»), che aprono sulla pagina inaspettate prospettive di fuga, come in alcuni collage del boemo Jiri Kolar. Di tutta questa straboccante vivacità d´immagini, e soprattutto del lavorio costruttivo che costituisce la sostanza e la fascinazione di quei versi, poco troviamo nelle pagine di commento al volume. Ritorna ancora il trito luogo comune del clown, fastidiosi leziosismi che definiscono Ripellino "l´esausto saltimbanco", e poi sempre quest´idea fissa della morte come banalizzante cliché interpretativo, per cui riferendocisi al 1965 - quando ancora mancano 13 anni alla prematura scomparsa dello scrittore - veniamo già lugubremente avvertiti che «il tempo sta per scadere. [...] Ripellino è al suo inverno». Niente di più lontano, però, questa visione del poeta sempre sull´orlo della fine, dall´immagine reale di chi l´aveva conosciuto da vicino. E dai suoi versi. Come già nell´antologia einaudiana del ”90, la sua poesia, sfavillante e giocosa, viene qui ridotta a una sorta di grigio sillabario in cui si riesce solo a inventariare il vuoto ritorno di bottiglie, scarpe, candele, teatri, circhi, di treni e animali («anche in Autunnale barocco non mancano gli animali, dalle volpi al cane, ma in gran numero primeggiano i gatti»), e poi «temi come la domenica, il mattino, la pioggia», e «l´attenzione e l´amore per i propri familiari». Ben poco attraente richiamo - agli occhi del lettore - per una poesia che invece, già nel "Congedo" alla Fortezza d´Alvernia, aveva voluto stabilire con lui un patto affinché nei versi godesse (e ricercasse) l´intrusione proprio dell´artificiale, del gioco. Magari anche lì dove (casualmente) non c´era.
• Almeno un merito ce l’ha, la violenta invettiva di Francesco Caruso della settimana scorsa contro Marco Biagi e Tiziano Treu, con la sua coda di commenti favorevoli provenienti dal «popolo della sinistra radicale» e pubblicati dal quotidiano di Rifondazione Comunista: il merito di costringere il centrosinistra a uscire dall’equivoco riguardo al contenuto e agli effetti delle leggi, rispettivamente del 2003 e del 1997, che portano i nomi dei due giuslavoristi. La convinzione, diffusa a sinistra, che la legge Biagi sia responsabile del precariato in Italia è documentata anche da un libro pubblicato a maggio dal notissimo attore comico Beppe Grillo – Schiavi moderni ”, che si apre con queste parole: «La legge Biagi ha introdotto in Italia il precariato. (...) Ha trasformato il lavoro in progetti a tempo. La paga in elemosina. (...) Tutto è diventato progetto per poter applicare la legge Biagi e creare i nuovi schiavi moderni ». La cosa interessante è che questo libro raccoglie centinaia di testimonianze e proteste contro il lavoro precario, delle quali non una sola è imputabile a una situazione generata dalla legge Biagi (sfido Beppe Grillo a un confronto pubblico su questo punto)! E nelle pagine finali, dedicate all’analisi della legge, lo stesso Grillo non riesce a indicare una sola norma in essa contenuta che abbia allargato le maglie del lavoro precario. , del resto, ormai pacifico tra tutti gli studiosi, di destra e di sinistra, 1) che i rapporti di collaborazione autonoma continuativa a cui Grillo – come Caruso – si riferisce sono riconosciuti dalla legge italiana fin dal 1959 e hanno avuto una crescente diffusione negli ultimi trent’anni del secolo scorso; 2) che la legge Biagi ha, semmai, introdotto una disciplina restrittiva di quei rapporti (di cui si è avvalso proprio il governo di centrosinistra per dare un giro di vite contro il lavoro precario nei call center); 3) che dall’entrata in vigore della legge Biagi quei rapporti, lungi dall’aumentare, hanno preso a ridursi; 4) che neppure la quota dei contratti di lavoro a termine sul totale del lavoro dipendente ha segnato dal 2000 al 2006 un apprezzabile aumento. Ora, Beppe Grillo non può ignorare come sulla medesima falsità che apre il suo libro – e che il seguito del suo libro stesso rende evidente – sia stata costruita nel recente passato una campagna di odio politico forsennato, che ha portato all’uccisione di una persona. Ciononostante nel suo sito Internet alcune settimane fa egli si è permesso di rincarare la dose dileggiando quella stessa persona, insieme a un’altra vittima del terrorismo, con una «versione satirica » del Corriere contenente il trafiletto che segue. Titolo: «Biagi come mio marito Calabresi: un martire»; testo: «Gemma Capra non ha dubbi: "Bisogna smettere di insultare i servitori dello Stato". Altrimenti il rischio è che si ripeta quanto accaduto a suo marito Luigi Calabresi, ucciso solo per aver fatto prendere una boccata d’aria al ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, o a Marco Biagi, ammazzato soltanto per aver aiutato gli imprenditori a sfruttare meglio i lavoratori». Tutti coloro che si chiedono perché in Italia – unico Paese dell’Occidente industrializzato – il mestiere del giuslavorista sia così pericoloso, e il dibattito sulle politiche del lavoro resti tuttora inquinato dalla violenza terroristica, sono serviti. Se un parlamentare e un attore comico popolarissimo sono capaci di indicare, pur senza alcun fondamento, nel giuslavorista assassinato il responsabile dei mali peggiori del mondo del lavoro, perché mai non dovrebbe trovarsi in giro una testa calda capace di sparare di nuovo contro un bersaglio simile? In questi anni non solo la sinistra, ma pure la destra ha ritenuto di presentare la legge Biagi come «la grande liberalizzazione» del mercato del lavoro. In realtà non lo era affatto; ma se i due schieramenti politici tra loro nemici erano d’accordo almeno su questo punto, perché mai 57 milioni di italiani non avrebbero dovuto crederci? Sul Corriere di ieri il segretario di Rifondazione Comunista richiama le altre forze del centrosinistra a farsi interpreti di questo sentimento diffuso, nel «popolo di sinistra» e nel movimento sindacale, contro la legge Biagi; non si rende conto l’onorevole Giordano che questo sentimento diffuso è stato generato proprio dalla faziosità bipartisan delle forze politiche? Che il Prc sia in grave difficoltà su questo terreno si comprende facilmente. Qualche contenuto incisivo di liberalizzazione del mercato del lavoro, assai più della legge Biagi, lo ha portato la legge Treu del 1997, che ha abolito il monopolio statale dei servizi di collocamento e ha introdotto le agenzie per la fornitura del lavoro temporaneo. Francesco Caruso lo ha capito; e ora, accomunando Treu a Biagi nel suo violentissimo attacco, egli ha inteso forzare il Prc ad assumere una posizione incompatibile con la sua appartenenza alla maggioranza. Assai più che con l’odiatissima Biagi, secondo logica, il Prc dovrebbe prendersela con la legge Treu; ma esso avrebbe grosse difficoltà a farlo, perché quella legge, frutto di accordi tra governo e sindacati firmati anche dalla Cgil, fu approvata nel 1997 da una maggioranza di centrosinistra di cui lo stesso Prc faceva parte. Per questo l’esternazione di Caruso non potrà essere archiviata in fretta, come l’infortunio estivo di un deputato estremista irresponsabile: essa è una lucida provocazione mirata a costringere i dirigenti del Prc ad ammettere di aver votato nel 1997 una «legge Biagi» ante litteram e a chiedere anche di quella l’abrogazione o il «superamento». Ci sarebbe un solo modo serio in cui la maggioranza potrebbe uscire dell’impasse in cui l’ha costretta Caruso: che tutte le sue componenti accettassero di azzerare giudizi e pregiudizi politici, per discutere serenamente la questione dei veri effetti di quelle due leggi, sulla base dei dati disponibili, con l’aiuto di chi li sa leggere. Sarebbe un bagno di pragmatismo salutare per la nostra politica e per il nostro Paese; ma a chiederlo si rischia di essere presi per visionari.
• Per i gagè che si fermano al semaforo, sono poco più che macchie grigie. Si avvicinano a volte zoppicando, con bimbi minuscoli aggrappati al collo, e tendono la mano, bussano al finestrino. Il primo istinto è chiudere la sicura, poi magari qualcuno abbassa il vetro quel poco che basta, lascia cadere una monetina e scappa via. Carità e ripulsa si confondono quando si ha a che fare con gli «zingari», un nome che è già un’offesa, dal greco athinganos,
intoccabili, come venivano chiamati gli eretici di un’oscura e antica setta.
I gagè siamo invece noi, i «non-rom», come veniamo chiamati nella babelica lingua romanès. Gente strana, ai loro occhi, gente di cui avere paura. «Sembrerà strano – racconta Paolo Cioni, coordinatore della Comunità di Sant’Egidio per i campi nomadi – ma quando le mamme vogliono farsi ubbidire dai propri figli dicono: se non fai il bravo ti faccio rapire dai gagè
».
IL MONDO ROM ”In Italia sono oltre 160 mila, suddivisi in rom e sinti. Una buona parte di loro è perfettamente calata nella realtà sociale. Anzi, quasi la metà, 70 mila, sono a tutti gli effetti italiani, discendenti delle prime comunità stabilitesi a partire dal 1400 in Abruzzo, Molise, Campania e Puglia. Invece i gruppi di recente immigrazione provengono soprattutto dall’ex Jugoslavia e dalla Romania. E anche tra questi ci sono molte differenze. I più fortunati hanno una casa e un lavoro, gli altri per lo più si stabiliscono nei 240 campi ufficiali (almeno altri cento quelli non censiti) dove, tra incomprensioni, frequenti sgomberi e scontri con le forze dell’ordine, si fanno strada anche tentativi di confronto e integrazione. Qui vivono anche molti dei romeni che fin dal 2001 sono entrati in Europa dalla porta principale, dal momento che fin d’allora non c’era bisogno di visto. Gli altri, quelli che non trovano posto nelle roulotte e nei prefabbricati di gesso, si rifugiano in baracche di lamiera e sotto i ponti, condannati ad ogni tipo di stenti. «Partono dalla Romania – spiegano i volontari – perché lì muoiono di fame. Arrivano in Italia senza un soldo in tasca, e non trovano spazio nei campi nomadi. Si costruiscono allora baracche con lamiere e pezzi di plastica, e vivono così, come possono». In queste condizioni sopravvivere diventa un gioco d’azzardo, non a caso l’aspettativa di vita è da Terzo mondo, 55 anni, un dato angosciante che cozza con il tasso di crescita, dal 3 al 5 per cento. Ogni nucleo familiare ha cinque, sei figli almeno. «I figli sono il nostro orgoglio », spiega Alessio Santino Spinelli, rom italiano musicista e studioso della cultura romanì. «Ogni nuova nascita è un momento di grande felicità, festeggiato in modo solenne».
RELIGIONI E USANZE – In ossequio ad un’atavica tradizione legata soprattutto a motivi religiosi (il sesso al di fuori del matrimonio è condannato severamente), si sposano giovanissimi, a partire dai 15 anni. Anche se generalmente vanno scomparendo i matrimoni combinati, resiste ancora in alcune comunità l’usanza della dote che il marito è tenuto a pagare e che la moglie deve «risarcire» nel corso degli anni col lavoro o nella peggiore delle ipotesi chiedendo l’elemosina.
Circa il 75% è di religione cattolica, il 20% di religione musulmana e il 5% raggruppa ortodossi, testimoni di Geova e pentecostali. Il Natale è occasione per gli zingari di mezza Europa di grande convivialità: si fa il pane in casa e si preparano dolci da consumare tutti insieme. Una delle consuetudini che resiste ancora consiste nel cuocere allo spiedo una pecora intera, dopo averla riempita di patate al rosmarino, spennellata di birra durante la cottura, che generalmente avviene su un grande letto di braci ardenti. Qualcuno, seguendo una tradizione che altrove va scomparendo, uccide un agnello in segno di gratitudine e di buon augurio, ad esempio quando un bambino guarisce da una malattia. Genitori e parenti stretti del piccolo si toccano la fronte con le dita intinte nel sangue dell’animale e distribuiscono a tutti la carne cruda a pezzi, che ognuno provvederà a cuocere e consumare, in segno di ringraziamento per il felice evento. La tradizione è di origine musulmana, ma è diventata pratica comune a molti gruppi.
LAVORO SOTTO FALSA ETNIA – In un rapporto del Consiglio d’Europa del 2005, si legge che «anche in Italia gli zingari sono largamente discriminati ». Anzi, si può dire che sia proprio la discriminazione a causare povertà ed emarginazione. «Gli zingari rubano, sfruttano donne e figli, rapiscono e vendono bambini». Quanto false siano queste arcaiche leggende, e quanto siano allo stesso tempo radicate nell’immaginario comune, lo si è scoperto sulla spiaggia di Palermo, due settimane fa, quando una donna romena venne arrestata solo perché la sua gonna variopinta aveva attratto l’attenzione di un ragazzino. Ma come si lega il razzismo alle difficoltà economiche? « difficile che qualcuno assuma un muratore o un operaio che si qualifichi come rom». Daniela Pompei lavora nei campi assistiti dalla Comunità di Sant’Egidio. «Negano di essere zingari, ed è l’unico modo per ottenere il lavoro. Molti di loro trovano impiego come badanti o giardinieri, a contatto con persone che se conoscessero la loro origine li terrebbero ben lontani dai propri beni o i propri figli».

• Sempre sposata, con un figlio di tre anni, e 14 cani, 24 gatti, 2 asini, 200 piccioni, tre galline e 4 caprette? «Sono diventate 7». (Maria Vittoria Brambilla a Fabrizio Roncone)
• Soldi in cambio del suo bambino appena nato. A lei che è una ragazza madre può convenire, ragionavano i trafficantes de niños. Invece si sono sentiti rispondere un secco «no grazie». Dopo qualche giorno un’auto con i vetri oscurati si è avvicinata alla donna e un losco individuo le ha scippato il fagottino. In cambio poche, crudeli, parole: «Non l’hai voluto vendere, ce lo prendiamo da soli senza darti neanche un soldo». Scene di ordinaria tragedia in Guatemala. Documentate da Casa Alianza, Ong statunitense che da anni combatte la violenza contro l’infanzia in quello che risulta il primo Paese al mondo per adozioni pro capite (4.496 registrate nel 2006 su 15 milioni di abitanti) e secondo in assoluto dopo la Cina per quelle destinate agli americani. Così quando la polizia guatemalteca sabato scorso ha fatto irruzione in un nido clandestino ad Antigua ha pensato subito a bambini trafficati, rubati. Gli agenti si sono trovati davanti a 46 piccoli: molti di loro neonati, i più grandi di appena due anni. Dubbia la loro provenienza: i «documenti sono lacunosi – ha riferito il procuratore generale Mario Gordillo – bisognerà indagare se sono stati rubati ai loro genitori biologici o se le madri sono state obbligate a darli in adozione». L’asilo si chiama «Casa Quivira», un ente che si occupa di adozioni con sede a Deland, in Florida, non autorizzato a operare in Guatemala. Fa capo a un americano, Clifford Phillips, e alla moglie guatemalteca, Sandra Gonzalez, ha comunicato il portavoce della polizia di Antigua. Subito sono scattati due arresti: in manette sono finite due avvocatesse che trattavano le adozioni, Vilma Desiré Zamora, 34 anni, e Sandra Patricia Leonardo Lopez, 42. «In Guatemala sono gli stessi avvocati a reclutare i bambini: le adozioni internazionali si fanno per via notarile. C’è una mafia di notai e avvocati a capo di una rete molto articolata che si arricchisce così» racconta la regista Tiziana Gagnor, 47 anni, reduce dal Guatemala dove ha diretto Bebé discount, todo legal, documentario che avrà la voce di Luis Sepúlveda. Una rete articolata a più livelli, che vede protagoniste le donne: «Al gradino più basso ci sono le jaladoras, i persuasori, che fanno pressioni sulle madri in difficoltà per convincerle a vendere i loro bambini. Alcuni si limitano a fare da "sentinelle", come medici e infermieri negli ospedali, che, sempre dietro compensi, segnalano quando ci sono bambini adottabili. Poi ci sono le intermediarias, figure che fanno da ponte tra le jaladoras e gli avvocati. Infine le cuidadoras, le badanti, un tempo responsabili delle casas de engorde, case di ingrassaggio LA REGISTA Tiziana Gagnor, regista di Bebé discount, todo legal sul business delle adozioni in Guatemala: «I trafficanti di bambini formano una rete che coinvolge anche le famiglie» che rimettevano in sesto i bambini prima di darli in adozione ». Una realtà in via d’estinzione. «La nuova tendenza è quella di parcheggiare i piccoli in famiglie normali, dietro compenso» racconta Gagnor. Così si passa inosservati, non si insospettiscono i vicini. Come è accaduto all’asilo di Antigua: gli agenti sono intervenuti su segnalazione dei dirimpettai che ogni giorno vedevano stranieri portare via bambini. Le jaladoras cercano di convincere le madri a vendere il proprio bimbo Il 95% di chi adotta in Guatemala è americano. « da anni che le organizzazioni per i diritti umani denunciano questa situazione ed è sconcertante che queste coppie americane non si facciano scrupoli: vanno su Internet, scelgono i bambini guardando le foto e poi prenotano quelli che più gli aggradano come se stessero scegliendo un resort per le vacanze». Nel documentario si vede uno dei grandi alberghi in cui soggiornano le famiglie adottive: l’obiettivo si ferma nelle hall affollate da americane extralarge con in braccio neonati o poco più. Del resto lì si risparmia tempo e danaro: in un anno con poco più di 12 mila euro si può portare a casa un bambino (contro i 30 mila necessari in media per un’adozione internazionale). E, come sempre, è la crescente domanda ad alimentare il business, stimato intorno ai 150 milioni di euro l’anno. L’Onu ha lanciato l’allarme più volte. Casa Alianza con altre Ong ha portato casi emblematici di fronte alla Corte interamericana dei diritti umani. La primera dama, Wendy de Berger, moglie del presidente Berger, ha ammesso che è dura scardinare questa organizzazione mafiosa. Tanto più che manca una vera e propria legge sull’adozione. E la Convenzione dell’Aja ratificata dal Guatemala all’inizio dell’anno non è ancora entrata in vigore, bloccata guarda caso da un gruppo di notai che l’ha dichiarata incostituzionale. Tra la gente serpeggia rabbia, rassegnazione e una sorta di psicosi: si vedono ladri di bambini ovunque. «Se un turista si avvicina a un bambino si rischia il linciaggio» conferma Gagnor. Ma il sistema fa guadagnare molte persone, che si assolvono così: «Aiutiamo questi bambini a trovare qualcosa di meglio, non facciamo niente di male». PRESSIONI

LA STAMPA, VENERDì 17/8/2007
ALESSANDRO BARBERA
C’è chi le ha ribattezzate le «tre sorelle», i giudici supremi del mercato, le regine del «merito di credito». Non c’è titolo, obbligazione, banca o Paese che possa eludere il severo giudizio di Standard and Poor’s, Fitch e Moody’s. Nella finanza un loro AAA (il massimo) o junk (spazzatura) sono come una sentenza di vita o di morte. Come era già accaduto nei crac Enron e Parmalat, nel mirino ora ci sono loro. Puntano il dito le associazioni dei consumatori, il presidente francese Nicolas Sarkozy e la Commissione Europea. Bruxelles accusa le agenzie di aver contribuito alla valanga dei mutui subprime americani. La portavoce del Commissario al Mercato interno Charlie McCreevy dice che si sono mostrate «lente nel reagire ai segnali di deterioramento dei mercati già dalla metà del 2006». Alla Commissione sospettano che i giudizi di alcuni strumenti cartolarizzati - ovvero mutui innestati in altri titoli - siano stati mantenuti alti a dispetto del rischio. L’italiana Adusbef aveva lanciato l’allarme il 4 agosto. Oggi Elio Lannutti definisce quelli delle agenzie giudizi «allegri», alla «camomilla». Il Codacons ha presentato un esposto agli uffici Antitrust della Commissione europea e un altro alla Consob. Lo Iosco - l’organizzazione internazionale che riunisce le autorità di vigilanza sui mercati - sta già preparando una revisione del codice di condotta riscritto dopo il caso Enron.
In dubbio non c’è solo la capacità di rivedere rapidamente una AA+ o una B, ma la trasparenza dei comportamenti. Le grandi banche americane, al momento di mettere sul mercato un pacchetto di mutui subprime (tecnicamente «cartolarizzarli») si rivolgono alle «tre sorelle» per il rating. S&P ha circa il 40% del mercato, Moody’s poco di meno (il 39%), Fitch il 16%. Più il giudizio è alto, più è garantita la loro solvibilità. Per il servizio le agenzie ricevono un lauto compenso. Secondo il Wall Street Journal fino al doppio delle valutazioni di altri strumenti finanziari. Per il Wsj fra il 2002 e il 2006 la sola Moody’s ci ha guadagnato qualcosa come tre miliardi di dollari. «Il mercato immobiliare si è mostrato più debole di quanto atteso da molti», si difende Warren Kornfeld della divisione immobiliare. Negli Stati Uniti indaga il procuratore generale dell’Ohio Marc Dann. L’investigatore parla di «rapporti simbiotici» fra le agenzie, le banche e le società esperte nell’emissione di strumenti derivati sui subprime.
Gli operatori di borsa ricordano che il giudizio dell’agenzia di rating non è il solo modo per verificare la bontà di uno strumento derivato. «Però da loro dipende comunque il successo di un’emissione o dell’andamento di un titolo», spiega l’asset manager di una banca svizzera. «E talvolta sbagliano». Secondo un monitoraggio di Adusbef su mille rapporti sarebbe accaduto nove volte su dieci. Ieri negli Stati Uniti è esploso il caso di Countrywide Financial, la più grande delle società che erogano mutui. Una famiglia americana sui sei si affida a loro. I vertici hanno deciso di chiedere ad un gruppo di 40 banche una linea di credito da undici miliardi e mezzo di dollari. Il giorno di Ferragosto la banca d’affari Merrill Lynch aveva deciso di tagliare il suo giudizio da «buy» (comprare) a «sell» (vendere). In sostanza vedevano la bancarotta all’orizzonte. A due settimane dall’inizio della crisi, è arrivato il taglio delle agenzie. oody’s e Fitch hanno rivisto il giudizio rispettivamente da «A3» a «Baa3» e da «A+» a «BBB+». Un gradino sotto a «junk», spazzatura. Standard & Poor’s ha ridotto il cosiddetto «debito di controparte» da A ad A-. Le agenzie si difendono spiegando che da loro, come in qualunque istituzione, ci sono dei tempi da rispettare. Per rivedere un rating occorre aprire un dossier, discuterlo, dopodiché si può deliberare. In alcuni casi però la frittata è fatta. E ieri sera, intanto, la notizia che la Fitch potrebbe tagliare il rating su 58 titoli garantiti da prestiti ipotecari per un totale di 12,1 miliardi di dollari a causa della scarsa solvibiltà. Trentacinque transazioni risalgono al 2005, 22 al 2006 e una è di quest’anno.


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LA REPUBBLICA,VENERD 17/08/2007
FEDERICO RAMPINI
LA CATENA DELLE COLPE. Il crac dei mutui insolventi ancora poche settimane fa veniva descritto dai finti ingenui come una crisi prevalentemente americana. Oggi invece ne siamo coinvolti, come era inevitabile. Anche i risparmiatori europei e asiatici sono impoveriti, il panico finanziario contagia tutti i continenti e tutti i mercati. Per l´effetto dei vasi comunicanti vanno a picco anche titoli d´investimento considerati sicuri.
L´agenzia di rating Moody´s accenna per la prima volta all´imminente fallimento di un «importante» hedge fund, molto più grosso di quelli caduti finora. Un evento che secondo Moody´s provocherebbe danni simili al crac del fondo Ltcm nel 1998, quando il mondo intero fu sull´orlo di un crollo finanziario generalizzato. Il meccanismo di propagazione globale della crisi è implacabile. Gli hedge fund che non riescono a rimborsare i sottoscrittori, le banche che hanno buchi di bilancio per avere investito nei mutui insolventi, gli operatori finanziari che hanno in tasca titoli-spazzatura, tutti hanno urgente bisogno di procurarsi liquidità e perciò si disfano di quel che possono. Così l´ondata di vendite si è allargata dagli strumenti derivati fino alle obbligazioni e alle azioni, con una caduta generalizzata dei valori di quasi tutte le categorie di titoli (con l´eccezione dei buoni del Tesoro). In questa fuga verso titoli di qualità - merce sempre più rara - si sta prosciugando anche il mercato dei cosiddetti «commercial paper», quelle cambiali negoziabili a breve scadenza che sono indispensabili per finanziare l´attività quotidiana delle imprese. Il panico finanziario si trasmette all´economia reale che già si trova in un frangente difficile: la crescita in Europa ha appena avuto una imprevista frenata; in America la pesante svalutazione dei prezzi delle case costringerà molte famiglie a sacrificare i consumi; perfino il boom cinese dà segnali di rallentamento.
In questo preludio di catastrofe è scattata la caccia al colpevole. La Commissione europea apre un´indagine sulle agenzie di rating come Moody´s e Standard & Poor´s. Finalmente finiscono sul banco degli imputati questi arbitri dei mercati che hanno tradito la loro funzione. Le agenzie hanno il compito di valutare la solvibilità dei debitori e quindi il livello di sicurezza dei titoli che emettono. Hanno ignorato per molto tempo il disastro che si stava preparando in America. Ai milioni di mutui insolventi, a quei debiti riciclati e nascosti dentro complessi titoli finanziari, le agenzie hanno regalato per anni voti altissimi, perfino l´ambito «AAA». Le agenzie di rating hanno quindi una responsabilità primaria. La loro omertà è stato un alibi formidabile per i banchieri e i gestori dei fondi comuni, che in cerca di alti rendimenti hanno riempito di «cartaccia» i portafogli dei risparmiatori. Ma la catena delle colpe è più lunga. I top manager strapagati che governano le strategie d´investimento delle nostre banche, dei fondi comuni, delle assicurazioni vita, dei fondi pensione, tutti avevano la possibilità di prevedere da molti mesi, se non da anni, il dramma che ora è scoppiato alla luce del sole. I risparmiatori di tutto il mondo, italiani compresi, scoprono di essere stati beffati. Perfino quando si erano affidati a gestioni patrimoniali definite «prudenti», o quando hanno cercato la massima sicurezza e liquidità optando per i cosiddetti fondi monetari, in realtà i loro soldi servivano ad acquistare anche titoli opachi e rischiosi, collegati agli hedge fund speculativi e al business semi-delinquenziale delle società dei mutui facili.
L´esame delle responsabilità deve proseguire fino in fondo.
Non possono esserci immunità speciali neanche per le nostre banche centrali e authority di vigilanza sui mercati. La pericolosità degli hedge fund è stata denunciata da tempo. La mina vagante della finanza derivata - fabbrica ineasuribile di strumenti speculativi sempre più complicati - da molti anni figurava al «menù» di tutti i vertici del gruppo di Basilea, dove si riuniscono i banchieri centrali dei paesi ricchi.
Eppure non si è fatto nulla per regolare la giungla. E´ legittimo il sospetto che i poteri forti della grande finanza privata hanno avuto la meglio, hanno dissuaso le banche centrali dal mettere il naso nei loro affari.
Il ruolo delle banche centrali balza in primo piano proprio per il parallelismo tra la crisi di oggi e quella scatenata dal crac Ltcm nel 1998.
Allora Alan Greenspan era ai comandi della banca centrale più potente del mondo, la Federal Reserve americana. Con massicce iniezioni di liquidità sui mercati Greenspan arginò quella crisi. All´epoca quel salvataggio fu definito un capolavoro e contribuì a consolidare il prestigio di Greenspan, che oggi lo monetizza incassando gettoni di consulenza da grandi banche private. A posteriori il bilancio di quell´operazione appare meno brillante. La mobilitazione delle risorse delle banche centrali nel 1998 evitò che il mondo degli hedge fund pagasse il prezzo che meritava di pagare. Si creò quello che gli economisti definiscono «azzardo morale». La certezza che alla fine «arrivano i nostri», che il peggio viene sempre evitato, crea un clima di impunità e induce gli operatori più avventurosi a riprovarci: tanto rischiano i soldi degli altri, e se va male saranno le risorse dei contribuenti a saldare i debiti scoperti. Questo scenario non deve ripetersi. Le colossali iniezioni di liquidità che la Federal Reserve e la Bce stanno immettendo sui mercati devono avere un compito preciso e limitato: ridurre i danni sull´economia reale, la crescita e l´occupazione. Non devono essere un salvataggio indiscriminato. Il bubbone va inciso. Un capitalismo sano ha bisogno di vedere operare la distruzione creatrice, la sana selezione che avviene attraverso i fallimenti. Anche se dovesse rimanere travolta qualche grande banca europea, l´effetto educativo per il futuro sarebbe molto superiore ai danni economici immediati.


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CORRIERE DELLA SERA, VENERD 17/08/2007
MARIA TERESA COMETTO
E Mrs Moore: la mia rata da 4.200 dollari, poi lo tsunami. NEW YORK – «Era il sogno della mia vita. Avere una casa mia, dove vivere con i miei figli e gestire il mio business. Un anno fa credevo di averlo realizzato, ma ora mi sta crollando addosso. Non auguro a nessuno di trovarsi nella mia situazione». A sfogarsi è Quanda Moore, 36 anni, mamma single con quattro figli, due adolescenti e due bambini più piccoli: nel giugno 2006 aveva comprato una casa di due piani nella cittadina di Mount Vernon, nella Westchester county, un’area a nord di New York dove convivono ricchi pendolari di Wall Street e famiglie di lavoratori meno abbienti, molti latino- americani e neri come è Quanda.
La sua storia è comune a 1 milione di altri proprietari di case che, secondo RealtyTrac, quest’anno rischiano di essere sbattuti fuori perché non ce la fanno a pagare le rate dei loro mutui, gran parte dei quali sono "subprime", quelli che stanno facendo tremare i mercati finanziari. «La casa mi era piaciuta subito, con i pavimenti di legno, rifiniture di quercia e vetrate dipinte - continua Quanda - . Costava 561 mila dollari, più di quello che potevo permettermi. Ma il broker mi ha detto di non preoccuparmi, perché entro sei mesi sarei riuscita a rifinanziarmi riducendo le rate». Così Quanda senza versare un dollaro ha comprato la villetta con due mutui pari al 100% del suo valore, secondo uno schema che, prima dell’ attuale crisi, era comune sul mercato Usa: il mutuo principale finanziava l’80% e il resto era coperto dal secondario, piu’ caro. I tassi erano dell’8% per il mutuo maggiore e del 12,75% per il minore, più alti della media (6% un anno fa), perché Quanda era una cliente "subprime", cioè aveva un basso voto di affidabilità finanziaria: il suo reddito e la sua storia creditizia (come aveva pagato altri debiti) indicavano che era maggiore il rischio di bancarotta. Nel 2006 negli Usa sono stati erogati mutui "subprime" per ben 600 miliardi di dollari, il 20% di tutti i mutui, più del doppio che nel 2003.
«Le due rate arrivavano a 4.200 dollari al mese e io guadagno circa 6.200 dollari (prima delle tasse), lavorando 80 ore alla settimana con l’asilo nido privato che gestisco in casa e facendo i turni di notte e nel week-end in una casa di riposo - spiega Quanda - . Era dura, ma speravo nel rifinanziamento». Fino a quando i prezzi immobiliari hanno continuato a salire, per le famiglie americane era normale farsi rivalutare la casa e, a fronte di un aumento del prezzo, cambiare il vecchio mutuo con uno più conveniente, a un tasso inferiore. Ma con i prezzi piatti o in declino, ecco che il debito diventa maggiore della casa e non può essere ricontrattato: una situazione in cui si trova almeno il 7% dei proprietari secondo First American CoreLogic.
«Poi ci si e’ messa la sfortuna - singhiozza Quanda - . Mi sono ammalata e non ho potuto lavorare per due mesi. Ho saltato il pagamento di quattro rate e a luglio la banca mi ha detto che iniziava le procedure per requisire la casa ». Un dramma che colpisce un crescente numero di famiglie: secondo Countrywide financial services, la quota di ritardi nel pagare le rate è aumentata dal 4,1 al 5,1% di tutti i mutui nell’ultimo anno, e dal 14 al 20% fra i "subprime"; ed è raddoppiata dallo 0,5 all’1% la fetta di mutui finiti male che porta al sequestro della casa. Il totale di debiti non ripagati potrebbe arrivare a 100 miliardi di dollari, ha detto il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke: una mina vagante sui mercati finanziari, dove un imprecisato numero di bond è stato costruito sulla base di quei mutui.
«Ora sono quasi riuscita a rimettermi a posto con le rate e la banca ha congelato il sequestro - aggiunge Quanda - . L’associazione Westchester residential opportunities mi sta aiutando a contrattare un nuovo mutuo. Ma ho sempre paura di perdere tutto».


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IL FOGLIO, SABATO 18/08/2007
La crisi dei subprime sta risparmiando un’area molto particolare, il medio oriente. Milano. E’ dato per scontato da molti esperti in Europa e in America che la crisi di liquidità che ha colpito i listini e le banche americane produrrà effetti negativi nei prossimi mesi e colpirà la fiducia dei consumatori a ridosso delle feste natalizie. Ma le parole di venerdì della Federal Reserve non lasciano spazio a dubbi: esiste un rischio di peggioramento congiunturale che può portare a un rallentamento della crescita dell’economia a stelle e strisce. La crisi globale ha fino a oggi colpito principalmente Usa, Asia, Germania e Francia. A ben vedere, infatti, non giungono segni di affaticamento dai mercati dell’area mediorientale, quelli in cui è confluita la maggior parte dei profitti legati alle vendite di petrolio degli ultimi cinque anni. Il prezzo dell’oro nero è infatti salito toccando nuovi record, oltre 70 dollari al barile, grazie alla crescita di economie come quella cinese o quella indiana, ma anche a causa della crisi irachena, alimentando i profitti delle grandi società petrolifere. E le attività finanziarie dei paesi della regione del Golfo sembrano non essere state colpite dalla crisi dei ”subprime”. Ieri la Borsa di Dubai ha annunciato un’offerta in contanti pari a circa 4 miliardi di dollari per la OMX, la Borsa che opera nei mercati dell’Europa del nord, e nello stesso giorno la Consob ha reso noto che il fondo di investimento di Abu Dhabi ha acquisito una quota di poco superiore al 2 per cento in Mediaset. Anche il fondo del Bahrein, Arcapita Bank, ha reso noto di aver acquisito dai fondi di private equity Carlyle Group e Advent International una società produttrice di plastica, pagandola, sempre in contanti, poco più di 775 milioni di euro. Sono quindi le banche e gli operatori presenti in quella regione più conservatori di quelli che operano nel mondo occidentale? O forse, utilizzando strumenti dedicati alla finanza islamica, come per esempio i sukuk, riescono a mitigare gli effetti di qualsiasi crisi globale? Alla domanda, almeno per ora, non c’è una risposta certa. Parlano i fatti. All’inizio della settimana la Aldar Properties, fondo di sviluppo immobiliare con sede negli Emirati, ha annunciato che il progetto da oltre 60 miliardi di dollari per la costruzione di impianti e appartamenti nella zona del Golfo, sarebbe proseguito come previsto aggiungendo che il gruppo stava valutando l’idea di rivolgersi alla finanza islamica.

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LA REPUBBLICA, SABATO, 18/08/2007
FEDERICO RAMPINI
L´INCUBO DEI GOVERNATORI. Chi avvista da lontano un incendio estivo può valutarne la gravità osservando il numero dei Canadair e la frequenza dei voli con cui gettano acqua sulle fiamme. Se l´incendio divampa sui mercati finanziari mondiali, come va interpretata l´eccezionale frequenza con cui le banche centrali sorvolano il luogo del sinistro? Ieri le Borse hanno salutato con euforia l´improvvisa decisione della Federal Reserve che ha tagliato di mezzo punto il tasso d´interesse con cui rifinanzia le banche. Gli investitori hanno voluto vedere solo il Canadair, non l´incendio sottostante.
Hanno applaudito l´inattesa rapidità con cui l´autorità monetaria americana è intervenuta: per placare il panico creato dal crac degli hedge fund collegati ai mutui insolventi. Superato felicemente il venerdì 17, questo weekend offre l´opportunità per riflettere a sangue freddo. La mobilitazione delle banche centrali è spettacolare e senza precedenti. Prima ancora del blitz di ieri, la Fed aveva già agito a più riprese di concerto con la Banca centrale europea, quelle della Gran Bretagna, del Giappone e dell´Australia. Le loro ripetute iniezioni di liquidità sui mercati hanno superato per ampiezza gli interventi compiuti nel 1998 dopo il fallimento del fondo Ltcm e la bancarotta della Russia; è stata superata anche la dimensione delle "operazioni anti-incendio" intraprese dopo l´attacco alle Torri gemelle l´11 settembre 2001.
Il taglio del tasso di rifinanziamento deciso ieri dalla Fed è anomalo sotto ogni aspetto. La decisione è stata presa al di fuori delle riunioni periodiche della banca centrale, con una consultazione telefonica d´emergenza convocata in piena notte dal presidente Bernanke. Contravvenendo alla sua stessa dottrina, che consiglia di non sorprendere i mercati e di lasciare intuire le proprie azioni con largo anticipo, questa mossa è giunta inaspettata. Ha capovolto d´un tratto quel che la Fed ripeteva da mesi, e cioè che la sua priorità era tenere sotto controllo l´inflazione (escludendo implicitamente un allentamento del costo del denaro). L´unica spiegazione per una simile sterzata è che il timoniere dell´economia americana ha avvistato il rischio concreto e imminente di un disastro. L´incubo di Bernanke, del suo collega europeo Trichet e di tutti gli altri governatori, è la paralisi del credito. Con un´immagine terribilmente efficace, sui mercati americani viene definito il "meltdown": è lo stesso termine usato per la fusione del reattore nucleare della centrale di Cernobyl. Siamo giunti molto vicini a una situazione in cui le banche non hanno più fiducia le une nelle altre, esitano a farsi prestiti. Temono che il dirimpettaio possa nascondere nel suo bilancio una voragine di debiti, e scoprirsi insolvente. Una simile paralisi farebbe venir meno la linfa vitale delle nostre economie, perché anche le imprese più solide e sane non riuscirebbero a finanziarsi.
I segnali che hanno tolto il sonno a Bernanke sono innumerevoli. Countrywide Financial, il più grosso istituto americano specializzato nell´erogazione di mutui-casa, ha dovuto lanciare un S.O.S. a 40 banche per raccogliere in poche ore 11,5 miliardi di dollari, altrimenti la sua sopravvivenza era incerta. Il dirigente di uno dei più antichi gruppi finanziari americani, la JP Morgan, ha ammesso che "molte grandi banche sono riluttanti a fare credito a chiunque; non sono sicure di poter rispettare gli impegni presi con i clienti". Presso alcuni istituti fondiari sono apparse le prime code della clientela, accorsa agli sportelli per recuperare i propri depositi prima che sia troppo tardi.
Che cosa possa scaturire da questo clima, lo dice il comunicato di ieri della Fed: "Le difficoltà del credito e l´aumentata incertezza possono frenare la crescita economica". Il contagio dal mondo della finanza a quello dell´economia reale è già cominciato. Non è un caso che nel "giovedì nero" delle Borse oltre alle banche siano precipitate le azioni di aziende che non hanno nessuna esposizione al cancro dei mutui insolventi. Perché ha subìto una caduta pesante in Borsa la Toyota, numero uno mondiale dell´automobile? E perché anche la Wal-Mart, la più grande catena di ipermercati americani? Perché la crisi dei mutui moltiplica i pignoramenti di case, getta sul lastrico molte famiglie americane, ad altre impedirà di finanziare il proprio tenore di vita ipotecando l´appartamento che hanno. Il chief executive di Wal-Mart, Lee Scott, lo dice con una franchezza brutale: "Molti dei nostri consumatori non arrivano più alla fine del mese". Se inizia uno sciopero dei consumi in America la catena delle ripercussioni negative arriverà in ogni angolo dell´economia globale, da Pechino a Francoforte, da Tokyo a Milano.
All´origine di questo disastro c´è stata l´invenzione della più grandiosa macchina moltiplica-debiti nella storia della finanza moderna, quel mondo degli strumenti derivati e della cartolarizzazione che "riciclando" debiti di ogni sorta e diffondendoli a macchia d´olio sui mercati ha "democraticamente" consentito eccessi insostenibili. Ne hanno beneficiato, in gradi diversi, le maxiacquisizioni operate da quei club per soli miliardari che sono i fondi chiusi di private equity; e tante famiglie americane di modeste risorse che hanno comprato case e automobili al di sopra dei propri mezzi. Sarà difficile uscire da questa crisi senza che paghino tutti, compresi i più deboli. Ai banchieri centrali s´impone un esercizio di alta acrobazia tecnica e morale. Devono riuscire a evitare una recessione mondiale, devono mantenere flussi di credito attivi e ordinati, senza però assicurare l´impunità e l´immunità ai grandi registi di una stagione di follìe. Se costoro dovessero farla franca, una cosa è certa: il prossimo crac sarà ancora peggio.


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CORRIERE DELLA SERA DOMENICA 19/08/2007
FRANCESCO GIAVAZZI e ALBERTO GIOVANNINI
La crisi, i «predicatori» e le lezioni del mercato. Nei nove anni trascorsi dall’ultima crisi finanziaria d’agosto – quella che fu innescata dall’insolvenza della Repubblica Russa nel 1998 – il mondo è profondamente cambiato. La trasformazione più importante è stata la nascita di nuovi mercati che consentono di distribuire il rischio, un fenomeno che in realtà ha origini fin dalla fine degli Anni 80. In passato il rischio era concentrato soprattutto nelle banche. Oggi le banche, quando erogano un prestito (una linea di credito a un’azienda, o un mutuo ad una famiglia) hanno la possibilità di venderlo immediatamente ad altri investitori. Il rischio in questo caso non rimane più concentrato nelle banche, ma si diffonde tra una miriade di investitori.
Quanto sta accadendo in queste settimane pone un’ovvia domanda: queste trasformazioni hanno reso i mercati più o meno fragili? Hanno prodotto dei benefici concreti per l’economia?
E’ abbastanza intuitivo che un mercato con più partecipanti sia in grado di assorbire fluttuazioni nella domanda e nell’offerta in maniera molto più efficiente di un mercato limitato a pochi partecipanti. Questo è il meccanismo fondamentale. E’ miope pensare che la riduzione drammatica nei premi al rischio che ha caratterizzato gli ultimi anni sia stata una bolla speculativa. I premi al rischio sono scesi in buona parte per effetto dell’ampliamento dei mercati finanziari. Mercati più ampi hanno consentito di ridurre il costo del capitale e quindi di aumentare investimenti, attività economica e occupazione. I benefici dell’innovazione finanziaria sono arrivati fino alle famiglie, soprattutto a quelle che nel passato non avevano accesso al credito, ad esempio per acquistare una casa.
Una maggioranza rispetto a quelle che hanno usato l’accesso al credito in maniera irresponsabile e oggi si trovano in serie difficoltà.
Per produrre questi benefici i mercati finanziari processano volumi molto consistenti di transazioni che consentono a ciascun intermediario di aggiustare continuamente e con precisione la propria esposizione al rischio seguendo l’evoluzione dei prezzi. E’ per questo motivo che una tassa sulle transazioni finanziarie, la cosiddetta «Tobin tax», è una pessima idea. Una simile tassa infatti renderebbe molto costoso il processo di aggiustamento delle posizioni di rischio. In questo modo il numero degli attori sui mercati finanziari si ridurrebbe e il costo del capitale tornerebbe a salire.
Ma pur producendo benefici, i nuovi mercati finanziari non sono privi di problemi, come hanno dimostrato gli eventi delle ultime settimane. E’ vero che l’aumento dei partecipanti ha ridotto la volatilità in situazioni normali, ma in condizioni di turbolenza, paradossalmente, la volatilità e il rischio possono aumentare.
Ciò può accadere perché in un mercato più ampio, complesso e articolato è più difficile per tutti capire quello che sta succedendo. In particolare diviene difficile per tutti valutare la capacità del sistema finanziario di resistere a uno choc – ad esempio l’insolvenza di un’istituzione come IKB due settimane fa in Germania – perché nessuno può valutare con precisione come un simile choc possa trasmettersi ad altri operatori.
La ragione per cui ciò può dar luogo a maggiore volatilità è che in situazioni di tensione gli operatori privati, non potendo stimare in maniera affidabile gli effetti degli choc, seguono una regola semplice: liquidano il più velocemente possibile i loro portafogli rischiosi. Questo accentua la caduta dei prezzi e quindi può trasformare uno choc che in realtà avrebbe avuto effetti limitati in una crisi generalizzata.
Siamo quindi di fronte ad una situazione del tutto nuova: il sistema finanziario è più diversificato ed efficiente. Tuttavia, proprio questa diversificazione è causa di comportamenti difensivi che possono amplificare gli effetti negativi degli choc esterni.
Vent’anni fa le crisi finanziarie erano diverse. Il rischio era concentrato nel sistema bancario e le banche centrali avevano sia una conoscenza dettagliata e in tempo reale della situazione delle banche, sia gli strumenti per far fronte ad una crisi: i banchieri centrali conoscevano con precisione e nel giro di qualche ora i nomi delle banche in difficoltà e l’ammontare della loro esposizione nei confronti dei debitori insolventi. Gli operatori di mercato privati non erano in grado di conoscere in dettaglio la situazione del sistema bancario, ma sapevano che le banche centrali avevano tutta l’informazione e gli strumenti per far fronte a una crisi e quindi si fidavano.
Ci vorranno anni per arrivare ad una situazione in cui le banche centrali dispongano con altrettanta precisione e rapidità delle informazioni relative ad un mercato che nel frattempo è diventato tanto più ampio ed articolato. Ma questo non significa che esse abbiano perso la capacità di stabilizzarlo.
Quando, come nei giorni scorsi, le banche centrali intervengono offrendo liquidità o abbassando il costo del denaro, le loro azioni forniscono importanti informazioni agli investitori. Nonostante l’evoluzione dei mercati ne abbia diminuito il peso e l’efficacia, il fatto stesso che i banchieri centrali decidano di intervenire «rassicura» gli operatori. Questo per tre ragioni. Innanzitutto i banchieri centrali continuano a possedere molta informazione perché sono i soli che hanno completo accesso all’interno di tutte le banche, le quali rimangono la fonte principale di finanziamento di tutte le istituzioni finanziarie. In secondo luogo sono loro che stabiliscono molte delle regole che si applicano nei mercati. Infine – ed è forse il motivo più importante – perché le banche centrali sono i soli attori che hanno come esclusivo obiettivo il buon funzionamento dei mercati. Quindi la loro decisione di intervenire normalmente riduce l’incertezza degli operatori e limita il loro incentivo a liquidare di corsa i portafogli. Il risultato, come si è visto con le decisioni assunte dalla Federal Reserve statunitense venerdì scorso, è la ripresa dei mercati.
Situazioni di crisi come quelle che viviamo in questi giorni inducono due tipi di fenomeni. Da un lato il pubblico e variegati «predicatori» chiedono ai governi di non star con le mani in mano. Dall’altro i governanti stessi sentono il bisogno di dimostrare il loro impegno ad affrontare i problemi annunciando iniziative di vario genere: indagini sulle Agenzie di rating, l’introduzione di tasse sulle transazioni finanziarie, etc. E’ vero che talvolta una crisi può mettere in evidenza in maniera più netta i fallimenti del mercato e offrire l’occasione per riforme efficaci. Questo è successo in più occasioni: nel 1987 ad esempio il collasso delle transazioni sui mercati americani ha avviato il processo di creazione del più efficiente sistema di infrastrutture di mercato che tuttora esista al mondo. Ma spesso l’attivismo, la fretta, l’illusione che problemi difficili abbiano soluzioni semplici, rischiano di buttar via «con l’acqua sporca», i benefici di un mercato finanziario che è diventato più efficiente nel diversificare il rischio e più aperto per tutti.


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• ROMA L’America rischia una crisi stile ’29: intervista a Giulio Tremonti, novembre 2006. Professore, sono passati solo otto mesi... «Quel titolo lo fece il Corriere. stata, comunque, una felix culpa. In realtà per tanti anni ho criticato gli eccessi della globalizzazione, ne ho segnalato i "rischi fatali", ho parlato di protezionismo e di colbertismo. Per tanti anni, da esperti e saggi, sono stato considerato più o meno come un matto. Vediamo adesso chi è stato saggio e chi esperto. Comunque oggi mi accontenterei di un bollettino di buone notizie. Non sono di quei politici che vogliono il male, anche se gli farebbe comodo ». Pensa a Prodi? «La crisi farebbe saltare il governo come il tappo di una bottiglia di spumante, non ci vuole un mago per prevederlo ». La sua analisi di allora, insomma, si è rivelata giusta. «Il punto fondamentale è che con la globalizzazione l’economia finanziaria si è distaccata dall’economia reale e si è automoltiplicata vertiginosamente. Se un fondo ti offre 100 per un industria che vale 10, devi preoccuparti proprio perché ti offre 100! Le autorità monetarie nazionali e sovranazionali cercano di fare surveillance. E’ un tipo di sorveglianza che non basta più in rapporto alla dimensione e alla forza globale della finanza». Ma l’America è davvero alla vigilia del ’29? «La storia non si ripete mai. Ma certo, in America, si trovano il principio e la fine di una crisi potenzialmente globale. Come già notavo a novembre, la catena di crisi dipende da un enorme stock di liquidità e dalla perdita di controllo sui mutui immobiliari. Era una storia già scritta». Esclude un contagio all’Europa? «Le dirò tre cose, due negative, una positiva. La crisi dell’economia finanziaria diventa sempre crisi dell’economia reale. La crisi dell’America diventa sempre crisi del mondo. La cosa positiva è che governi e autorità monetarie, se lo capiscono e se lo vogliono, possono ancora intervenire». Ci sono aree di rischio specifiche? «Dove è più intenso, probabilmente, è nell’Europa dell’est. Le crisi derivano dall’applicazione di finanza ipermoderna su economie relativamente arretrate ». In Germania è fallita una banca, Paribas ha congelato tre fondi comuni legati agli Usa, da noi c’è stata la crisi di Italease... «Sono cose diverse. Italease, per quanto ne so, è stato un caso non felicissimo di vigilanza retroattiva. Non credo comunque che il sistema italiano sia esposto a rischi particolari. Ma non sono al governo...» Che farebbe? «Viviamo in un tempo in cui l’intellettuale è politico: se non capisci non governi. E il politico ha due doveri. Capire il presente, prevedendo il futuro, agire localmente, ma pensare globalmente, perché tutto è connesso. Questo è il manuale del politico moderno. Il contromodello è il Prodi grottesco di mezza estate. Quello che dice che va tutto bene per merito suo. E se va male? colpa sua?» Troppo ottimismo? «Io credo che sia tornato il momento per fare una politica seria, e sostanzialmente una politica prudente. Il buon ciclo economico doveva essere una spinta a fare, non la scusa per non fare. Tra il 2002 e il 2005 il ciclo in Europa è stato negativo. Tutti i paesi hanno lasciato andare i loro deficit sopra il 3%, ma tutti insieme hanno preso l’impegno a fare le riforme strutturali, partendo dalle pensioni, e a fare le necessarie correzioni di bilancio subito dopo il ritorno della buona stagione. Noi abbiamo riformato le pensioni nel 2004, e nel 2005 con l’arrivo della buona stagione alle tentazioni elettorali abbiamo preferito l’impegno internazionale, cioè una Finanziaria di rigore ». Prodi sostiene che il rigore è il suo primo obiettivo. «La mia impressione è che la scelta di questo governo sia quella opposta. L’economia va bene? Al posto delle riforme fanno le controriforme, che sono meglio di quanto temuto, ma comunque peggio di prima, e dissipano le maggiori entrate che sono state portate dal ciclo economico, non dalle grida contro l’evasione». Qualcuno pensa pure alle riserve di via Nazionale. «Ah, la magia dell’oro! Ha sempre esercitato un fascino misterico, dalla Mesopotamia ai Nibelunghi, da Goethe alla Bce». Affascinò anche lei. «No. questa maggioranza che ha votato per l’uso delle riserve auree, c’è l’evidenza di un atto parlamentare. Con noi non è successo nulla di tutto questo. Mi chiesero che ne pensavo dell’uso dell’oro da parte di Germania e Austria, e risposi semplicemente che, se le aveva autorizzate la Bce, erano operazioni lecite, tutto qui. Però se vuole uno scoop le dico che la prima idea sulle riserve auree, in assoluto, la ebbe Prodi negli anni ’90. Noi comunque sull’oro non abbiamo fatto nulla, mentre loro lo stanno portando via. In ogni caso è un’operazione che produce due effetti negativi. All’esterno trasmette il messaggio della finanza allegra. Dentro, quella della finanza triste: il governo è alla canna del gas. La prossima operazione sarà quella di chiedere le fedi nuziali per la patria».
• Gli interventi della Bce per 150 miliardi di euro e della Fed per 60 miliardi di dollari in due giorni avranno fermato il panico da «salsiccia finanziaria»? Gli operatori sono sicuri di no, ma spendono altrettanta sicurezza nel pronosticare che l’onda anomala alzata dal caso dei mutui americani subprime porterà sì qualche danno, ma non la catastrofe. Il problema numero uno è appunto il contagio da effetto «salsiccia» che ha prosciugato la liquidità e portato Francoforte e Washington a intervenire fornendo extra rifinanziamenti alle banche: la crisi dei mutui americani ha in sostanza condotto gli operatori a mettere in dubbio valutazioni e prezzi dell’ampio stock di finanza derivata in portafoglio, e in particolare di quei titoli tecnicamente definiti cdo (obbligazioni collaterali di debito) che contengono raggruppamenti di mutui cartolarizzati, bond, derivati e così via. Titoli «salsiccia» dunque perché nessuno sa bene alla fine cosa comprenda il «tritato» di finanza contenuto nel basket, e quindi nessuno sa dire se sono corretti i prezzi di mercato. Di conseguenza questo stock, a sua volta difficile da quantificare, è attualmente congelato perché nessuno accetta di comprare simili categorie di titoli: per le banche ciò significa un blocco della liquidità, improvvisamente «evaporata», perciò si rivolgono al prestatore di ultima istanza, cioè alla banca centrale. In questi giorni la Bce e la Fed hanno risposto in modo coordinato (l’Europa per prima semplicemente perché «apre» prima secondo l’orologio globale dei mercati) fornendo la liquidità necessaria a contenere la pressione da domanda e quindi a mantenere i tassi ai livelli stabiliti.
Per la Bce si è trattato di una prova d’esame non di secondaria importanza. Se si esclude il caso eccezionale dell’11 settembre 2001, quando Francoforte ha fornito 100 miliardi di liquidità in due giorni perché la Fed era chiusa, si tratta del primo intervento sui mercati. Chi ricorda i dubbi espressi sulla Bce da due economisti americani passati alla Deutsche Bank, David Folkerts- Landau e Peter Garber? I due in un saggio si sono chiesti se la Banca centrale europea sarebbe stata una «banca» o una «regola monetaria». Se cioè sarebbe stata in grado di fronteggiare una crisi improvvisa.
In fondo la risposta, osservano molti operatori, è arrivata proprio in questa occasione. Da un lato con l’intervento diretto e dall’altra con la continuità di politica monetaria, visto che non è stato messo in dubbio il segnale relativo a un aumento dei tassi in settembre già consegnato ai mercati. Ieri il presidente della Bce Jean Claude Trichet ha sottolineato in un’intervista che la crescita dell’Eurozona è come previsto robusta: un segnale rassicurante e un’implicita conferma della linea già seguita. Anche su questo punto in modo convergente, se non coordinato, con la Fed: il numero uno Ben Bernanke ha in sostanza ribadito in questi giorni di non avere intenzione di ridurre il costo del denaro a settembre sottolineando i timori inflazionistici.
La «svolta» interventista delle banche centrali marca una differenza profonda rispetto al passato. Basta pensare al ’98, quando la Federal reserve è stata regista del salvataggio del maxi hedge fund Ltcm, il fondo speculativo gestito dai due Nobel per l’economia Myron Scholes di Stanford e Robert Merton di Yale. In quella occasione l’intervento sui tassi c’è stato, oggi no. Ma la differenza più profonda appare di sistema: il coordinamento tra Bce e Fed è anzitutto tecnico. Siamo ben lontani dal Plaza dell’85 o dal Louvre dell’86, cioè dagli accordi che hanno portato prima a una svalutazione dell’allora superdollaro e a un successivo contenimento della stessa manovra. Nei cambi c’è politica e macroeconomia, nella crisi di liquidità attuale il sottofondo è di tutt’altra natura, perché riguarda il perimetro dilatato della finanza derivata.
Ciò non significa che i Governatori sottovalutino i rischi. Anzi. Gli interventi significano proprio questo: non siamo di fronte a un crac isolato e specifico tipo Barings, quando nell’85 lo spregiudicato Nick Leeson ha mandato a gambe all’aria la banca della Regina d’Inghilterra. No, qui la bancarotta dell’American home mortgage investment, uno dei grandi gestori Usa di mutui casa, ha rappresentato un segnale d’allarme per tutti: il mercato immmobiliare statunitense, soggetto da sempre a fluttuazioni più rapide e marcate rispetto a quelli europei, è stato cartolarizzato per diversificare e ridurre i rischi. Con il lodevole obiettivo (e risultato) di permettere anche ai più poveri di comprare casa con finanziamenti al 100%. Ma il contraltare è il trasferimento dei rischi più alti anche sui mercati finanziari con l’utilizzo degli strumenti derivati. E quando crescono i tassi e cade il valore delle abitazioni il sistema va in tilt.
E risiamo ai titoli «salsiccia»: dentro c’è tutto e ciò porta a una distribuzione dei rischi sull’intero sistema. Ma chi si fida ora del «tritato» in cassaforte? Nessuno sa più riconoscerne la ricetta. Meglio i Bot, così semplici e chiari.

IL SOLE 24 ORE, DOMENICA 19/08/2007
MORYA LONGO
Sulle Borse resta l’ombra della crisi. MILANO. La crisi delle Borse non dà tregua neppure nel week-end, quando i listini sono chiusi. Ieri il fondo americano Sentinel, che pochi giorni fa aveva "congelato" 1,6 miliardi di patrimonio in gestione, ha dovuto alzare bandiera bianca: ha infatti chiesto l’ammissione all’amministrazione controllata (Chapter 11) per evitare la bancarotta vera e propria. E, in Germania, la Landesbank Sachsen Girozentrale ha dovuto farsi prestare 17,3 miliardi di euro da un gruppo di banche per coprire le falle della sua maxi-esposizione sul mercato Usa dei mutui subprime. La crisi, che nell’ultimo mese ha "bruciato" sulle Borse mondiali circa 4.600 miliardi di dollari, continua dunque a mietere vittime. Tra i fondi come Sentinel. Tra le banche di tutto il mondo che devono arginare l’esposizione loro o dei fondi. E, soprattutto, tra le società americane attive nel settore dei mutui: almeno 90 di loro sono finite in bancarotta oppure hanno dovuto chiudere bottega nell’ultimo anno e mezzo. La frenata dei mercati e l’impatto sull’economia reale crea qualche apprensione anche al Tesoro italiano e gli effetti negativi potrebbero avere ricadute sul Pil di quest’anno. Secondo quanto apprende l’Adnkronos da fonti tecniche di via XX settembre, le previsioni di crescita potrebbero calare di 0,2 punti percentuali, passando dal 2% indicato nel Dpef allo 1,8%. Al momento, tuttavia, si tratterebbe solo di simulazioni e il dato definitivo verrá indicato nella Nota di aggiornamento al Dpef che il Governo conta di presentare a settembre insieme alla Finanziaria per il 2008.
Le cause
Per capire la situazione attuale bisogna tornare indietro nel tempo: tra il 2002 e il 2003, quando i tassi d’interesse in America erano all’1%. Il costo del denaro così basso ha infatti avuto due effetti oggi importanti. Uno: ha favorito il boom del mercato immobiliare (ottenere un mutuo costava poco). Due: ha spinto gli investitori di tutto il mondo, come i fondi, a comprare obbligazioni ad alto rischio per ottenere rendimenti un po’ superiori rispetto a quelli "anoressici" dei titoli di Stato. Questa fame di rendimenti ha in primo luogo aumentato la domanda di bond high yield, quelli con basso rating ed elevato rischio. Poi ha spinto l’ingegneria finanziaria, cioè le banche d’affari, a re-impacchettare e riprodurre in modo sintetico titoli o prestiti ad alto rischio, compresi i mutui subprime. In sostanza sono stati creati dei "cloni" di obbligazioni o di mutui-bond, da dare in pasto agli investitori famelici. Che li hanno comprati a piene mani. così che è nato il boom dei Cdo: cartolarizzazioni create impacchettando altri bond, anche quelli legati ai mutui. Ed è così che si è sviluppato in modo esponenziale il mercato dei credit default swap, cresciuto negli ultimi quattro anni da 2mila a 32mila miliardi di dollari: si tratta di derivati che permettono, pagando un "premio", di assicurarsi contro il rischio di insolvenza di qualunque debitore al mondo. Ebbene: anche i credit default swap sono stati impacchettati più volte, moltiplicando a dismisura i rischi. E i rendimenti. proprio questo effetto moltiplicatore che oggi spaventa: i subprime, impacchettati e re-impacchettati, sono infatti finiti nel portafoglio di fondi e banche di tutto il mondo. Il problema è che questo fenomeno non riguarda solo i mutui americani. Si pensi a General Motors: quando nell’ottobre 2005 andò in crisi, tanto che sul mercato si temeva il default, si scoprì che a pagarne le spese non sarebbero stati solo i suoi obbligazionisti e i suoi azionisti, ma anche migliaia di investitori con Cdo in mano. Bank of America calcolò che circa il 40% dell’intero mercato mondiale dei Cdo aveva in pancia il rischio Gm: un default della casa automobilistica, insomma, avrebbe provocato uno tsunami sull’intero mercato mondiale. per questo che, nel maggio 2005, la Borsa crollò. Ed è per un motivo analogo, anche se il focus è sui mutui e non su Gm, che crolla oggi. E, chissà, anche in futuro.
Effetti a catena
 così che la moltiplicazione dei mutui subprime ha messo in ginocchio numerosi investitori. Il primo allarme lo ha lanciato a giugno Bear Stearns ma solo a metà luglio la "bolla" è scoppiata veramente, costringendo alcune banche a "congelare" i fondi (è accaduto a Bnp Paribas) o a dare denaro ai gestori per far fronte ai riscatti. Da allora è partito un effetto domino.
La prima conseguenza è stata il credit crunch: la difficoltà ad emettere obbligazioni e soprattutto a rifinanziare le cartolarizzazioni. Poi i problemi sono arrivati alle banche di tutto il mondo, provocando l’intervento delle banche centrali con iniezioni di liquidità e, per la Fed, riduzioni dei tassi. Immediate le preoccupazioni sull’economia: questa crisi – pensano gli analisti – potrebbe avere un impatto sulla crescita. E così la turbolenza si è estesa alle materie prime, alle valute e a tutti i mercati. Ieri Federconsumatori ha addirittura calcolato che peserà sul portafoglio delle famiglie italiane per 290 euro. E ora? Gli esperti sono convinti che la bufera resterà ancora per un po’. E l’annuncio del fondo Sentinel, ora in Chapter 11, non fa ben sperare. Sentinel, infatti, tra le sue attività investe la liquidità per conto di hedge fund specializzati in materie prime. per questo che martedì, quando Sentinel annunciò di aver "congelato" i suoi fondi, le commodities sbandarono vistosamente. E le Borse, già volatili, sbandarono con loro. Non bisogna dunque stupirsi se è attesa con ansia l’apertura dei listini di lunedì.

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IL SOLE 24 ORE, DOMENICA 19/08/2007
WALTER RIOLFI
Troppa avidità, ora più regole. MILANO. Formatosi in un mondo della finanza che ancora non conosceva le alchimie dei nuovi strumenti e l’euforia dei guadagni troppo facili, Guido Roberto Vitale è tutt’altro che un nostalgico. Ma il fondatore di Euromobiliare nel lontano ’71, poi della banca d’affari Vitale & Borghesi (finita a Lazard) e ora della Vitale & Associati, rimpiange almeno un valore: la correttezza e il rispetto delle regole.
 un valore in disuso?
 una virtù calpestata dall’avidità. Quando i tassi di lungo periodo sono al 5,5% perché mai i capitali di rischio devono dare ritorni annui composti del 20-25%? Non lo prevede la teoria economica e tantomeno il buon senso.
Allora questa avidità è diffusa anche tra i piccoli investitori...
Soprattutto tra la classe dirigente e nelle banche d’affari in particolare. Prenda il caso del capo economista di Bear Stearns che qualche anno fa dichiarò in un’intervista che l’aumento dei prezzi delle case consentiva ai cittadini di indebitarsi di più e quindi spendere di più. Sono davvero i consumi il traino dello sviluppo economico? Cos’è: stupidità o malafede? E i problemi degli individui dove sono? Alla fine i consumi passano e i debiti rimangono.
Però quando le cose van bene, ci guadagnano tutti.
Guadagnano soprattutto i manager. Guardi, il 60-70% delle transazioni finanziarie che si fanno ogni giorno serve per far guadagnare chi le fa: dirigenti, operatori, la società stessa e non il piccolo cliente finale. Intermediare un BoT fa guadagnare 2 centesimi di commissioni e invece quanto si lucra nel vendere un prodotto strutturato o uno a capitale garantito?
Ma questo cosa ha che a fare con la crisi attuale?
Ha a che fare perché s’è creata una cultura che privilegia solo i guadagni istantanei e i manager vengono premiati per questo e non per quello che riescono a creare nel lungo periodo.
Certo, un tempo non succedeva.
Lavoro da 40 anni in questo settore e ne ho viste di cose. Ma adesso s’è creato un mito sproporzionato del mercato e gli si è attribuito un ruolo superiore a quello dell’economia. E questi mercati non sono per nulla regolamentati.
Troppe regole, sostengono gli hedge fund, fanno male a tutti.
Soprattutto agli hedge fund. Ma si può vivere anche senza di loro. E poi a guadagnare davvero non sono i clienti di questi fondi, ma chi li amministra, anche se i risultati momentanei possono venir poi vanificati da grosse perdite.
Forse servirebbe un po’ di autoregolamentazione?
Se ci fosse stata la cosiddetta autoregolamentazione non saremmo arrivati a questa crisi. In passato ho creduto anch’io all’autoregolamentazione dei mercati, ma oggi non la ritengo possibile.
Allora chi dovrebbe fare le regole?
Gli organismi di vigilanza e se non basta devono intervenire i Parlamenti. In Europa ci sarebbe bisogno di un intervento comunitario, malgrado la diversità dei sistemi fiscali. Per esempio, perché non imporre a chi specula con i derivati l’obbligo di depositare margini importanti a fronte di ciascuna operazione?
Anche le agenzie di rating non hanno fatto la loro parte.
S’accorgono d’aver sbagliato quando è già avvenuto il fattaccio: come negli anni 90, con il rating della Thailandia che è stato tagliato, ma dopo che la crisi era ormai scoppiata. Le agenzie dovrebbero monitorare attentamente debito e debitore, ma siccome è prioritario il profitto s’è persa anche la lucidità.
C’è una responsabilità nelle banche centrali?
Guardando a posteriori si direbbe di sì, perché hanno favorito il credito facile, soprattutto negli Usa dove c’è stato un eccesso di laissez faire.
Come andrà a finire questa crisi?
Credo che rientrerà perché sono buoni i fondamentali dell’economia anche negli Stati Uniti e in Europa perché a tirare è adesso l’Asia e in particolare la Cina. Per questo non sono pessimista.
Però questo è un mondo che procede per bolle speculative: quella del 2000 sulle azioni, e adesso quella sul credito.
Non parlerei di bolle, ma di inflazione da asset, da valori patrimoniali, esasperata dalla liberalizzazione dei mercati. Non propriamente bolle, ma indigestioni sì, favorite proprio dall’avidità e dalla mancanza di controlli. Tra la diffusione indiscriminata dei Cdo e la vicenda della vernice al piombo usata nei giocattoli cinesi non vedo una grande differenza: sono fenomeni che fanno parte della stessa mentalità.

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IL SOLE 24 ORE, DOMENICA 19/08/2007
SIMONE FILIPPETTI
Vacilla l’american dream di Mozilo. «Piggyback» è un nome sconosciuto anche a chi pratica la finanza, ma per Angelo Mozilo al momento è la parola più temuta, ancor più del fatto che da inizio anno la sua creatura Countrywide ha bruciato in Borsa quasi la metà del suo valore. I Piggyback sono i mutui che molti acquirenti di case utilizzano come scorciatoia per versare degli acconti bassissimi. Dopo la crisi dei sub-prime, sono diventati la prossima categoria a maggior rischio default tra i prestiti. Non sono giorni facili per il 59enne italo-americano, nipote di immigrati, che, partito dal nulla, in California ha creato un impero dei mutui: oggi Countrywide è la prima finanziaria Usa con più di mille filiali, ma mercoledì alcuni broker hanno lanciato un allarme bancarotta e molti hanno temuto che fosse la fine del mercato dei prestiti. Decine di piccoli operatori, da ultimi First Magnus e Novastar, sono stati travolti dal ciclone "sub-prime". Ma finché a cadere sono compagnie di secondo piano o quelle più spregiudicate, come American Home Mortgage, il mercato non si è preoccupato troppo, vedendo anzi di buon occhio la pulizia in un business sovraffollato. Quando però i timori del crack sfiorano il più grande erogatore di mutui d’America, un operatore da 61 mila dipendenti e 1.400 miliardi di dollari di portafoglio, è l’intero sistema a tremare.
La prima a dare l’allarme bancarotta è stata Merrill Lynch e l’avvertimento è stato preso sul serio perché l’autore del report, Kenneth Bruce, è un ex dipendente Countrywide. La priorità per chi presta soldi è la costante disponibilità di denaro. Finora Countrywide si è finanziata in tre modi: con le cartolarizzazioni di mutui collocati poi sul mercato; con prestiti a breve termine, infine rivendendo i mutui minori alle agenzie semi-governative Fannie Mae e Freddie Mac. La stretta sul credito ha di fatto chiuso il mercato delle cartolarizzazioni e i mutui rivendibili alle due agenzie sono solo una piccola parte del portafoglio perché il grosso dei prestiti-casa in America è di categoria Jumbo. A questi si aggiungono i sub-prime che per la compagnia californiana sono un terzo del portafoglio. Con meno liquidità disponibile il giro d’affari della compagnia rischia di crollare del 20-25% secondo gli analisti. E se la crisi dei mutui durerà più di tre mesi, sostengono, Countrywide potrebbe chiedere il Chapter 11. Mozilo è già corso ai ripari chiamando in soccorso un pool di 40 banche che hanno fornito 11 miliardi di dollari di liquidità. Così dopo un ennesimo crollo in Borsa, Countrywide ha recuperato posizioni venerdì, grazie all’intervento della Fed, che però non risolve alla radice il problema. La gente ha paura e agli sportelli bancari della finanziaria c’è chi fa la fila per chiedere riscatti. Ma Mozilo sfoggia tranquillità: Countrywide, assicura, è ben capitalizzata e i suoi depositi sono garantiti dal Federal Deposit Insurance. A lui la crisi non fa paura, anzi la compagnia finora ne ha approfittato per reclutare ex dipendenti della concorrenza. Quella di Mozilo è la classica "favola" americana del self-made man che, nato in una famiglia povera, arriva al successo. Primo di cinque figli, il padre è un macellaio del Bronx: da bambino il suo letto è il divano del salotto. Per caso entra nel settore dei mutui e la grande occasione arriva nel 1960 quando partono le missioni spaziali per la Luna. A Cape Canaveral scoppia il boom immobiliare: Mozilo fa il colpaccio e 9 anni dopo col socio David Loeb fonda Countrywide: in quasi 40 anni diventa un colosso da 23 miliardi di valore (pre-crisi) e utili per circa due miliardi. Alcuni broker pensano che Mozilo abbia ragione ancora una volta. Anche perché ha un asso nella manica: Countrywide è nell’elenco degli intermediari primari del Tesoro, cioè una «privilegiata» del sistema bancario per quanto non sia una banca in senso stretto pur avendone le dimensioni. E la memoria va al 1998, quando la Fed organizzò un salvataggio dell’hedge fund Ltcm. Non è detto che la storia non possa ripetersi.

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IL SOLE 24 ORE, DOMENICA 19/08/2007
Isabella Bufacchi
Migliaia di bond contagiati. ROMA. La quantificazione e la localizzazione delle perdite dovute ai problemi dei mutui americani subprime, un mercato con uno stock da 1.100 miliardi di dollari e un tasso di default cresciuto di recente all’11%, passa attraverso almeno 600 miliardi di dollari di cartolarizzazioni e migliaia (per non dire decine di migliaia) di obbligazioni strutturate Cdo in dollari con rating diversi, vendute agli investitori istituzionali di tutto il mondo. Calcolare esattamente chi ha perso e quanto ha perso è un’impresa titanica.
Il baco del subprime però mette meno paura da quando nell’arena dei mercati sono entrate belve vere e proprie, capaci di divorare utili e valore con molta più voracità: il credit crunch (politiche più restrittive nell’offerta del credito) e l’effetto-contagio (crollo dei prezzi di azioni, obbligazioni societarie, Cdo, prestiti leveraged e cartolarizzazioni non collegati direttamente alla crisi subprime).
Il subprime e l’Europa
Il mercato immobiliare europeo non ha il problema del subprime perché questo tipo di mutuo si trova solo nel Regno Unito e con una percentuale molto più bassa di quella presente negli Usa rispetto al volume totale dei mutui residenziali. Negli Stati Uniti lo stock dei subprime rappresenta poco più del 10% del mercato totale: solo nel 2005 e nel 2006, secondo Lehman brothers, sono stati stipulati mutui subprime per un totale di 800 miliardi. Questi contratti hanno generato un volume di cartolarizzazioni attorno ai 600 miliardi di dollari ma i declassamenti delle agenzie di rating legati al subprime hanno colpito finora una percentuale di poco superiore all’1% delle securitization sui mutui subprime first lien (di migliore qualità): una percentuale veramente irrisoria rispetto al mercato mondiale delle cartolarizzazioni di mutui e Cdo.
Gli esperti del settore sostengono che se le perdite del subprime dovessero ammontare tra i 50 e i 100 miliardi di dollari, come ha sostenuto il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, i default si ripercuoterebbero solo su alcune tranche di cartolarizzazioni e titoli rimpacchettati nei Cdo in dollari. Strumenti che si trovano principalmente nei portafogli di investitori americani perché i fondi europei investono soprattutto in cartolarizzazioni e Cdo in euro.
Contagio e il credit crunch
Le perdite più consistenti e preoccupanti per il sistema finanziario, anch’esse difficilmente stimabili e localizzabili, rischiano di essere provocate da due fenomeni che si sono intrecciati in maniera perversa: il credit crunch e il riapprezzamento del rischio. Gli hedge fund hanno acquistato bond di cartolarizzazioni e Cdo rischiosi indebitandosi: hanno usato la leva finanziaria. Le loro perdite si ripercuotono dunque sui loro finanziatori che dopo lo scoppio della crisi subprime (e i conseguenti declassamenti dei rating) si sono affrettati a stringere le condizioni dell’offerta del credito. L’aumento dei riscatti e il restringimento dei finanziamenti hanno costretto hedge fund e altri fondi a vendere. Le cartolarizzazioni e i Cdo hanno notoriamente un pessimo mercato secondario: la scarsa liquidità ha un effetto moltiplicatore sulle vendite e accelera il calo dei prezzi dei bond. Il mercato si è avvitato, le perdite sono lievitate.
Come se non bastasse, la crisi del subprime ha colpito il mercato del credito in una fase di spread (extra-rendimento richiesto dagli investitori per compensare il rischio di credito) ai minimi storici da troppo tempo. Dallo scorso anno gli operatori avevano iniziato a domandarsi quando sarebbe arrivato l’allargamento degli spread: speravano in un "soft landing", un adeguamento morbido. Invece il subprime ha fatto precipitare la situazione: il rapporto rischio/rendimento, che da anni era sbilanciato minimizzando i rischi, in una manciata di giorni ha riallargato gli spread su livelli più realistici. Qualsiasi obbligazione, cartolarizzazione, tranche di Cdo o Clo - fatta eccezione per i titoli di Stato "AAA" - è stata travolta da questa monumentale correzione. I prezzi sul secondario sono scesi ovunque, a volte sono crollati, e gli strumenti più illiquidi hanno avuto la peggio. in corso nei portafogli degli investitori istituzionali il mark-to-market per far emergere le perdite potenziali nel caso di vendita dei titoli. Chi è stato costretto a vendere, anche sulla scia della fuga verso la qualità e la paura della recessione, la perdita l’ha già contabilizzata. Colpa del subprime, ma anche del credit crunch, del riequilibrio rischio-rendimento e dell’effetto-contagio.

LE PAROLE DELLA CRISI
La catena che lega i mutui ai fondi
Che cosa è il subprime?
Subprime significa letteralmente "al di sotto del prime" in quanto è un mutuo residenziale più rischioso dei mutui ipotecari Usa di prima qualità. I mutui subprime sono erogati a debitori di bassa qualità: in molti casi i primi due anni hanno rate bassissime.
Perché il subprime è diventato una storia da prima pagina?
I tassi d’interesse bassi, l’allentamento dei requisiti nella concessione di credito e l’aumento dei prezzi delle case negli Usa hanno favorito il boom del subprime, un tipo di mutuo che nel 1995 non esisteva, che nel 2000 è stato erogato per 50 miliardi di dollari. I nuovi contratti stipulati nel 2005 e nel 2006 sono saliti a 400 miliardi l’anno. Questi 800 miliardi di mutui sono stati cartolarizzati: e queste cartolarizzazioni, che offrivano rendimenti interessanti, sono state rimpacchettate a loro volta in obbligazioni strutturate (i Cdo) per essere vendute a investitori istituzionali in tutto il mondo.
Che cosa è la cartolarizzazione?
La cartolarizzazione (o securitization) è una speciale emissione di obbligazioni con il pagamento delle cedole e il rimborso del capitale a scadenza pagati con il flusso di cassa generato da un portafoglio di attività finanziarie (mutui, crediti di carte commerciali, contratti di leasing) possedute dal veicolo che emette la cartolarizzazione. Ogni cartolarizzazione è suddivisa in varie tranche di bond con rating diversi (dalla AAA fino alla BBB o anche meno) sulla base del differente rischio di credito. I mutui subprime sono stati cartolarizzati: i bond di queste cartolarizzazioni sono stati acquistati direttamente da investitori istituzionali oppure sono stati utilizzati nei portafogli dei Cdo. I primi mutui in default colpiscono la tranche più bassa della cartolarizzazione: tanto più i default aumentano, tanto maggiori sono i rischi di perdita di capitale per le tranche con rating più elevato compresa la "AAA".
Che cosa sono i Cdo?
Il Cdo (collateralized debt obligation) più semplice è un’emissione di obbligazioni con pagamento di cedole e rimborso del capitale garantiti dal flusso di cassa di un portafoglio di attività che, a differenza delle cartolarizzazioni, possono essere di varia natura: obbligazioni societarie, prestiti bancari concessi ad aziende, titoli di cartolarizzazioni di mutui, di carte commerciali, di contratti di leasing, altre obbligazioni Cdo. Per investire in queste attività il Cdo si finanzia emettendo una serie di tranches di obbligazioni con rating diversi, in base al differente rischio di credito: dalla "AAA" alla "BBB" per finire ai rating speculativi "BB".
Il portafoglio dei Cdo può cambiare?
Il portafoglio dei Cdo cosiddetti dinamici è gestito da un manager e può variare nel tempo.
Qual è la differenza tra un Cdo e un fondo comune d’investimento?
Nel fondo tutti i sottoscrittori delle quote condividono gli stessi rischi e gli stessi rendimenti. I sottoscrittori delle diverse tranche di bond nei Cdo hanno rendimenti diversi perché corrono rischi diversi
Qual è la differenza tra Cdo, Cbo e Clo? Dove sono finiti i mutui subprime?
I Cbo (collateralized bond obligation) e i Clo (collateralized loan obligation) sono due sottocategorie del Cdo. I Clo utilizzano solo prestiti bancari, soprattutto quelli a leva finanziaria che finanziano le acquisizioni di Leveraged buy out. I mutui subprime si trovano nei cosiddetti Cdo di Abs (asset backed securities) chiamati anche Sf (structured finance) Cdo. Alcuni Cdo hanno investito solo in cartolarizzazioni di mutui subprime, altri hanno messo i mutui americani ad alto rischio assieme ad altre cartolarizzazioni di mutui residenziali o commerciali, di leasing o crediti per l’acquisto di automobili oppure crediti da carte di credito
Chi ha acquistato le cartolarizzazioni dei mutui subprime oppure i relativi Cdo?
Questi strumenti in Europa vengono acquistati da investitori istituzionali capaci di valutarne i rischi: le tranche con rating più alto, dalla AAA alla A, sono anche quelle di importo più grande e vengono acquistate persino da fondi pensione, compagnie di assicurazione e fondi comuni d’investimento. Le tranche con rating più basso, dalla BBB alla BB, hanno importi di dimensioni piccole e presentano alti rischi: vengono acquistate soprattutto da hedge fund o gestori di patrimoni. I Cdo hanno un pessimo mercato secondario: è difficile rivendere il titolo prima della scadenza. Negli Usa sono stati venduti anche al risparmiatore privato.

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CORRIERE DELLA SERA LUNED 20/08/2007
FEDERICO FUBINI
Stiglitz: per la «bolla» americana siamo alla resa dei conti. MILANO – Come teorico, è inviso ai mercati forse perché ha messo a fuoco lo spettro di cui adesso ora tutti hanno paura: il «moral hazard », il rischio di incoraggiare nuovi eccessi quando le autorità intervengono a salvare gli speculatori da se stessi. Come ex consigliere di Bill Clinton e capoeconomista della Banca mondiale, è invece cordialmente detestato nelle banche centrali e al Fondo monetario internazionale per come criticò i palazzi di Washington durante le crisi finanziarie degli anni 90. Joseph Stiglitz è un premio Nobel dell’Economia che non teme di urtare influenti sensibilità, forse ama farlo. Anche mentre segue la tempesta finanziaria di questi giorni.
La Federal Reserve si è precipitata a ridurre i tassi d’interesse, altri tagli molto probabilmente seguiranno. Genera «azzardo morale» o fa la scelta giusta?
«Entrambe le cose – risponde Stiglitz dalla casa delle vacanze a Bali ”. Gli interventi alimentano il rischio che qualcuno pensi di godere di un’immunità e assuma altri rischi scriteriati. Ma una banca centrale responsabile si deve concentrare anche sui problemi immediati, la mancanza di liquidità e la sclerosi del credito. La Fed ha fatto una scelta comprensibile e ragionevole».
Anche quando ha prestato decine di miliardi alle banche, accettando in garanzia titoli immobiliari che nessuno vuole?
«Lì c’è un problema. Iniettare liquidità comprando grandi quantità di mutui equivale a un salvataggio di investitori che non hanno fatto i loro compiti a casa. Questo sì, esaspera l’azzardo morale più del necessario».
Mutui a condizioni discutibili, rivenduti sulla base di rating concessi in collaborazione con le banche emittenti. Truffa o innovazione?
«Da tempo dico che ci sono elementi di truffa. I responsabili degli eccessi degli anni 90, quelli che allora hanno fatto molti soldi, li ritroviamo tutti qui. Ma ora le vittime sono alcuni fra gli americani più poveri. Secondo alcuni calcoli 1,7 milioni di persone rischiano di perdere la casa: proporrei che le autorità aiutino loro, non gli investitori speculativi».
La Fed deve coniare denaro per salvare le famiglie indebitate, anziché prestarlo alle banche che hanno mutui a rischio?
«No, ma ci sono varie misure possibili. Si può cambiare la legge sulla ristrutturazione dei debiti, che oggi costa enormemente. Si può creare una linea di credito per la casa per ricomprare i mutui a un forte sconto e poi rivederne le condizioni. Così gli investitori ingoierebbero le loro perdite e intanto ci si potrebbe assicurare che alle famiglie non vengono sequestrate le abitazioni».
 una crisi grave come quella che lei visse alla Banca mondiale nel ’97-’98?
«Dipende dal punto di vista: per chi ci perde la casa è molto più grave. Le ripercussioni finanziarie globali hanno somiglianze con allora ma non sappiamo ancora tutto, molte implicazioni devono ancora venire alla luce. La cartolarizzazione dei crediti immobiliari ha distribuito il rischio nel mondo. L’America ha spostato l’onere dei crediti in sofferenza sugli altri».
Vuole dire che i derivati hanno impedito forti perdite localizzate su un solo soggetto, ma il contagio è più vasto?
«Esatto. E gran parte della gente con cui parlo è convinta che il problema non si limiti solo ai "subprime" ma sia più vasto».
 l’altra faccia dei cosiddetti «squilibri globali », con l’America in forte deficit dei conti verso il resto del mondo e i Paesi emergenti in forte surplus?
«Di certo c’è un aspetto di alto indebitamento della società americana. Il tasso di risparmio è sceso sotto zero. Consumi basati sul continuo prendere soldi a prestito non potevano andare avanti. Ed è chiaro che l’impatto è più diffuso perché la politica economica di George W. Bush, la peggiore dai tempi di Herbert Hoover (1929-’33, ndr), ha spinto ancora di più la gente a vivere oltre i propri mezzi. Ora è arrivato il giorno della resa dei conti».
Ora i fondi di «private equity» in cerca di vie d’uscita dagli investimenti venderanno le controllate ai cinesi?
«Be’, alcune delle principali fonti di risparmio oggi sono in Asia. Chi le detiene vorrà conquistare più posizioni di prima nell’azionariato di imprese occidentali e sarà difficile dir loro di no».

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IL SOLE 24 ORE, 21/08/07
SIMONE FILIPPETTI
Melcher guadagna sul ribasso. NEW YORK. Due anni fa quando i portafogli di molti investitori si gonfiavano di mutui subprime e il mercato immobiliare saliva a razzo, Jim Melcher decise di andare controcorrente: il suo fondo hedge, Balestra Capital, scommise su un ribasso. «Ho iniziato ad andare corto sulle azioni del settore immobiliare nel 2005», ricorda ora Melcher: e mentre molti colleghi gestori di fondi si disperano di fronte ai monitor cercando di arginare le perdite, Balestra sta guadagnando l’80% e lui è in partenza per una vacanza a Parigi. D’altronde questo è il mestiere di un hedge fund: andare contro il mercato. E adesso che la crisi dei sub-prime è esplosa, travolgendo i mercati c’è chi sta guadagnando. Il fondo Balestra non è il solo: lontano da Wall Street, a Dallas nel profondo sud, i manager di Hayman Capital, un altro fondo speculativo che gestisce più di 500 milioni di dollari, stanno contabilizzando guadagni del 240% da inizio anno. A luglio, mentre la bolla mutui iniziava a scoppiare, Hayman in un solo mese ha visto rivalutarsi il proprio portafoglio del 60 per cento. Sta guadagnando anche Patrick McMahon, a capo di Mkp Capital, maxi-hedge da 5,5 miliardi che avendo puntato sul ribasso dei subprime ora registra rialzi compresi tra il 10 e il 26% per i suoi cinque fondi grazie a investimenti ”contrarian” su debito a rischio: oltre ai mutui anche i junk bond. Altri fondi speculativi escono vincitori dalla bufera dei mercati: tra questi Lone Pine Capital, hedge gestito da Stephen Mandel Junior, che ha incassato un +5% a luglio e un +20% da inizio anno.
Il segreto del successo? Non è stata la sfera di cristallo, ma più semplicemente questi gestori hanno saputo cogliere i segnali che da mesi i mercati mandavano, ma che la maggior parte degli investitori non ha visto, indaffarata com’era a godersi il boom dell’azionario. «All’inizio è stata poco più di una scommessa: abbiamo investito su una caduta dei subprime solo l’1% del fondo perché era una mossa rischiosa» spiega Melcher che gestisce 210 milioni di dollari. La mossa non ha pagato subito: a fine 2006 Balestra aveva perso il 3,5%. Ma adesso il bilancio del fondo è in attivo dell’80%: magari ci si poteva anche attendere di più, ma il fondo di Melcher, nato nel 1999 ha un portafoglio diversificato: fa carry trading (specula sulle valute), investe in materie prime e azioni. L’intuizione vincente è arrivata quando si sono manifestate le prime avvisaglie del deterioamenteo del mercato immobiliare: l’erogazione di mutui più rischiosi, l’aumento di ritardi e insolvenze nei pagamenti delle rate e infine il maggior numero di pignoramenti di case. Così dopo l’iniziale investimento, lo scorso ottobre Melcher ha deciso di fare il ”contrarian” sul serio: ha scommesso 10 milioni sul ribasso dei bond legati ai mutui tramite derivati; poi a febbraio, con un tempismo da orologio svizzero, ha iniziato a vendere direttamente ”mortgage based securities” (titoli garantiti da prestiti). Adesso che ha dimostrato di aver ragione, Melcher si spinge oltre e predice la caduta di numerosi suoi colleghi. Pochi hedge hanno cavalcato l’onda ribassista. Anzi, ci sono proprio i fondi speculativi tra le cause dell’attuale bufera in Borsa: gli hedge, infatti, si sono riempiti di mutui-bond, i titoli generati dalla cartolarizzazione di prestiti erogati a clientela ad alto rischio solvibilità. Ora che fioccano i default di proprietari di case la carta che i fondi hanno in portafoglio sta perdendo rapidamente valore. Allo stesso tempo il peso degli hedge sulle Borse è diventato molto più marcato che in passato perchè le loro dimensioni si sono ingigantite e fanno un uso sempre più crescente di denaro preso a prestito per aumentare i guadagni: ma l’effetto leva, nei casi credit crunch, causa una reazione opposta, ossia aumenta le perdite.
«Non mi stupisco se diversi hedge tracolleranno» predice Melcher, sostenendo che la bufera è appena cominciata. «Siamo all’inizio di una fase Orso perché la crisi sta avendo un impatto anche sulla psicologia degli investitori: noi siamo ancora corti di subprime». E dopo di loro «le prossime vittime saranno i junk bond e le obbligazioni high-yield».

• Chiamiamolo Bill Jackson, l’equivalente del nostro signor Rossi. Nel 2004 - e anche adesso a dire il vero - non se la passa bene: in gergo le banche Usa lo chiamano «Ninja», «no income, no job, no assets»: nessun reddito, nessun lavoro, nessun patrimonio. Eppure vuole mettere radici e nonostante la sua situazione difficile e il conto in banca che piange riesce a ottenere un mutuo da 200 mila dollari per comprarsi una casa in Florida. Come fa? Semplicissimo: può aver pagato 50 dollari a un sito Internet che gli manda una busta paga dove c’è scritto che Bill Jackson è un suo «collaboratore». Oppure Mister Jackson ha trovato una banca che ha accettato di concedergli un mutuo «subprime» - traducete pure «di serie B» - per pagare la sua casa al 100%. Impossibile? No, di nuovo semplicissimo: nel 2004 i tassi di interesse Usa sono all’1%, cioè il denaro è quasi gratis, e in più i prezzi delle case salgono senza fermarsi mai. Se il signor Jackson non sarà in grado di ripagare il suo mutuo - che è a tasso variabile ma nei primi due anni ha una rata molto bassa - la banca sarà felice di far valere l’ipoteca sulla sua casa. Dunque la banca - chiamiamola la All American Bank - sborsa i suoi 200 mila dollari e registra il credito verso il cliente.
Certo si è presa un bel rischio. Ma niente paura: due settimane dopo la All American mette assieme un bel pacco di mutui simili a quelli del signor Jackson, diciamo per un ammontare di 50 milioni di dollari, e li infila tutti dentro un Spv o «Special Purpose Vehicle». In pratica crea una società per uno «scopo speciale»: quello di piazzare i mutui non sopraffini che ha stipulato trasferendo a qualcun altro buona parte del rischio che si è accollata e dei rendimenti che potrebbe ottenere.
Quella società emette dei titoli di debito che sono divisi in quattro categorie: equity, debito mezzanino, subordinato e senior. Più si va avanti nella lista e più cala il rischio, ma anche il rendimento. La All American Bank si tiene un 5% dell’equity - da quel momento, quindi su quei 50 milioni rischia al massimo solo 2,5 milioni - e vende il resto. Chi compra gli altri titoli? Tutti quelli che in un’epoca di tassi bassi cercano rendimenti alti. Come i fondi speculativi ma anche la Extra Europa Bank, un grosso istituto continentale che ne acquista per 25 milioni. Si tratta comunque di Abs - in questa storia c’è un sacco di inglese - ossia di «Asset backed securities», obbligazioni garantite da patrimoni reali che sarebbero poi il trilocale di Mister Jackson e mille casette uguali.
A questo punto, però, la Extra Europa Bank, che ha comprato gli Abs, vuole mettersi al riparo da rischi eccessivi. Si rivolge allora a qualche mago della finanza che prende quegli Abs, li unisce d altri crediti - ad esempio sui prestiti per comprare auto - e confeziona un Cdo o Collateralized Debt Obligation. Si tratta di un derivato - il suo valore, cioè, «deriva» da qualcosa, in questo caso dagli Abs - che viene anch’esso collocato ad investitori in cerca di rendimenti alti. Loro possono guadagnare molto se gli Abs vanno bene, cioè se il signor Jackson e i suoi compagni ripagano i loro mutui, e perdere molto se questo non è il caso. Un bel pacchetto di Cdo finisce nel portafoglio dei fondi monetari della francese Banque Privé, che in tempi di tassi così bassi hanno difficoltà a soddisfare i loro sottoscrittori. Un altra tranche va alla ZZZ Bank di Berlino.
Siamo a metà del 2007. Mister Jackson non riesce più a pagare la rata del mutuo perché i tassi Usa sono saliti al 5%, allora la banca farà meglio a esercitare l’ipoteca e vendere la sua casa. Ma i prezzi dell’immobiliare in Florida non sono più saliti, anzi quel trilocale da 200 mila dollari adesso ne vale 170 mila. C’è una perdita - in realtà decine di migliaia di singole perdite - ma la All American Bank ne dovrà affrontare solo il 5%. Il resto, il 95% del rosso, va agli altri sottoscrittori dei suoi Abs. Soprattutto quelle perdite si ripercuotono sui Cdo.
A Lione Henry Blanc chiama la Banque Privé: ha sentito troppe notizie negative prima di partire per le vacanze vuole vendere le quote dei suoi fondi di liquidità. «Spiacente Monsieur, abbiamo sospeso l’acquisto o la vendita di quote dei suoi fondi perché hanno investito molto in strumenti legati ai mutui ”subprime” e non riescono nemmeno a fare un prezzo». A Berlino Fritz Mayer guarda sconsolato scendere le sue azioni della ZZZ Bank. In Florida Mister Jackson ha perso la casa, in Europa Monsieur Blanc ed Herr Mayer hanno perso la tranquillità e - forse - una parte dei loro risparmi.

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CORRIERE DELLA SERA, MARTED 21/08/2007
MARIKA DE FEO
Papadia, l’ italiano che apre i rubinetti dell’ euro. FRANCOFORTE - Per la Banca centrale europea i giorni di massima allerta si sono attenuati, e il taglio del tasso di sconto della Fed ha portato a una tregua nei mercati. Ciò non toglie che ai piani alti della Eurotower prosegua intenso il monitoraggio delle grandi banche e dei mercati, sulla falsariga di quanto avvenuto fra giovedì nove e martedì quattordici agosto, nei giorni drammatici degli interventi plurimiliardari effettuati dalla Bce per riportare ordine nei mercati e ridare fiducia agli operatori. Decisioni prese formalmente a tempo di record dal Consiglio direttivo guidato dal presidente Jean-Claude Trichet. Ma chi ha curato la regia di questi interventi su una scala senza precedenti nella storia della Banca centrale di Francoforte? Francesco Papadia. Un italiano, direttore generale del dipartimento-chiave di «Operations», responsabile per la preparazione, il coordinamento e l’ esecuzione delle operazioni di politica monetaria dell’ Eurosistema, nonché per gli investimenti delle riserve internazionali della Bce. Un «cool italian» - un italiano freddo e con i nervi saldi - come giudicano in Bce il romano 60enne, laureato in legge ad Ancona e con master in Economia conseguito alla Lse di Londra. E giunto a Francoforte, contemporaneamente a Tommaso Padoa-Schioppa (allora membro del board) fin dalla costituzione della Bce, nel 1998, dopo 25 anni di esperienza in Banca d’ Italia, per realizzare il sogno della sua vita: la creazione della moneta unica europea. Che è stata un po’ il «filo rosso» della sua carriera. Fin da quando, assistente di Carlo Azeglio Ciampi (allora governatore di Bankitalia) preparava i dossier per il Comitato Delors. O quando, come vice di Fabrizio Saccomanni (ora direttore generale di Bankitalia) ai Servizi dei rapporti con l’ estero di Bankitalia, fra il ’ 92 e il ’ 95, preparava gli interventi sulla lira. O lavorava come consigliere economico con Padoa-Schioppa al Comitato per gli affari economici e finanziari della Commissione. O come rappresentante di Bankitalia alla conferenza intergovernativa del Trattato di Maastricht. Probabilmente, con la sua esperienza, Papadia avrà seguito con preoccupazione per mesi il montare dei problemi nel «subprime» americano. E poi, dicono in Bce, quel fatidico giovedì 9 agosto, proprio mentre stava per andare a godersi le meritate vacanze in Toscana, ha dovuto rimandarle. Perché la Bce è dovuta intervenire con un’ iniezione da 95 miliardi di euro nei mercati «overnight», per alleviare le difficoltà di finanziamento sorte nel cuore dei mercati degli scambi di liquidità a breve. La Bce ancora non commenta i dettagli di quanto avvenuto in quei momenti drammatici. Ma non è difficile immaginare che Papadia e il suo dipartimento siano rimasti in continuo contatto con la ventina di banche più importanti e i colleghi delle altre banche centrali nazionali e estere, per capire quello che stava succedendo. E, come è accaduto nelle crisi precedenti, affrontate dalla Bce, Papadia avrà elaborato possibili linee di intervento. Che avrà sottoposto al board, per una decisione urgente. Autorizzazione ottenuta, e eseguita, probabilmente, a tempo di record, «per assicurare l’ ordinato funzionamento dei mercati», come ha spiegato Trichet martedì 14 agosto. Fino a quando, non è ancora chiaro, perché di certo i banchieri centrali di Francoforte non sono ancora del tutto tranquilli. Ma in nove anni sotto la guida di Papadia, il dipartimento di «Operations» - chiamato «la finestra, il ponte fra la Bce e il mercato» - ha sviluppato nervi saldi, reagendo all’ attacco terroristico dell’ 11 settembre 2001, ai momenti difficili sui mercati dei cambi nel 2000, e simulando crisi finanziarie, spiegano gli operatori esperti di politica monetaria, che ha permesso alla Bce di stilare una specie di mappa dei percorsi da seguire per elaborare le soluzioni necessarie ad agire.


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CORRIERE DELLA SERA, MARTED 21/08/2007
Fubini Federico
«I rating? Non ci pentiamo di niente Ma il flop delle case ci ha sorpreso». MILANO - A Wall Street, a Bruxelles, nelle code in banca: tutti danno la colpa a loro. Nella crisi dei «subprime», i mutui americani a rischio, gli analisti delle agenzie di rating catalizzano l’ ira. Da grandi saggi del mercato, di colpo si sono trasformati in untori presunti dell’ epidemia finanziaria. Dopo settimane di silenzio, adesso Moody’ s spiega il suo punto di vista. Lo fa, senza complessi, con Michael Kanef: direttore generale di gruppo per il settore Abs, quello delle emissioni garantite dai beni immobiliari, Kanef è al cuore del mercato oggi nella tormenta. Le perdite sono molto forti. Superano le vostre previsioni? «Da qualche tempo c’ è una debolezza nelle condizioni macroeconomiche e nel mercato immobiliare, oltre che nella sottoscrizione dei titoli e nell’ emissione dei mutui. Tenga conto che il mercato ci considerava prudenti: fra il 2004 e il 2006 abbiamo aumentato del 30% le nostre proiezioni sulle perdite, mentre sul mercato i premi di rischio calavano». Vi accusano di non aver previsto la caduta del valore delle case presentate a garanzia dei crediti che valutavate. così? «L’ intero mercato è rimasto sorpreso dalla scala delle perdite e dalla debolezza del mercato immobiliare. Però nei nostri rating noi valutiamo molte opzioni diverse. Quando diamo una valutazione più bassa, gli investitori capiscono che il rischio di insolvenza è più alto e chiedono interessi più alti». Ma i titoli legati ai subprime in «tripla A», il massimo dei voti, danno interessi più alti delle obbligazioni «tripla A» della Repubblica tedesca. Come si spiega? «Perché c’ è meno liquidità su certi mercati, che in questa fase sono trainati dall’ avidità e dalla paura». Lavoravate fianco a fianco con gli emittenti, che vi pagavano. un conflitto d’ interessi? «Il nostro modello prevede che l’ emittente ci paghi, è vero, ma prendiamo misure per garantire che gli analisti non siano al corrente delle transazioni e che non vengano remunerati in base ai bei voti che danno, bensì sulla qualità del lavoro. E i rating non li decidono i singoli, li mettiamo ai voti in comitati di 5 o 8 persone». Avete appena declassato titoli per altri 19 miliardi di dollari. Va bene l’ accuratezza, ma non arrivate un po’ tardi? «Moody’ s ha iniziato a agire sui rating legati ai "subprime" nell’ ultimo trimestre del 2006, in certi casi su emissioni dello stesso anno». Quelli erano pochi titoli, no? «Meno di quelli declassati di recente. Ma dal 2002 al 2006 abbiamo pubblicato molto sull’ aumento dei rischi. Ciò detto, non possiamo fare revisioni approssimative, dobbiamo vedere i dati e studiare titolo per titolo. Del resto i premi di rischio sono saliti solo a febbraio, ben dopo che ci siamo mossi noi. Siamo sempre stati attivi e trasparenti sui rischi dei titoli compositi. Il problema è stato la severità della caduta del mercato immobiliare, più forte del previsto». Nessun conflitto d’ interesse scappato di mano, nessun ritardo. Dunque non avete sbagliato proprio nulla? «I nostri rating sono basati sui dati che abbiamo al momento dell’ emissione e all’ epoca abbiamo attinto a tutte le informazioni disponibili». Nelle stesse condizioni rifareste tutto come prima? «Esatto. Ci sono molte ragioni per cui la gente ora scappa e i valori dei titoli cadono. Una è l’ assenza di liquidità, non la solvibilità che noi valutiamo». Insomma, hanno fatto di voi un capro espiatorio? «Non dico questo. C’ è un malinteso, molti nel mercato non capiscono in pieno quel che facciamo. Noi abbiamo un ruolo limitato, valutiamo la solvibilità dei crediti. Sta dicendo che non siete importanti come si crede? «Non ho detto questo. Ognuno nel mercato ha il suo ruolo specifico, noi il nostro».


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IL FOGLIO MERCOLED 22/08/07
Mutui soccorsi
Crisi di liquidità / 1
Nell’inizio di settimana la crisi di liquidità dei mercati finanziari internazionali è continuata. Ciò è avvenuto nonostante le iniezioni della Bce e della Federal Reserve e nonostante la decisione, che essa ha attuato venerdì, all’inizio della seduta, di ridurre di 0,5 punti il tasso di sconto e di accrescere a un mese lo sconto alle banche sulla carta commerciale (asset backed commercial paper, abp) per fronteggiare il prosciugamento del contante del mercato monetario. Ciò che è in crisi, per rischio di insolvenze, non è il mercato delle abp, ma quello delle obbligazioni che hanno per controvalore i mutui immobiliari o titoli analoghi, cioè le asset backed securities, abs. Come mai, dunque, si è prosciugato il contante per le abp? La spiegazione è che, d’improvviso, è aumentata la preferenza per la liquidità. Secondo la teoria di John Maynard Keynes, essa si accresce, per ”motivi precauzionali”, quando c’è molta incertezza. Tali motivi non risiedono necessariamente nel timore di insolvenze dovute a fatti sostanziali o a carenze di cassa. Esso esiste, è notevole, ma non va sopravvalutato. La preferenza per la liquidità è aumentata anche perché c’è chi si tiene liquido per profittare delle situazioni di crisi e delle cadute di valori per investimenti vantaggiosi. Sembra, ad esempio, che Warren Buffett si stia preparando ad acquistare il controllo della statunitense Countrywide financial, leader nel campo dei mutui immobiliari, le cui azioni sono state colpite duramente dalla crisi dei subprime.

Ricerca di liquidità / 2
La carenza di liquidità nei mercati internazionali, soprattutto in quello monetario ha come causa ed effetto l’acquisto di titoli a breve del Tesoro Usa e degli stati europei. Questi titoli sono quasi moneta, in quanto a breve scadenza si traducono in contante. Appaiono un impiego sicuro, oltreché certo, poiché tutti li accettano. I più ricercati sono i titoli del Tesoro Usa, che hanno raggiunto una quotazione aggiuntiva, rispetto al valore facciale, che non avevano da 19 anni a questa parte. Ciò non accade solo per la domanda di operatori dell’area del dollaro, come ci si potrebbe attendere. C’è anche quella degli operatori di altre aree, comprese quelle asiatiche e l’area dell’euro. Infatti, la quotazione dell’euro col dollaro, che era arrivata a 1,38 si è ridimensionata a 1,34. Ciò dimostra che si stanno vendendo euro per comprare dollari. Non si può spiegare una variazione di quotazioni valutarie di questa ampiezza, in pochi giorni, con un improvviso miglioramento della bilancia commerciale Usa verso eurolandia, né con un’improvvisa frenesia europea di shopping a Wall Street. Emerge così l’ipotesi di una corsa ai titoli a breve del governo di Washington proveniente dall’area dell’euro. Ciò sembra paradossale dato che la crisi dei subprime è nata negli Usa, non in Europa, e sta colpendo molti più operatori americani che europei. Nei periodi di difficoltà, il dollaro appare ancora come la moneta più sicura e il Tesoro degli Usa come l’impiego migliore. Nonostante tutte le critiche di questi giorni, la Federal Reserve è l’autorità monetaria che dà maggiore affidamento mentre l’Amministrazione Bush, appare in saldo controllo dell’economia.

Riserve di liquidità / 3
C’è anche chi, nell’attuale situazione finanziaria sprigiona ottimismo. Così la Borsa australiana è in crescita e ottimista. E i leader australiani affermano che è bene che la Fed non abbassi il tasso, plaudono all’aumento attuato dalla Cina, vedrebbero con favore un ritocco in su della Banca centrale giapponese e della Bce. La ragione non sta nel timore di una inflazione internazionale che possa contaminare l’Australia, ma nel fatto che le compagnie australiane, che stanno incassando molto denaro con le materie prime, sperano di effettuare buoni investimenti nelle imprese estere in difficoltà. Fra gli operatori dotati di liquidità non c’è solo Warren Buffett.


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LA STAMPA, MERCOLED 22/08/2007
MAURIZIO MOLINARI
Countrywide rischia il collasso, dunque si profila come un buon affare. Questo deve aver pensato Warren Buffett, il guru di Wall Street con i natali a Omaha nel Nebraska, di fronte alle difficoltà del gigante dei mutui, al quale una iniezione di capitali da oltre 11 miliardi di dollari non ha evitato di dover licenziare cinquecento dipendenti nelle ultime 48 ore, rinnovando i timori di collasso. Le difficoltà finanziarie originatesi dai mutui subprime premono su Countrywide perché si tratta della più grande società di mutui degli interi Stati Uniti: sono decine di milioni gli americani che gli versano rate ogni mese. Ma proprio le dimensioni dell’impero immobiliare solleticano l’interesse di Buffett che, secondo alcune indiscrezioni pubblicate dal Wall Street Journal, sarebbe interessato ad acquistare almeno «alcune parti» dell’impero in disfacimento e, in particolare, i suoi servizi finanziari.
D’altra parte Berkshire Hathaway, la società di investimenti di Buffett, non è estranea al settore dei mutui immobiliari: all’inizio di agosto ha reso pubblico l’investimento fatto nella divisione mutui di Bank of America Corp e da tempo è azionista di Wells Fargo & Co., ovvero il secondo colosso in questo segmento, proprio alle spalle di Countrywide.
A conferma dell’interesse per il settore in crisi Buffett pochi giorni fa aveva confessato alla tv Cnbc che «il peggioramento del credito e del settore immobiliare offrono delle reali opportunità di investimento». Per capire il perché bisogna entrare dentro i meccanismi del sistema immobiliare degli Stati Uniti: se una società di mutui fallisce i prestiti passano tali e quali nelle mani della nuova azienda che li rileva, potendo così contare sulle entrate certe di quell’alta parte di cittadini che versa puntualmente le proprie rate, anche perché la legge garantisce l’intoccabilità dei contratti già sottoscritti che non sono dunque rinegoziabili. In altre parole le società di mutui consentono a chi ne è proprietario di avere un’imponente entrata di liquidi ogni mese, che possono poi essere utilizzati per ulteriori investimenti. Da qui il riferimento al «buon affare» in vista per Warren Buffett, anche se lui è subito corso ad affermare che si tratta «solo di speculazioni». I liquidi per tentare l’operazione comunque non gli mancano: nei forzieri di Berskshire vi sono 47 miliardi di dollari in contanti oltre ad un patrimonio di 74 miliardi di dollari in azioni e 27 miliardi di dollari in titoli di Stato. «Possono spendere soldi più velocemente di Imelda Marcos» assicura Buffett riferensosi all’ex moglie del presidente delle Filippine note per i frequenti acquisti di scarpe di lusso. Sul fronte dell’opinione pubblica le indiscrezioni del Wall Street Journal sono destinate a riportare, almeno per il momento, il sereno come testimoniato dall’andamento dei titoli di Countrywide che ieri hanno registrato sui mercati finanziari un balzo in avanti del 6 per cento, toccando quota 21 dollari, con una brusca inversione di tendenza rispetto agli ultimi giorni.

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IL SOLE 24 ORE, MERCOLED 22/08/2007
Simone Filippetti
Mutui, la crisi brucia 15mila posti. NEW YORK. Il terremoto mutui ha già presentato un conto salato all’America: l’industria del settore in un solo mese ha perso circa 15mila posti di lavoro, che salgono a 21mila considerando l’intero comparto finanziario.
L’annuncio più recente, ma non sarà l’ultimo, è arrivato ieri sera da Capital One: la finanziaria di carte di credito, chiuderà Greenpoint, la sua divisione mutui. Una decisione che ha portato alla perdita del posto di lavoro per 1.900 impiegati: il totale nel business dei mutui, calcolato dal Sole 24 Ore in base ai dati resi noti dalle aziende, è di 14.790 persone. Il crack dei mutui sub-prime travolge ogni giorno nuove compagnie e il dato è approssimativo per difetto perché ci sono decine di piccoli operatori sparsi nel Paese e il cui numero di impiegati non è disponibile.
Secondo la società di consulenza Challenger, Gray&Christmas nell’industria finanziaria nel suo complesso ci sono stati oltre 86mila tagli di personale da inizio anno, di cui 20.957 in agosto e 11mila nell’ultima settimana. L’impatto più forte è stato quello di American Home Mortgage (Ahm), il gruppo finanziario che è finito in crack ai primi di agosto e in un solo giorno ha licenziato 6.500 dipendenti via e-mail. E un modo analogo è stato utilizzato da Countrywide, la più grande finanziaria del Paese, che via e-mail ha annunciato ai dipendenti licenziamenti, senza però specificarne l’entità. Il colosso del credito ha 61mila lavoratori e un portafoglio di 1.400 miliardi di dollari, ma i tagli interesseranno la divisione Full Spectrum che si occupa di ”origination”, ossia struttura i mutui, dove lavorano 6.800 dipendenti. Tutta la divisione ”origination” conta circa 11mila addetti e se, come sostengono alcuni rumors, i tagli interesseranno il 10%, 2mila persone sono a rischio. Un numero che si aggiunge ai 2.400 dipendenti mandati a casa da Sun Trust Bank, ai 240 di Bear Stearns, uno dei primi broker a essere colpiti, alle migliaia di First Magnus, ai 500 di Novastar e ai 200 di National City.
Se finora numerosi licenziati avevano trovato riparo negli operatori più grandi, adesso anche questa uscita di sicurezza si è bloccata: la stessa Countrywide, che fino a pochi giorni fa aveva reclutato persone tra gli ex dipendenti delle compagnie rivali, ora traballa. C’è anche chi ha trovato un modo un po’ironico di tenere il conto delle finanziarie colpite dal ciclone sub-prime: il sito internet www.mortgagedaily.com, la più affidabile fonte on-line sul mercato dei mutui, ha inaugurato una sezione chiamata ”Mortgage Graveyard” (il cimitero dei mutui), aggiornata quotidianamente: dal 1 di gennaio sono 85 le finanziarie che hanno chiuso i battenti. L’anno scorso soltanto 16. Accanto ai big, la lista degli operatori minori è affollata: nel limbo dell’ibernazione sono finite compagnie in tutti gli Stati Uniti, dalla Chevy in Maryland fino alla Great Soutwest dell’Arizona, passando per la Mlsg del Nevada.
La stretta del credito che ha chiuso il mercato delle cartolarizzazioni, prosciugando la principale fonte di finanziamento per le società di mutui, ha costretto queste ultime a rivalersi sugli immobili che le famiglie hanno dato in garanzia per ottenere prestiti e mutui. Quegli stessi clienti, tra l’altro, faticano a ripagare i loro debiti, come dimostra l’incremento di default e insolvenze nei pagamenti, e un nuovo fronte si apre per le già afflitte famiglie americane, quello dei pignoramenti. A luglio i ”foreclosure”, vale a dire l’escussione di case da parte dei creditori, sono esplosi: RealtyTrac, database sul mercato immobiliare, ha registrato 179mila pratiche di pignoramento, tra avvisi di default, vendite all’asta ed espropri bancari, in tutta l’America. I pignoramenti a luglio sono praticamente raddoppiati dall’anno scorso e gli analisti hanno rivisto al rialzo le stime di foreclosure per l’intero 2007 (da un’iniziale previsione di una crescita del 33% sul 2006).


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IL SOLE 24 ORE 23/08/2007
Mario Platero
Rischio-domino sull’economia Usa. NEW YORK. In questa lunga e preoccupante estate di crisi dei mercati globali, il rischio di contagio dall’economia finanziaria a quella reale è ormai diventato l’argomento del giorno. Anche perché se è vero che ieri il mercato azionario è migliorato, e secondo la Fed potrebbe addirittura stabilizzarsi, dall’economia reale in America giungono un po’ da ogni parte segnali di problemi che non potranno essere risolti senza ridurre la capacità produttiva e dunque la forza lavoro. Questo porterà secondo gli economisti a un ridimensionamento anche fino a 100 punti base delle stime di crescita per il 2008, da un tasso stimato dalla Fed del 3-3,5% al 2%-2,5 per cento.
Dall’economia reale infatti giungono ormai ogni giorno segnali preoccupanti di frenate improvvise, di licenziamenti, di chiusure di intere divisioni. Per ora le notizie negative, con straordinaria rapidità di reazione, riguardano soprattutto il settore finanziario. Lehman Brothers, ad esempio, è stata ieri la prima fra le grandi istituzioni a Wall Street ad aver deciso la chiusura di un’intera divisione, quella che opera nel settore dei prestiti immobiliari, per via del contagio subprime. E ha licenziato in un sol colpo 1.200 persone.
Sempre ieri, la Accredited Home Lenders, un erogatore di mutui di San Diego, ha annunciato il licenziamento di 1.600 persone, più della metà della sua forza lavoro e ha sospeso l’avvio di nuove domande per credito immobiliare.
La grande mina di Hsbc
Con il numero totale dei licenziati subprime quasi a quota 18.000 in poche settimane, ci si domanda cosa succederà se colossi come la Hsbc dovessero improvvisamente trovarsi in difficoltà. Secondo indiscrezioni che circolano con insistenza a Wall Street, la Hsbc, che già alcuni mesi fa, agli albori della crisi, contabilizzò in perdita svariati miliardi di dollari in carta subprime, avrebbe ancora un’esposizione vicina ai 16 miliardi di dollari in titoli non garantiti. Ma le notizie scoraggianti arrivano anche dal settore auto, uno dei più vulnerabili a una crisi di fiducia - e di spesa - dei consumatori. La Gm, ad esempio, ha annunciato ieri di aver ridotto i turni di produzione in sei delle sue fabbriche.
Un portavoce dell’azienda ha dichiarato che ai ritmi della domanda di queste settimana vi sono scorte per ben 114 giorni soprattutto per modelli di alta cilindrata e per i Suv. Ci si aspetta a breve un annuncio simile anche dalla Ford, mentre la Chrysler si trova nel mezzo di una ristrutturazione a tutto campo sotto la nuova proprietà del fondo Cerberus. Un altro settore da dove provengono brutte notizie è ovviamente quello immobiliare: i prezzi delle case ormai sono in caduta costante, le difficoltà a rinnovare o sottoscrivere mutui di alto valore stanno colpendo il settore del lusso che, soprattutto in città come New York, aveva resistito alla crisi generale diffusa nel resto del Paese.
Si aggiunga che il numero dei grandi compratori degli ultimi anni, in arrivo proprio dal comparto finanziario, subirà un forte ridimensionamento per gli inevitabili tagli dei bonus di fine anno. Il settore delle costruzioni, uno dei traini della crescita economica negli ultimi sette anni, è anch’esso avviato verso una brutta crisi: la Toll Brothers, specializzata in costruzioni e sviluppi di complessi di case di qualità, ha dichiarato ieri una caduta dei profitti dell’85% ed ha registrato un blocco degli ordinativi. "Abbiamo avuto il più forte numero di ordini cancellati nei 21 anni della nostra storia" ha dichiarato l’amminsitratore delegato Robert Toll.
 assai verosimile che tutto questo porterà a breve un impatto negativo per il consumatore americano, che rappresenta il 70% del Pil.
In questo contesto vi sono già delle indicazioni che abbiamo raccolto in conversazioni con economisti americani: per la seconda metà dell’anno l’impatto di questa crisi si tradurrà in una diminuzione dello 0,5% del Pil nel quarto trimestre e dello 0,25% per la seconda metà dell’anno, con stime medie di crescita del 2,5% per il terzo trimestre e del 2% per il quarto trimestre. In apparenza nulla di devastante. Ma l’impatto più forte ci sarà nel corso del 2007 con una diminuzione forse dello 0,7% del tasso di crescita americano su base annuale soltanto sulla base di quel che è successo in queste ultime due settimane. Il tasso di crescita per il 2008, stimato dalla Fed fra il 2,5% e il 3%, scenderà come minimo al 2% e forse anche più in basso.
Le ipotesi sulla recessione
Le probabilità di una recessione inoltre, fino a due mesi fa calcolate mediamente dagli economisti nel 15%, sono più che raddoppiate, con una probabilità calcolata oggi nel 35%. Saranno i licenziamenti, la prudenza da parte delle aziende - che si tradurrà in una riduzione della capacità produttiva - ad avere un impatto sul tasso di disoccupazione e immediatamente dopo sulla propensione al consumo degli americani rispetto a un trend storico medio di aumento del 3-3,5% dei consumi: l’anno prossimo ci si aspetta un aumento del 2%.
Il tasso di disoccupazione, oggi al 4,6%, potrebbe salire anche fino al 5,5%, un livello non buono per un’economia come quella americana ormai dominata dal settore dei servizi. Se poi il tasso di disoccupazione salisse fino al 6% allora le probabilità di una recessione o di una diminuzione del tasso di crescita all’1%, considerato nell’economia di oggi un livello di crescita recessiva, passeranno dal 35% al 70 e persino all’80 per cento.
"Non si tratta di stime casuali, i dati parlano chiaro e il tasso di crescita diminuirà" - dichiara Allen Sinai, responsabile di Decisions economics - e da qui alla fine dell’anno stimo due tagli sui tassi sui Fed Funds, di 25 punti ciascuno?


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LA REPUBBLICA GIOVED 23/08/2007
ETTORE LIVINI
Mutui, la crisi brucia milioni tremano i re delle stock option. MILANO - Nessuno, alla fine, piange miseria. La crisi dei mutui subprime però ha dato un bel colpo di forbice non solo ai risparmi dell´italiano medio, ma anche al mondo dorato delle stock-option: quell´Olimpo ristretto di supermanager che grazie alla corsa di Piazza Affari degli ultimi anni e agli incentivi azionari si è gonfiato il portafoglio di guadagni stratosferici. E che oggi, complice il momento difficile dei mercati, ha visto cancellati in poche settimane milioni di potenziali plusvalenze che si sentiva già in tasca.
La maglia nera delle vittime (si fa per dire) dei mutui a rischio spetta al re tricolore delle stock option, Sergio Marchionne. Il tracollo del Lingotto in Borsa è costato al salvatore di Torino 77 milioni di euro. Un mese fa il pacchetto di opzioni in portafoglio all´ad della casa automobilistica valeva un guadagno teorico di 250 milioni. Oggi la bufera dei subprime ha ridotto questa montagna d´oro a "soli" 175 milioni.
Non sorride nemmeno Carlo Puri Negri, ad della Pirelli Re. Il titolo del suo gruppo (che opera in un settore sensibile come quello immobiliare) è sceso del 36% dai massimi di fine aprile. E il danno patrimoniale del numero uno ammonta a 38 milioni. In questo caso non si tratta solo di mancati guadagni. Puri Negri in passato ha monetizzato le sue stock option in azioni, conservando i titoli in portafoglio. E sul suo pacchetto di Pirelli Re ha perso in poco tempo 30 milioni, più altri 8 di plusvalenze teoriche sui futuri piani di incentivi azionari. Alessandro Profumo ha sacrificato invece sull´altare di subprime 35 milioni, il ritorno del suo "tesoretto" in opzioni a lunghissimo termine (le potrà esercitare dal 2014) andato in fumo negli ultimi mesi difficili per il titolo di Piazza Cordusio.
Un´altra vittima illustre è Roberto Faenza, l´ex ad di Banca Italease. Chi è causa del suo mal però, almeno in questo caso, non può far altro che pianger se stesso. In tasca – prima che scoppiasse il bubbone derivati della società di leasing – aveva plusvalenze ipotetiche per 33 milioni di euro. Oggi, dopo le dimissioni, il suo piano è stato automaticamente cancellato. Ma anche se fosse ancora valido, Faenza incasserebbe solo 4 milioni di euro.
L´elenco delle lacrime di coccodrillo nell´universo delle stock option potrebbe continuare per tutto il listino di Piazza Affari. Il numero uno dell´Eni Paolo Scaroni ha bruciato in poco tempo quasi 6 milioni, come il tandem di Generali Giovanni Perissinotto-Antoine Bernheim. Alberto Nagel, consigliere delegato del management board di Mediobanca, ha perso 9 milioni tra titoli in portafoglio (4,5) e opzioni. Carlo Pesenti, tra Italcementi e Italmobiliare, ha visto sparire 4 milioni di possibili entrate in due mesi.
Quasi 4 milioni ha perso sulle sue azioni IntesaSanpaolo Corrado Passera. La perdita però, almeno nel suo caso, è relativa. L´ad di Ca de´ Sass ha guadagnato negli anni scorsi 35 milioni con le stock option, reinvestendone buona parte in un pacchetto del titolo della sua banca e ritrovandosi oggi, con buona pace dei subprime, con titoli IntesaSanpaolo in portafoglio per un valore di 36 milioni di euro.





LA REPUBBLICA GIOVED 23/08/2007
HUGO DIXON
Ecco perché Bernanke non dovrebbe tagliare i tassi. Ben Bernanke sembra averla capita: il problema non è l´inflazione, ma la liquidità e la crescita. Tuttavia, non solo l´inflazione rappresenta una minaccia maggiore di quanto molti investitori ammettano, ma un´inflazione stabilmente contenuta può essere un obiettivo più rilevante rispetto a un esiguo aumento della crescita. Al Federal Reserve Board manca un tasso di riferimento esplicito, un´omissione che consentì ad Alan Greenspan di tagliare i tassi al minimo accenno di crisi. Bernanke vuole più regole e meno intuizioni, in altre parole vuole un tasso di riferimento esplicito. Ipotizzando che la soglia venisse fissata al 2%, è chiaro che Bernanke ora dovrebbe lavorare di più sul fronte dell´inflazione, che al momento negli Usa è al 2,4%. Questo, forse, spiega il motivo per cui la Fed ha mantenuto la sua propensione all´inasprimento. Una simile cautela infastidisce gli operatori di mercato, che amano i tagli ai tassi veloci, stile Greenspan, il cui effetto sul lungo periodo è discutibile, giacché favoriscono gli eccessi. I sostenitori dei tagli dicono che la crisi attuale è così grave che una riduzione dei tassi è l´unico modo per evitare il tracollo economico. Bernanke farebbe bene, invece, a dare ascolto a Jeffrey Lacker, il presidente della Fed di Richmond, secondo il quale «altri rischi di natura finanziaria che potrebbero danneggiare la crescita economica appaiono di scarso rilievo». Infine, c´è da considerare a chi giovi l´espansione monetaria, tenendo conto che la metà più povera della popolazione Usa non possiede azioni, ma risente dell´inflazione, specialmente sui prezzi alimentari ed energetici. Concentrarsi sull´inflazione per la Fed vorrebbe dire fare di meno per chi si arricchisce nelle bolle e fare di più per la stabilità e gli indigenti.
Ian Campbell


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LA REPUBBLICA, VENERD? 24/8/2007
SARA BENNEWITZ
MILANO - Dopo due giorni di recuperi, arriva la quiete sui mercati finanziari. Anche se l«incertezza continua a regnare sul mercato. A dare tranquillit? ai mercati sono stati necessari due nuovi interventi delle banche centrali: 17,5 miliardi di dollari per la Fed e 40 miliardi da parte della Bce. Una mossa che ha premesso a tutte le piazze del vecchio Continente di chiudere in leggero rialzo, da +0,15% di Francoforte al +0,3% di Piazza Affari. Mentre Wall Street ha viaggiato intorno alla parità per tutta la seduta.
Per la prima volta da settimane, la volatilità dei mercati è tornata sotto i livelli di guardia, un segnale che ha fatto sperare gli investitori, che il peggio potrebbe essere alle spalle. Se l«indice che misura la febbre del mercato è tornato sui livelli di normalità, questo risultato è stato raggiunto solo grazie al massiccio intervento delle banche centrali: sommando l«intervento della Federal Reserve di ieri, dagli inizi di agosto hanno riversato sul mercato risorse per circa 400 miliardi di euro. Ora il timore degli operatori è che il mercato imbocchi quello che in gergo tecnico si chiama un canale laterale: se ciò avvenisse le prossime sedute non dovrebbero conoscere grandi oscillazioni, in attesa dei risultati delle aziende nel periodo luglio-settembre. Trimestre che coincide con lo scoppio della crisi dei muti di cattiva qualità.
Il terremoto dei subprime potrebbe far sentire i suoi effetti anche sull’economia reale, appesantendo i bilanci delle aziende americane, ma non solo. Non a caso ieri per l’ennesima volta la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea sono intervenute per immettere nuova liquidità sul mercato: attraverso tre diverse operazioni l’istituto guidato da Ben Bernake ha offerto ben 17,5 miliardi di dollari, mentre dall’Eurotower di Francoforte sono arrivati altri 40 miliardi di euro.
E ieri, per la prima volta, si sono mosse anche le istituzioni finanziarie private. Bank of America ha comprato due miliardi di dollari in azioni privilegiate Countrywide, una sorta di prestito a un tasso agevolato (7,25%) che avrà come garanzia proprio parte del capitale dell’azienda in crisi, specializzata sui mutui ipotecari. L’intervento della seconda banca Usa ha aiutato ad allentare i timori di un tracollo della società californiana; tuttavia l’amministratore delegato di Countrywide, Angelo Mozilo, ha dichiarato che il mercato immobiliare americano non mostra segnali di miglioramento, tanto che potrebbe anche portare l’economia Usa alla recessione.
Sul futuro dell’economia mondiale, più caute sono state le parole del direttore generale dell Fondo monetario internazionale, Rodrigo de Rato, a suo parere la crisi finanziaria del settore mutui avrà un certo impattoo sulla crescita al punto che le stime del 2007 saranno riviste al ribasso dall’attuale 5%. Rato ha aggiunto, però, che i fondamentali dell’economia a livello globale restano buoni e che gli istituti centrali hanno agito in modo decisivo e appropriato per mantenere sotto controllo la situazione.


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CORRIERE DELLA SERA, SABATO 25/8/2007
GIANCARLO RADICE
La crisi dei mutui ora colpisce la Cina. MILANO - Il crollo dei titoli legati ai mutui subprime americani ora minaccia anche le grandi banche cinesi, quelle con maggiori attività all’ estero. E in Francia, il governo di Nicolas Sarkozy annuncia sgravi fiscali per le famiglie in cerca di casa. Ma ieri, a segnare il tono sui mercati internazionali, sono state soprattutto due notizie, del tutto inattese, sull’ inesorabile propensione alla spesa dei consumatori Usa e sul buono stato di salute dell’ industria. .Innanzitutto, i buoni dati economici Usa sono limitati a un solo mese. E non solo: proprio quei dati, secondo molti analisti, possono contribuire ad allontanare la data in cui la Federal Reserve abbasserà i tassi sui federal funds. Ma, più in generale, gli effetti della «bolla» speculativa sui mutui sono ancora tutti da vedere. Ne è convinto, per esempio, Angelo Mozilo, amministratore delegato di quella Countrywide che è una delle società più esposte: «La crisi del settore porterà a una recessione economica in America», ha scandito senza mezzi termini. Quel che è certo è che negli Usa il numero degli occupati nel settore immobiliare ha già subito una netta contrazione, con 20 mila posti di lavoro svaniti nel solo mese di agosto Dalla Germania, poi, è arrivata ieri la conferma che un’ altra banca esposta nei mutui ad alto rischio, la SachsenLb, ha deciso di mettersi in vendita per effetto delle perdite accumulate. A salvare l’ istituto regionale controllato al 37,04% dal land della Sassonia, sarà un pool di banche attraverso una linea di credito da 17 miliardi di euro. In Francia, invece, proprio per limitare le difficoltà delle famiglie che vogliono comprare casa, il ministro degli Interni Christine Lagarde ha annunciato un credito d’ imposta sugli interessi dei mutui pari al 40% il primo anno e al 20% nei quattro anni successivi. La misura si applicherà a chi ha acquistato un’ abitazione dopo il 6 maggio, mentre il presidente Sarkozy avrebbe voluto addirittura che gli sgravi fossero estesi a chiunque ha contratto un mutuo per la casa, senza limiti di tempo. E la crisi legata ai subprime comincia a farsi sentire anche in Cina, dove la Bank of China ha annunciato che la sua esposizione in titoli derivati dai mutui ad alto rischio raggiunge i 9,65 miliardi di dollari. Alla Borsa di Hong Kong il titolo è precipitato dell’ 8%, ma a Shanghai ha invece guadagnato l’ 1%. Segno che nella madre patria i media trasmettono agli operatori notizie con toni più «rassicuranti», ma anche che il «sistema Paese» è in grado di assorbire quelle perdite senza scalfitture.

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LA REPUBBLICA, VENERD 25/8/2007
HUGO DIXON HUGO DIXON dare alle banche abbastanza denaro per andare avanti e, nel contempo, eliminare qualsiasi supporto di politica monetaria che favorisca l«inflazione ? certamente un atteggiamento elogiabile, ma con tutta probabilit?, insostenibile. Contemporaneamente al recente annuncio di supporto supplementare, fornito con l«immissione di 40 miliardi di euro a tre mesi, la Banca centrale europea ha confermato che la posizione sulla politica monetaria rimane quella del 2 agosto. Rimane quindi in piedi l«aumento dello 0,25% atteso per settembre. L«asta di gioved?, a cui sembra abbiano partecipato 146 banche formulando offerte che hanno superato di ben tre volte i 40 miliardi di euro in palio, ? stata accolta con entusiasmo. Le banche hanno bisogno di fondi perch? molti cosidetti ?ondotti? fondi d«investimento sponsorizzati da banche, non sono in grado di autofinanziarsi nel mercato dei commercial paper e devono chiedere aiuto agli sponsor. Un impegno che si ? gi? rivelato troppo grande per due banche di medie dimensioni tedesche, IKB e Sachsen Landesbank, per le quali si ? reso necessario il salvataggio. Inoltre, la Bce dice di voler tenere bassa l«inflazione, che per? attualmente viaggia all«1,8% rispetto alla soglia del 2% fissata dalla banca. L«istituto dice poi che vuole evitare un surriscaldamento dell«economia, anche se nel secondo trimestre la crescita di Eurolandia ? calata dello 0,3%. Poi c«? la crescita dell«offerta monetaria, che ha favorito gli eccessi finanziari degli ultimi anni. Giustamente la banca centrale vuole rendere pi? difficile per i prestatori imprudenti accedere ai fondi, e le ultime statistiche mostrano che la massa monetaria M3 cresce a un preoccupante tasso a due cifre. Ian Campbell [A spasso per Wall Street] Pochi mesi fa il fascino e gli alti stipendi offerti dagli hedge fund, dalle societ? di acquisizioni aziendali e da Wall Street rendevano quasi impossibile trovare personale per gli impieghi meno allettanti del settore obbligazionario, ma dopo molte settimane di caos nei mercati gli aspiranti ai posti vacanti si sono moltiplicati. La spiegazione logica ? l«incerto futuro che attende molti dipendenti di banche e hedge fund: per quel che se ne sa, finora i licenziamenti hanno colpito alcuni uffici di Bear Stearns e Lehman Brothers direttamente coinvolti nella crisi dei mutui subprime, lasciando indenni le banche, ma anche qui alcuni dipendenti si troveranno a scrutare nel vuoto, tra i quali gli alchimisti che elucubravano collateralised debt obligations e altre diavolerie i cui rating sono stati polverizzati dalla crisi di fiducia. Chi rischia di pi? sono i dipendenti degli intermediari esposti a transazioni finanziarie garantite da ipoteche, come Bear Stearns e Lehman Brothers, societ? il cui coinvolgimento per di pi? ? stato troppo profondo per poter approfittare con qualche colpo di mano della recente volatilit?, come hanno fatto altri operatori pi? diversificati. Alcuni dipendenti potrebbero andarsene spontaneamente per guadagnarsi altrove le gratifiche svanite, anche se i consulenti di acquisizioni (un altro gruppetto destinato ad essere disoccupato) potrebbero trovare sbarrata la porta, una volta spalancata. Tra i perdenti, infine, ci sono anche molti hedge fund, che vedranno l«esodo dei dipendenti dai fondi che chiuderanno verso quelli pi? grandi e consolidati. Richard Beales (Traduzioni a cura di MTC) -

LA REPUBBLICA, DOMENICA 26/8/2007
GIUSEPPE TURANI
Ormai il mondo finanziario è diviso a metà: c´è chi dice che la crisi è stata passeggera e salutare e chi sostiene che invece si è innestato un fenomeno sistemico. A parte le buone ragioni degli uni e degli altri, quello che invece sta chiaramente emergendo sono le condizioni - ma ormai possiamo tranquillamente chiamarle colpe - che hanno generato questa situazione. I colpevoli sono infatti di almeno tre categorie:
1 - Le banche centrali. Che gli hedge fund, gli strutturatori di operazioni (gli ormai famosi "impacchettatori" di subprime, crediti al consumo, private equity e chissà cosa altro ancora) e gli operatori finanziari più spregiudicati stessero progressivamente esagerando con prodotti derivati e cartolarizzazioni di ogni genere lo si capiva da tempo. E lo capivano tutti. Però nessuna banca centrale ha mai alzato un dito contro coloro che stavano inquinando il sistema con iniezioni di droghe sempre più pesanti. Non si é sentita, né in America, né in altri paesi, nessuna revoca di licenze, nessuna limitazione all´attività, nessun maggior vincolo posto a strutture spesso minime e sprovviste anche dei normali criteri di compliance che ogni istituzione finanziaria dovrebbe avere. Dove erano in questi anni le banche centrali? A bearsi dell´esistenza di una liquidità poi rivelatesi più finta che vera? A bearsi del proliferare del numero di intermediari finanziari senza preoccuparsi della loro qualità? Ad alzare e ad abbassare i tassi in modo semiautomatico ma mai - oggi lo si capisce con grande evidenza e lo hanno sottolineato bene Boeri e Guiso in un loro recente studio - in modo veramente «strategico»? Che delusione vederli oggi vomitare in pochi giorni oltre 325 miliardi di dollari sul mercato per turare le falle di una liquidità improvvisamente scomparsa. Non solo, ma sentendo Paulson, il nuovo responsabile dell´economia americana, la crisi é ben lungi dall´essere sanata. Per cui per ora queste iniezioni di liquidità sembrano solo l´inizio.
2 - Le società di rating. Lo hanno detto già in molti ma vale la pena di ribadire che questi teorici garanti di valore e qualità dei titoli sono indubbiamente co-colpevoli di questo stato di cose. Il fatto che i "piccoli mostri" impacchettati avessero anche dei bollini blu (spesso tripla A, meglio della qualità del debito di un paese come l´Italia) da parte delle primarie agenzie di rating é realmente inaccettabile. E la circostanza che da qualche giorno si siano accorte dei loro bluff e abbiano improvvisamente abbassato i giudizi su migliaia di titoli é la conferma della superficialità con cui si fanno queste cose. Purtroppo però, come nel caso Parmalat, sembrano intoccabili. Sono sempre li.
3 - Le banche. Nessuno invece parla delle colpe delle banche, che sono in realtà enormi. Forse non é chic parlare male dei banchieri, ma se ci si domanda come gli hedge fund potessero fare il famoso "effetto leva", cioè indebitarsi e molto, se ci si chiede chi consentiva la confezione e la vendita degli impacchettamenti, se si indaga sui tassi da capogiro del credito al consumo o sulle operazioni "a tutto leverage" del private equity, si finisce sempre e solo, fatalmente, in banca. D´altra parte, se si volevano impiegare i soldi a tassi un po´ più alti, un po´ di rischi andavano presi ed ecco che insospettabili banchieri si sono riempiti le casse e hanno riempito i fondi dei clienti di questa strana roba. Con il meccanismo dei fondi di fondi sembrano non esserci strutture bancarie esenti da questo contagio in tutto il mondo. Infatti anche i tanti comunicati diramati in questi giorni parlano di mancata partecipazione "diretta" ai piccoli mostri. Peccato che per scoprire i misteri delle partecipazioni indirette ci vorranno mesi, come ammette anche Paulson.
Adesso però bisognerà vedere il comportamento delle banche. Ci sono forti pressioni affinché mantengano i rubinetti aperti verso almeno parte di coloro che fino a ieri hanno finanziato senza problemi. Però qualcuno si é accorto che forse sarebbe meglio selezionare i debitori con maggior criterio. Ma come qualche soldo viene meno ecco che agenzie di vendita mutui, impacchettatori ed hedge fund di vario calibro saltano come birilli. Se si pensa che uno dei maggiori operatori americani del settore dei mutui ha licenziato il novanta per cento dei dipendenti mandando una semplice e-mail, vengono i brividi. Anche senza pensare all´Alitalia.
Comunque le dimensioni del disastro sono rilevanti. Quasi trentamila persone sono state licenziate da società del settore finanziario da fine luglio. Alcuni commentatori d´oltreoceano danno per definitivamente finita, distrutta, l´industria dei piccoli mutui immobiliari. E le banche che l´hanno finanziata che buchi hanno in bilancio? O a loro volta hanno ricaricato il tutto su qualche ignaro sottoscrittore, magari arabo, cinese o nel cosiddetto retail, cioè sul vasto pubblico? Dal vertice tra Bernanke e Paulson è emerso che il livello di complessità della questione è enorme. Come dire che pochi ci capiscono qualcosa. Ma se non capiscono neanche il livello di gravità della situazione personaggi di quel calibro, che peraltro continuano a dare messaggi rassicuranti mentre iniettano liquidità a fiumi, l´unica cosa certa è che c´è da stare in guardia ancora per un bel po´. Potrebbero esserci forti scosse di assestamento.

CORRIERE DELLA SERA, MERCOLEDì 29/8/2007
GIACOMO FERRARI
MILANO – La tregua è finita. Dopo sette sedute sostanzialmente positive, ieri sui mercati azionari è arrivato un primo storno. Come da copione, tutto è partito da Wall Street. Una raffica di notizie negative ha salutato l’apertura delle contrattazioni alla Borsa americana. E in Europa, dove già regnava una situazione di incertezza, le vendite hanno avuto immediatamente il sopravvento. Risultato: indici in perdita ovunque. Dal -2,08% di Parigi al -1,9% di Londra. A Piazza Affari l’S&P-Mib è sceso dell’1,95% e il Mibtel dell’1,71%. Dow Jones e Nasdaq, che a metà seduta perdevano già oltre il punto percentuale, a fine giornata hanno poi registrato forti flessioni, pari rispettivamente al 2,10% e al 2,37%.
Il nuovo calo dei listini Usa è stato innescato da una serie di eventi concomitanti. Prima di tutto il taglio dei rating
di alcuni colossi bancari. Merrill Lynch ha ridotto quelli di Bear Stearns, Lehman Brothers e Citigroup, provocando l’immediata discesa delle quotazioni dei rispettivi titoli. Da parte sua Goldman Sachs ha aggiunto alla lista anche Morgan Stanley. Ma a suscitare nuovi timori sulla tenuta dell’economia Usa sono arrivati anche i dati statistici relativi ai prezzi delle case e alla fiducia dei consumatori. Ebbene, le quotazioni immobiliari hanno subìto un ribasso record nel secondo trimestre dell’anno (-3,2% rispetto allo stesso periodo del 2006). E l’indice che rileva la fiducia dei consumatori americani è sceso da 111,9 a 105: si tratta del calo più forte dai tempi dell’uragano Katrina di due anni fa.
Come se non bastasse, sempre ieri si è saputo che State Street, un gestore di fondi di Boston, sarebbe esposto per ben 22 miliardi di dollari su cosiddetti «conduit », prodotti finanziari ad alto rischio basati su debiti a breve emessi da aziende private e non garantiti. Una compagnia finanziaria statunitense, Home Depot, da parte sua ha dovuto ufficializzare una perdita di 1,8 miliardi di dollari riducendo di questo importo il prezzo di vendita di una propria controllata, la Hd Supply. Motivo? Nessuna banca è disposta a finanziare l’operazione.
Insomma, la bufera innescata all’inizio di agosto dalla crisi dei «subprime» non è affatto superata. Tanto che la Federal Reserve è intervenuta anche ieri con una nuova iniezione di liquidità (2 miliardi di dollari attraverso un «pronti contro termine» della durata di un giorno) per mettere il sistema finanziario americano in grado di fronteggiare la crisi. Nessuna iniziativa analoga, invece, da parte della Banca centrale europea, il cui board si riunirà giovedì 6 settembre. I mercati si aspettano possibili decisioni sul costo del denaro (attualmente i tassi d’interesse in Europa sono fermi al 4%).

CORRIERE DELLA SERA 29/8/2007
FEDERICO FUBINI
MILANO – In queste settimane, mentre i listini crollavano e il sistema del credito diventava ogni giorno più inagibile, molti si sono concentrati sulla principale ragione di fiducia: i mercati finanziari si saranno anche trovati in preda a un colpo di freddo di mezz’estate, ma l’economia «reale» sembrava restare in salute un po’ ovunque nel mondo. Forse nei prossimi mesi questa diagnosi verrà confermata eppure per ora, almeno per gli Stati Uniti, il Fondo monetario internazionale si prepara a tagliare decisamente le sue previsioni di crescita.
Il tasso di sviluppo della prima economia mondiale, pari a quasi un quarto del prodotto interno lordo globale, dovrebbe ridursi di circa lo 0,6% l’anno prossimo rispetto alle stime di qualche tempo fa. Nelle previsioni dell’aprile scorso l’Fmi puntava per l’America su un tasso di sviluppo del 2,8%. Adesso la stima per il 2008 non va oltre il 2,2%, con l’implicazione che il prodotto lordo degli Stati Uniti sarà di circa 120 miliardi di dollari inferiore alle attese.
Toccherà al «World Economic Outlook » del Fondo monetario il compito di fissare la previsione più ufficiale, subito prima degli incontri annuali di Washington a metà ottobre. Prima di allora i tecnici dell’organismo internazionale potrebbero ritoccare ancora le loro stime, ma difficilmente per cambiarle in meglio. Sull’economia americana rischia infatti di farsi sentire sempre di più nei prossimi mesi la debolezza dei consumi imposta dal crescente indebitamento delle famiglie. Su questo fronte a farsi sentire non ci sono solo la caduta dei valori immobiliari e le insolvenze sui mutui «subprime », quelli concessi alle famiglie indigenti. Un rapporto pubblicato questa settimana dall’agenzia di rating Moody’s sottolinea infatti che i conti degli americani scricchiolano anche sul fronte delle carte di credito, ossia del finanziamento diretto dei consumi. Nella prima metà del 2007 le società emittenti di carte di credito hanno dovuto classificare come irrecuperabili il 4,58% dei pagamenti compiuti. Rispetto allo stesso periodo del 2006, si tratta di un balzo del 30%. L’aumento delle insolvenze sulle carte di credito è probabilmente legato a doppio filo alla caduta del mercato immobiliare: le famiglie americane non riescono più a cambiare a proprio favore le condizioni del mutuo grazie alla rivalutazione della casa e vedono ridursi drasticamente i margini per coprire con il valore del mattone il loro indebitamento crescente sugli altri fronti. Una forte stretta ai consumi nei prossimi mesi appare sempre più inevitabile.
Non è detto che i dati messi in luce da Moody’s preludano fatalmente a una recessione americana. Nel 2004, mentre gli Stati Uniti crescevano al 3,9%, l’aumento dei fallimenti sui pagamenti da carte di credito era arrivato al livello-record del 6,29%. Ma anche così non si tratta di buone notizie per l’Europa: l’America, di gran lunga primo mercato per l’export della Ue, nella prima metà del 2007 ha già importato dal Vecchio Continente per il 3% (in valore) meno di un anno fa.

LA REPUBBLICA, MERCOLEDì 30/8/2007
MILANO - Se una rondine non fa primavera, figuriamoci un singolo rialzo. Tuttavia, dopo le ferite della vigilia, il rimbalzino dei mercati azionari ha funzionato come un balsamo, almeno in Europa e in America. Le Borse asiatiche, invece, hanno pagato il fio al forte calo del giorno prima a Wall Street: Tokio ha perso l´1,69%, Seul il 3,12% e Hong Kong il 2,3%. Al contrario, il Vecchio continente ha tentato di recuperare e la maglia rosa va a parimerito al Mibtel (più 0,83%) e al Cac 40, salito dello 0,84%, mentre Francoforte si è limitato a guadagnare lo 0,12% (dimostrandosi la meno volatile, in entrambe le direzioni, negli ultimi tempi)e Londra è salita dello 0,49% mentre a New York Dow Jones e Nasdaq sono partiti in deciso rialzo, fino a guadagnare il 2,3% per il listino tecnologico e l´1,8% per la Borsa principale.
Tutto bene, quindi? Sono in pochi a crederci, nonostante i tentativi di recupero e le parole rassicuranti del presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, secondo il quale la crescita europea è «sana ed equilibrata e dovrebbe proseguire» e del commissario europeo agli Affari economici e monetari, Joaquin Almunia, secondo cui le turbolenze delle ultime settimane non avranno «serie ed immediate conseguenze» sull´economia Ue: «Nonostante i problemi che si sono verificati, da una parte la situazione ha dimostrato che i sistemi di controllo hanno funzionato bene, dall´altra i fondamentali dell´economia sono solidi e non ci sono immediate preoccupazione che la crescita possa essere seriamente colpita», ha riferito il portavoce dalla commissione. Una nuova iniezione di liquidità da 5,25 miliardi di dollari da parte della Fed ha contribuito a rasserenare gli animi.
Ma in realtà, i segnali di stato di allerta continuano ad esserci. A partire da un veicolo d´investimento legato all´hedge fund inglese Cheyne Capital Management, che ha annunciato una ricapitalizzazione e la vendita di alcuni asset a causa delle perdite riportate; sebbene abbia affermato di avere sufficiente capitale per coprire le passività nei prossimi mesi, Standard & Poor´s gli ha ridotto il rating e il mercato l´ha considerato l´ennesimo scricchiolio legato alla crisi innescata dai mutui subprime. Ieri il premio Nobel per l´Economia, Joseph Stiglitz ha confermato questo genere di timori, affermando che la crisi probabilmente «peggiorerà», contagiando anche i settori limitrofi. «Ci sono altissime probabilità che i problemi del subprime cominceranno ad emergere anche nei mercati che stanno un gradino sopra quello subprime», ha detto in un´intervista, perché il restringimento dei criteri per concedere i mutui taglierà fuori dai finanziamenti - o peggio ancora rifinanziamenti - una fetta crescente di popolazione, che si troverà così a non essere in grado di rimborsare il debito.
Dagli Stati Uniti, le statistiche relative alle richieste di mutui per l´acquisto della casa sono scese nell´ultima settima del 4% mentre quelli per rifinanziare i mutui in essere sono diminuiti del 4,2%: la crisi dell´immobiliare comincia a far paura, anche a degli inguaribili consumatori di credito come gli americani.

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Il Foglio 30 agosto 2007.
Una Consob a Bruxelles. Il governo di Berlino ha iniziato una indagine sul sistema di controllo degli intermediari finanziari tedeschi. Infatti non è chiaro come sia stato possibile che banche statali tedesche abbiano fatto impieghi rischiosi in mutui immobiliari americani, mediante fondi di investimento impegnati per cifre molto superiori ai propri patrimoni. In realtà, questa è la spia di un problema più vasto. Perché la Commissione europea per la concorrenza non si è occupata di banche pubbliche che avvalendosi della garanzia statale fanno operazioni azzardate distorcendo la concorrenza fra gli operatori finanziari. Chi è che controlla che cosa? In Europa, a livello di Commissione europea o altrove esiste una autorità di controllo dei mercati finanziari? Sembrerebbe che la risposta sia negativa. Infatti non può essere considerata tale la Commissione europea che si occupa della concorrenza. A parte le omissioni di cui sopra, essa non può andare oltre la tematica della concorrenza e delle intese fra le banche. Può tutelare la banca X dalla concorrenza sleale dell’intermediario finanziario Y, ma tutela il cliente solo se c’è una intesa rivolta a sfruttare il mercato. Quanto alla Bce, la Banca centrale europea, essa mediante la sua politica di tassi influenza il mercato finanziario e monetario, ma non può essere considerata una autorità di vigilanza sugli operatori di tali mercati, essendone un attore, sia pure quello di ultima istanza. E le banche centrali dei paesi membri assolvono a compiti di vigilanza sulle banche solo nella misura in cui i governi nazionali affidino loro una competenza al riguardo, diversa da stato a stato. Essa, inoltre, si ferma ai mercati domestici. In definitiva, manca una Consob europea, che assicuri la trasparenza delle offerte degli operatori finanziari, nel loro intreccio internazionale. Come quello di un fondo di investimento, che appartiene alla banca del paese A, con sede legale nel paese B, che investe in derivati finanziari che sono già passati per due o tre mani di paesi C e D e li offre a clienti di A, se non di E. Sinora, su questo problema elementare di economia di mercato s’è sentita solo la richiesta isolata d’un vertice europeo e del G8 di Nicolas Sarkozy.

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 31/8/2007
MILANO – Le Borse europee hanno proseguito il rimbalzo ieri, mettendo a segno la nona giornata positiva nelle ultime dieci. Ma i rialzi di 0,89% all’S& P/Mib di Milano, dell’ 1,09% di Francoforte e dell’ 1,3% di Parigi e di Londra non segnalano che le tensioni siano sparite. A rassicurare i mercati hanno contribuito i dati rivisti al rialzo della crescita americana nel secondo trimestre (più 4% annualizzato) e, ancora di più, le parole di Ben Bernanke: il presidente della Fed nella notte di ieri si era detto «pronto ad agire se necessario ». Ma troppi fattori, soprattutto nel mondo del credito in Germania, continuano ad alimentare le incertezze.
Al centro dell’attenzione di tutti in questi ultimi giorni si trovano infatti sempre più le banche commerciali europee, la loro solidità patrimoniale e la trasparenza dei bilanci messa alla prova dai titoli di finanza strutturata a rischio per la caduta del mercato immobiliare Usa. La Germania è in primo piano su questo fronte, ma nel pomeriggio di ieri sono emerse preoccupazioni anche in Gran Bretagna. L’allarme scattato quando la Bank of England ha fatto sapere che un istituto privato le ha chiesto e ottenuto credito, per un totale di 1,6 miliardi di sterline (2,3 miliardi di euro), dallo «sportello permanente » («standing facility») della Boe: ciò significa che una banca ha accettato di pagare interessi dell’1% sopra ai tassi ufficiali, pur di ricevere credito immediato. Il nome dell’istituto non è stato diffuso, ma la notizia ha ricordato ai mercati i rischi legati ai mutui Usa più vulnerabili e la sterlina ha perso subito terreno.
Ancora più seria la situazione appare in Germania, soprattutto per alcune delle Landesbanken, le banche pubbliche legate alle amministrazioni locali. Sette consiglieri d’amministrazione di WestLB, la grande banca del Nordreno- Westfalia, sono finiti sotto inchiesta dalla procura di Düsseldorf per perdite da 604 milioni in operazioni di trading quest’anno. Più grave ancora la situazione della SachsenLB: l’istituto è alla bancarotta e sarà salvato fondendolo alla Landesbank del Baden- Württemberg. Intanto però è emerso che SachsenLB aveva fondi investiti in titoli immobiliari Usa a rischio in due veicoli fuori bilancio. Il primo a Dublino per quasi 20 miliardi, il secondo a Lipsia per 46 miliardi. Ieri si è dimesso l’intero vertice della banca ma ora rischia di saltare anche l’amministrazione del Land, guidata dalla CDU del cancelliere Angela Merkel.

CORRIERE DELLA SERA, SABATO 1/9/2007
MICHELE FARINA
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK – Il presidente degli Stati Uniti corre in aiuto dei «mutuati» che rischiano di perdere la casa, ma mette in chiaro che il governo «non salverà gli speculatori ». Il capo della Banca Centrale ammette che le perdite finanziarie scatenate dalla crisi immobiliare «hanno superato le previsioni più pessimistiche» e che la Federal Reserve è pronta a intervenire «per promuovere la stabilità» dei mercati, ma avverte che «non è compito della Fed proteggere gli investitori e le società che erogano prestiti dalle conseguenze delle loro decisioni».
Qualche carota e la minaccia di un bastone. Alla vigilia del weekend lungo del Labour Day, a distanza di un’ora l’uno dall’altro, come un rasoio bilama George Bush e Ben Bernanke sono intervenuti ieri mattina per tagliare cautamente le paure degli americani. Rassicurandoli che la cura è in atto, ma che la malattia è ancora minacciosa.
I mercati aspettavano le parole di Bernanke, il suo primo discorso dopo la crisi di liquidità che due settimane fa ha innescato crolli a catena nelle Borse di tutto il mondo. Parlando a un simposio a Jackson Hole, Wyoming, il capo della Fed ha messo in chiaro che la decisione su un eventuale taglio dei tassi dipenderà da come si evolverà la crisi dei mutui: «Ovviamente, se persistono le attuali condizioni, la domanda di case potrebbe indebolirsi ulteriormente con possibili ripercussioni sul resto dell’economia. Stiamo seguendo gli sviluppi da vicino». Wall Street, così come le Borse europee, ha reagito positivamente, con gli indici in rialzo. E con l’inflazione che abbassa la cresta (0,1% su base mensile contro lo 0,2 delle previsioni) i mercati scommettono su un imminente taglio dei tassi: «Continuiamo ad aspettarci un abbassamento di un quarto di punto quando l’esecutivo della Fed si riunirà il 18 settembre – ha detto Drew Matus di Lehman Brothers – seguito da un altro quarto di punto a ottobre».
Al centro dell’attenzione, dai palazzi dell’economia a quelli della politica, resta la crisi dei subprime, i mutui ad alto rischio erogati a clienti con dubbio «merito creditizio » (circa 2 milioni in tutti gli Stati Uniti). Parlando dal Giardino delle rose, il presidente Bush ha definito questa crisi «modesta » rispetto al complesso dell’ economia, che è «in salute» e forte abbastanza da superare le turbolenze del mercato». Fosse così modesta non avrebbe indotto il presidente a un intervento senza precedenti. la prima volta che la Casa Bianca si fa avanti direttamente per alleggerire il rischio di insolvenze sul settore del credito e assicurare che il desiderio di una casa di proprietà continui a restare, come ha detto Bush, «al centro del sogno americano».
Il governo puntella i sogni «pericolanti », le case acquistate a tasso variabile da famiglie oneste con i conti tirati, quelle rimaste indietro con le rate lievitate negli ultimi mesi anche del 100%. Il grosso degli aiuti arriverà con l’ampliamento dei mutui garantiti dalla Federal Housing Administration, che dispone di 22 miliardi di dollari di riserve per coprire le eventuali insolvenze. Agli attuali beneficiari (160.000) se ne dovrebbero aggiungere altri 80.000. Il presidente vuole alzare anche il tetto massimo da 362.000 a 417 mila dollari. Si calcola che il rialzo dei mutui subprime che andranno rivisti nei prossimi due anni sarà pari a 500 miliardi di dollari.
Rispetto a queste cifre (2 milioni di mutui) il piano Bush si annuncia «leggero» anche se fortemente simbolico.

CORRIERE DELLA SERA, SABATO 1/9/2007
SERGIO BOCCONI
MILANO – Definirla una svolta stile Roosevelt rappresenterebbe una forzatura. Ma per la prima volta il presidente George Bush si presenta disposto a una mossa di welfare lanciando un salvagente alle famiglie coinvolte nella crisi dei mutui. Di certo non esente da calcoli di consenso da fine mandato, la decisione individua comunque il carattere di novità della crisi dei subprime: diversamente dal ’29, questa volta si può dire che il rapporto causa-effetto muove in via prioritaria dal crac sociale a quello finanziario.
Certo, in ultima istanza sono i banchieri senza scrupoli ad avere le maggiori responsabilità. Perché hanno spinto le famiglie a violare la regola aurea americana sui mutui che colloca la soglia inviolabile del loro peso al 30% dello stipendio: con i subprime si è andati al 50% grazie al miraggio dei tassi bassi e del continuo aumento di valore delle abitazioni.
Non c’è nemmeno bisogno che vadano in tilt i presupposti spesi in buona o cattiva fede perché il passo si riveli troppo lungo: metà reddito nella rata è uno sforzo insostenibile per molti. E gli intermediari hanno approfittato dell’analfabetismo finanziario dei sottoscrittori dei mutui, incapaci di prevedere l’impatto sulle loro tasche.
Ecco perché Bush alla fine si è risvegliato interventista, superando il dibattito che ha già diviso l’America sull’opportunità o no di lanciare un salvagente. Ed ecco perché sia Bush sia il numero uno della Fed Ben Bernanke ieri hanno sottolineato che non proteggeranno prestatori, investitori e speculatori. A prima vista Casa Bianca e Fed possono sembrare di fronte alla crisi su fronti opposti: la prima soccorre le famiglie, la seconda si preoccupa come sempre di non far saltare il sistema ma limita il proprio intervento all’impatto sull’economia, quindi liquidità sì, reti di protezione no. In realtà governo e autorità di vigilanza si rivolgono ai rispettivi «mercati» con il risultato concorde di dire: welfare per le famiglie sì, per la finanza no. Non siamo nel ’98 quando la Federal Reserve si è fatta regista del salvataggio dell’hedge fund Ltcm. Anzi, è diffuso il pensiero che Bernanke in fondo auspichi il fallimento di un pugno di piccole banche come monito e lezione per tutto il sistema.
E non siamo nemmeno al crac Enron, quando la controffensiva è stata essenzialmente rivolta a tappare evidenti buchi di regolazione: il complesso Sarbanes-Oxley Act è il primo intervento di riforma della legislazione finanziaria negli Stati Uniti. Questa volta non ci sono lacune normative: non si può certo mettere per legge un rapporto massimo fra reddito familiare e rata del mutuo. E non sembra nemmeno prioritario mettere i lacci al risvolto finanziario della crisi, cioè a titoli-salsiccia, veicoli bancari extrabilancio ed hedge fund: al Tesoro c’è Henry Paulson che ben conosce i mercati e sa che la finanza speculativa non è da mettere sotto chiave in blocco perché concorre alla diversificazione del rischio. La priorità oggi è il welfare per chi non ce la fa con le rate.

CORRIERE DELLA SERA, SABATO 1/9/2007
FEDERICO FUBINI
BERLINO – Le «locuste» in casa propria. Dopo aver portato al G8 la campagna contro i fondi d’investimento portatori di instabilità, il governo di Angela Merkel ( foto)
scopre che il pericolo della speculazione è più vicino di quanto sospettasse.
Ieri si è dimesso Host Metz, ministro della Finanze della Sassonia (Cdu) e presidente del Consiglio di sorveglianza della banca pubblica del Land SachsenLB. La sua posizione era insostenibile.
Le strozzature imposte dalla crisi dei «subprime», i mutui americani a rischio, hanno fatto emergere enormi falle nella banca di cui Metz doveva garantire la trasparenza. Due veicoli fuori dal bilancio dell’istituto di credito gestivano un totale di 66 miliardi di euro per speculazioni sui differenziali sui tassi e le perdite sui «subprime» hanno portato alla luce le attività coperte. La banca verrà tenuta in vita fondendola con la Landesbank del Baden-Württemberg. La battaglia della cancelliera Merkel contro gli speculatori «anglosassoni» sarà invece più difficile da salvare.

LA REPUBBLICA, SABATO 1/9/2007
NEW YORK - La crisi dei mutui subprime si abbatte sui vertici delle agenzie di rating e colpisce la più prestigiosa: Standard & Poor´s. La società ha deciso infatti di sostituire Kathleen Corbet, alla guida della compagnia dal 2004, al suo posto è stato nominato Deven Sharma, senior executive della holding di controllo McGraw-Hill. E´ stata la stessa capogruppo McGraw-Hill a renderlo noto attraverso un comunicato nel quale non si forniscono le motivazioni del cambio tranne che il generico riferimento al desiderio della manager 47enne di «cogliere altre opportunità professionali».
Corbet, in una email di saluto ai dipendenti, spiega «di voler dedicare molto più tempo alla famiglia». Fatto sta che il malcontento verso le agenzie di rating è aumentato sia da parte di esponenti politici sia del variegato mondo degli investitori. Sotto accusa, le critiche per i ritardi con i quali sono stati valutati i rischi dei titoli garantiti da mutui subprime. La Commissione europea ha annunciato l´avvio di un´inchiesta e nel Congresso statunitense sale la pressione bipartisan per un´analoga iniziativa. Chris Dodd, presidente della Commissione bancaria del Senato, ha ribadito due giorni fa che le agenzie di rating devono spiegare le ragioni alla base dell´assegnazione di «rating AAA a titoli che non lo avrebbero mai meritato».

CORRIERE DELLA SERA, DOMENICA 2/9/2007
MARIO SENSINI
ROMA – Il momento di un nuovo possibile aumento dei tassi di interesse in Europa si avvicina, e con la crisi dei mutui che dilaga negli Usa, crescono le pressioni sul governo perché si faccia carico dei problemi delle famiglie alle prese con le rate di mutui e prestiti. Dopo la proposta dell’Udeur di istituire con la Finanziaria un Fondo di solidarietà per far fronte alle insolvenze temporanee delle famiglie sulle rate dei mutui prima casa, appoggiata dalla sinistra radicale, ma accolta con qualche freddezza dal Tesoro, nei confronti dell’esecutivo ora è iniziato anche il pressing dei sindacati.
Raffaele Bonanni ha chiesto ieri la creazione, accanto al Fondo, di «una task force, un polo di coordinamento delle azioni a tutela dei mutuatari in difficoltà», che secondo il segretario della Cisl «devono essere risarciti, di fronte all’instabilità del mercato finanziario». « importante che ci sia questo sostegno per le famiglie che pagano un mutuo a tasso variabile. Lo hanno fatto altri Paesi e lo può fare anche l’Italia» ha detto Bonanni, aggiungendo che «la soluzione al problema deve essere rapida ». Anche Luigi Angeletti, segretario della Uil, appoggia l’idea del Fondo proposto dall’Udeur (che si accollerebbe i costi bancari e notarili di un differimento delle rate fino a 2 anni), ma ritiene inadeguata la sua dotazione. «L’idea è ottima, ma 10 milioni di euro per il Fondo sono una cifra ridicola. Il governo deve prima stabilire chi deve usufruire del Fondo e poi decidere quanti soldi stanziare».
L’esecutivo, tuttavia, continua a frenare. Venerdì il Tesoro aveva precisato di non aver preso alcun impegno con l’Udeur sulla sua proposta e ieri il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, è tornato in campo per ridimensionare l’allarme. «L’Italia non è particolarmente esposta alla crisi che ha investito i mutui americani» ha detto il ministro. Di tutt’altro avviso le associazioni dei consumatori, che temono un nuovo rialzo dei tassi di interesse nella riunione della Bce del 6 settembre prossimo, peraltro già anticipato sul mercato dalle banche. Con un nuovo aumento del costo del denaro, secondo l’Adusbef, le rate dei mutui a tasso variabile potrebbero aumentare, per un mutuo da 200 mila euro, tra 326 e 625 euro l’anno. Il tutto quando gli italiani pagano già mutui ben più salati rispetto al resto d’Europa: la media dei mutui a tasso variabile, a maggio, era in Italia del 5,67% contro il 4,72% della media della zona euro, quasi un punto percentuale in più. Come il governo, anche le banche cercano di tranquillizzare i consumatori, ricordando che i mancati rimborsi dei mutui non hanno registrato incrementi particolarmente significativi. Difficile ipotizzare in Italia una crisi come quella degli Usa, dove la flessione dei valore degli immobili, usati dalle famiglie come leva finanziaria, ha causato insolvenze e conseguenti difficoltà al sistema finanziario. Ciò detto, l’aumento del costo del denaro nell’ultimo anno in Europa è un fenomeno destinato ad avere conseguenze negative anche in Italia. Basti pensare alla crescita esponenziale dei mutui negli ultimi anni: da 180 miliardi di euro a fine 2004, a 213 miliardi nel 2005, poi 240 nel 2006, fino ai 254 miliardi di euro del luglio 2007 (appena un quarto a tasso fisso, quando la media Ue è del 50%). Solo lo scorso anno, secondo Bankitalia, i debiti finanziari delle famiglie sono cresciuti di 50 miliardi, salendo dal 43 al 47% del reddito disponibile. Mentre gli interessi su questi debiti sono saliti dal 6,6% al 7% del reddito.

CORRIERE DELLA SERA, 2/9/2007
MASSIMO MUCCHETTI
E’ possibile che la caduta delle Borse, provocata dalla crisi dei crediti subprime americani, rientri grazie al buon andamento dell’economia reale. E tuttavia il balbettio delle banche centrali e delle altre istituzioni preposte alla vigilanza dovrebbe indurre qualche riflessione. Il fatto che queste abbiano difficoltà a misurare il rischio sistemico derivante dall’esposizione delle loro vigilate ai subprime e ai connessi strumenti finanziari derivati fa pensare che per anni non si sia ben monitorato il fenomeno. Una sottovalutazione del pericolo, come ben si capisce confrontando la rasserenante preferenza per l’autoregolamentazione degli operatori, ribadita dai banchieri centrali ancora nella primavera scorsa, con l’attuale ricorso alla spesa pubblica da parte del liberista Bush per soccorrere le «vittime» di una finanza ritenuta perfetta.
I fatti ci dicono che la fiducia nell’innovazione finanziaria, madrina dei subprime e dei derivati, non è stata sostenuta né dalla conoscenza del fenomeno nel suo complesso né dalla capacità di prevederne gli sviluppi, ma sembra essere stata esaltata dal pregiudizio simpatizzante di chi dagli hedge fund piuttosto che dalle merchant bank internazionali ricava pane, lavoro e status. In queste materie, come ricorda l’economista non ortodosso Andrew Glyn nel suo Capitalismo scatenato, nemmeno i premi Nobel offrono una garanzia assoluta se è vero che Robert Merton definiva il Long Term Capital Management, alla cui creazione aveva preso parte, la «miglior facoltà di finanza al mondo» e un anno dopo questo andò a picco facendo perdere quattrini perfino alla Banca d’Italia (su questo vedi rettifica successiva - ndr).
Si è creduto che, allontanandolo dalla sua origine tramite i derivati, il rischio si frazionasse al punto da scomparire e, invece, si scopre che i derivati non sono la pietra filosofale del nuovo millennio. Gli scandali finanziari americani hanno fatto scuola sul piano della governance societaria. Basti pensare al Sarbanes Oxley Act e alle pesanti condanne inflitte ai bancarottieri della Enron. Ma non al punto da fermare l’eterna rincorsa tra avidità e rigore. Anche l’Italia ha avuto le sue storie esemplari: la Cirio, in fondo, è stata un’anticipazione alla vaccinara dei più sofisticati subprime. Temendo che il gruppo di Sergio Cagnotti non rimborsasse, le banche gli fecero emettere obbligazioni a tassi abbastanza alti da ingolosire il pubblico e con il ricavato ottennero l’agognato rientro, salvo ritrovarsi i risparmiatori inferociti perché poi Cirio non onorò le obbligazioni. Le banche americane hanno finanziato i loro clienti per acquistare casa anche al cento per cento e poi, temendo di ritrovarsi tanti Cragnottini, hanno rifinanziato i prestiti emettendo obbligazioni coperte da strumenti finanziari derivati spesso sottoscritti da banche e fondi europei.
Il gioco poteva reggere fino a quando il prezzo degli immobili, posti a garanzia del rischio assunto dal primo creditore della catena, avesse continuato a salire. E invece, com’ era fatale, a un certo punto è sceso. E così la bomba con la miccia già accesa è rimasta in mano ai più sprovveduti. Ricordate la comica Charlot Soldato? Il generale della Grande Guerra che si gira e passa la bomba al colonnello, questi al maggiore e il maggiore al capitano e così via fino al soldatino Charlie Chaplin che si gira anche lui ma non trova nessuno: esattamente come oggi non trovano sottoscrittori certe obbligazioni.
Per ritrovare un equilibrio non troppo fragile occorrerà riancorare l’economia di carta all’economia reale ricostruendo nei banchieri la capacità di governare il rischio invece di addossarlo ad altri per ritrovarselo infine, senza rendersene conto, sulle proprie spalle. Con l’Erario che paga il conto.

CORRIERE DELLA SERA, 4/9/2007
RETTIFICA A MUCCHETTI
Il fondo Ltcm e la Banca d’Italia
Inesatto è il riferimento di Massimo Mucchetti alla Banca d’Italia nel suo articolo sul Corriere del 2 settembre. Ltcm non fece «perdere quattrini perfino alla Banca d’Italia». Come reso noto all’epoca, l’investimento ebbe un rendimento medio annuo pari a circa l’8 per cento.

LA REPUBBLICA, LUNEDì 3/9/2007
VI.P.
MILANO - Sulla riapertura dei mercati (tranne quello americano, chiuso per il Labor Day) grava un nuovo elemento di incertezza, come se non bastassero tutti quelli esistenti. La Bri, la Banca dei Regolamenti Internazionali, la "banca centrale delle banche centrali" di Basilea, ha espresso ieri tutta la sua preoccupazione per le turbolenze che attraversano la finanza internazionale. Secondo l´istituto, genera inquietudine soprattutto «il credit crunch dovuto all´impennata nella richiesta di liquidità da parte degli investitori, e alla risposta delle banche in cerca di salvaguardia». Qualche perplessità poi l´analisi pubblicata sulla "Rassegna Trimestrale" della Bri la riserva anche alle cospicue iniezioni di liquidità che le banche centrali si sono viste costrette ad effettuare.
A conti fatti, in agosto gli indici segnano ribassi contenuti (il -1,6% di Parigi è il risultato peggiore in Europa) o addirittura qualche passo avanti: nel Vecchio Continente, la maglia rosa spetta proprio a Piazza Affari, dove l´S&P Mib segna un +1,64%, in linea con i mercati americani che hanno guadagnato poco meno del 2% nel Nasdaq e poco più dell´1% nel Dow Jones. Insomma, l´infezione della crisi dei mercati per i mutui subprime finora è stata circoscritta. Rispetto a tre mesi fa, il Nasdaq è sugli stessi valori e Wall Street perde meno dell´1,5%. Peggio sono andati i mercati europei: Piazza Affari in un trimestre ha lasciato sul terreno il 6%. Crisi dei mutui, dunque, che non è detto abbia finito di mordere, e tanto nervosismo rispetto a valori che corrono da quattro anni. E che non è detto restino così alti. Un´occhiata a come si sono comportati i titoli dello S&P Mib la dice lunga: penalizzati nell´ultimo mese sono stati molti titoli industriali. A partire da Fiat, meno 9,13%, battuta in negativo solo da Italcementi (che supera i 10 punti di perdita) mentre Impregilo e Bulgari cedono i più dell´8%, Buzzi si ferma poco oltre il 6% e Luxottica fa appena peggio, - 6,5%. Di contro i titoli bancari e le assicurazioni hanno il segno più, incuranti del fatto la crisi dei mutui dovrebbe colpire ben prima i titoli finanziari e solo in un secondo momento quelli ciclici, che scendono quando le previsioni sono per un forte rallentamento della crescita.
(vi.p.)

CORRIERE DELLA SERA, MERCOLEDì 5/9/2007
GIANCARLO RADICE
MILANO – Gli effetti della crisi finanziaria legata ai mutui subprime americani non si sono ancora fatti sentire. Ma il progressivo sgonfiarsi del boom immobiliare, unito alla frenata degli investimenti, ha già provocato un brusco rallentamento della crescita economica di Eurolandia. L’istituto comunitario di statistica, Eurostat, ha reso noto ieri che nel secondo trimestre di quest’anno il tasso di sviluppo nei 13 paesi dell’euro si è fermato a più 0,3% (e più 0,5% nella Ue a 27), contro il più 0,7% dei primi 3 mesi 2007. All’Italia spetta il ruolo di coda: soltanto lo 0,1% la crescita fra aprile e giugno, contro un progresso dello 0,3% nei tre mesi passati.
Si tratta di un segnale chiaro anche per la Banca centrale europea, che con tutta probabilità, nella riunione di domani, lascerà inalterati al 4% i tassi di riferimento. A contribuire al rinvio di quel rialzo che il governatore Jean-Claude Trichet aveva annunciato all’inizio dello scorso mese, sono anche le incertezze che ancora regnano sui mercati finanziari. Non a caso la Bce ha immesso ieri nel sistema interbancario nuova liquidità per 46 miliardi di euro, con un’operazione pronti contro termine che ha visto i tassi salire fino al 4,30%. La Bce ha anche assegnato, nella sua asta settimanale, altri 256 miliardi a un tasso del 4,15%, per far fronte alle richieste di 356 istituti di credito per un totale di 426,35 miliardi.
Nessun intervento sul mercato, invece, da parte della Federal Reserve americana. Che però, insieme ad altre authority di regolamentazione del settore bancario, ha messo a punto alcune linee guida per la gestione dei rischi di default sui mutui immobiliari: un «vademecum» rivolto alle società che erogano finanziamenti, affinché gestiscano con i propri clienti i possibili mancati pagamenti delle rate dei prestiti sull’acquisto di case.
In Europa, a contrastare il calo delle nuove richieste di costruzioni d’immobili,non sono bastati nè il buon andamento dei consumi nè l’incremento dell’export. Trasferiti su base annuale, i dati trimestrali annunciati ieri da Eurostat dicono di un prodotto interno lordo in crescita del 2,5% nell’area euro, contro il 3,2% dei tre mesi precedenti (e del 3,3% per l’Unione dei 27 paesi). Crescono invece dell’1,1% (e dello 0,27% per la Ue) le esportazioni, mentre i consumi delle famiglie sono saliti dello 0,5% nei paesi dell’euro e dello 0,6% nell’Unione a 27.
Per il resto dell’anno, comunque, la Commissione di Bruxelles rimane fiduciosa su una crescita dell’economia «in maniera decisa». I dati diffusi ieri dalla Direzione per gli affari economici e monetari parlano di un Pil in aumento fra lo 0,3% e lo 0,8% nel terzo trimestre 2007, e fra lo 0,2% e lo 0,8% nel quarto. Si tratta di stime solo lievemente inferiori rispetto a quelle emanate all’inizio di agosto, prima della bufera finanziaria che ha investito i mercati internazionali. Per il primo trimestre 2008, infine, la Commissione indica un tasso di crescita nell’euro zona tra lo 0,2% e lo 0,9%.

LA REPUBBLICA, MERCOLEDì 5/9/2007
SARA BENNEWITZ
MILANO - Sono tante le aziende italiane che hanno bisogno di reperire nuove risorse sul mercato e l´attuale crisi dei mutui di seconda scelta fa tremare i polsi a società come Gemina, Italease, Tiscali e Snia, che si apprestano a chiedere agli investitori oltre 2,2 miliardi di liquidità. L´agenda di Piazza Affari per quest´autunno è inoltre fitta d´impegni, tra cui il bond da 10 miliardi (di cui 2 riservati ai risparmiatori) di Enel per l´acquisto di Endesa, o l´arrivo di una pattuglia di Ipo che, date le condizioni di mercato, potrebbero anche fare retromarcia. La crisi dei subprime ha già costretto il colosso americano Home Depot a fare uno sconto del 18% ai fondi private equity che avevano acquistato la sua divisione all´ingrosso. Ieri invece sotto i riflettori è finita l´offerta da 71 miliardi di Bank of Scotland su Abn Amro: la triplice alleanza tra scozzesi spagnoli e belgi potrebbe usare la clausola sulle «oggettive condizioni avverse» per ridurre l´Opa pari a 38,2 euro per ogni azione, del resto il debole andamento dei mercati ha reso l´offerta concorrente di Barclays meno competitiva che mai e pari a 33,2 euro per ogni Abn. A Milano, invece, Gemina si appresta a lanciare un aumento di capitale da 1,25 miliardi per reperire le risorse che lo scorso giugno hanno permesso alla società di liquidare McQuarie dagli Aeroporti di Roma. Il gruppo che gestisce gli scali di Fiumicino e Ciampino si è avvalso di un prestito ponte che ora dovrà rimborsare ricorrendo al mercato. Ma Gemina ha anche bisogno delle risorse da investire in Adr (a marzo si parlava di almeno 2 miliardi), per rendere gli scali romani adeguati a smaltire i bagagli, che quest´estate sono costati al gruppo non pochi reclami. Anche Tiscali ha annunciato una ricapitalizzazione da 220 milioni per finanziare lo sviluppo. E questo vale sia per l´inglese Pipex (rilevata a luglio per 310 milioni), ma anche per i nuovi progetti tra cui l´asta per Tele2. Un boccone che per l´Isp sardo potrebbe risultare indigesto, anche perché la rivale Wind non si arrenderà facilmente. Tuttavia per colpa dei subprime, Naguib Sawiris ha rinunciato all´Ipo della sua Orascom (la controllante di Wind) ripiegando per una vendita del 20% della società ai private equity. Banca Italease, invece, è costretta a ricorrere al mercato per ripianare il buco creato con l´utilizzo dei derivati e di una gestione «garibaldina» delle attività di leasing. A questo proposito sabato 8 verrà chiesto ai soci di Italease di autorizzare un aumento fino a 700 milioni. Quanto a Snia, da tempo versa in gravi difficoltà economiche, tanto che a giugno è finita nella lista nera della Consob. Il gruppo chimico ha liberato una ricapitalizzazione da 44 milioni, la terza in quattro anni e potrebbe non essere l´ultima: l´aumento, garantito da Banca Imi, basta appena per ripianare i debiti, ma Snia brucia cassa e non riesce a vendere nemmeno i terreni in via di bonifica.
MILANO - Aggrappati alla Federal Reserve. I mercati finanziari sembrano avere una fiducia totale nelle mosse della Banca centrale americana. accaduto anche ieri: la nuova immissione di liquidità per 5 miliardi di dollari da parte della Fed (che aveva richieste per 43 miliardi) ha avuto il doppio effetto di diffondere ottimismo in tutte le Borse tra le due coste dell´Atlantico e di rimuovere le notizie negative sui dati macroeconomici in arrivo dagli Stati Uniti.
Nel primo caso, la giornata sui mercati ha visto il Dow Jones, il principale indice di Wall Street, tornare sopra i 14mila punti, ai livelli precedenti la bufera di Ferragosto scatenata dal crac dei mutui cosiddetti subprime (destinati ai risparmiatori ad alto rischio di insolvenza). Il Dow Jones ha poi perso quota, ma ha chiuso in frazionale rialzo. E ancora meglio ha fatto il Nasdaq dei valori tecnologici. La partenza sprint di New York ha permesso anche alle piazze europee di terminare in terreno positivo dopo una partenza stentata.
Sulla cattiva partenza delle Borse del Vecchio Continente ha pesato la pubblicazione del dato del Pil nell´Eurozona. Eurostat ha confermato le previsioni della vigilia su un rallentamento della crescita economica: nel secondo trimestre 2007 il Pil ha messo a segno un +0,3% nell´area dell´euro, contro il +0,7% dei primi tre mesi. L´Italia, da parte sua, sta in coda all´intera Unione europea, con una crescita dello 0,1%, contro lo 0,3% del precedente trimestre. Ora i mercati attendono le decisioni della Banca centrale europea sui tassi di interesse: ma la ripresa delle Borse, confermata anche ieri, fanno intendere che gli operatori scommettono sul fatto che il costo del denaro non verrà modificato.
Dall´altra parte dell´Atlantico, invece, ci sperano. E si attendono a breve che il governatore della Fed, Ben Bernanke traduca in fatti la sua disponibilità ad agire per il bene dell´economia Usa. Sebbene, al momento, preferisca continuare nella sua politica di aumentare le disponibilità di denaro. Con i cinque miliardi di ieri, ha annullato il potenziale effetto negativo di due dati macro. Entrambi inferiori alle attese degli analisti. Il primo riguarda l´indice Ism manifatturiero, una sorta di sondaggio tra i responsabili degli acquisti di 400 imprese industriali: a luglio ha avuto un calo dello 0,4%, il peggiore degli ultimi sei mesi. Mentre il secondo interessava le spese per le costruzioni, a sua volta in calo dello 0,4% (-1,4% le sole spese per abitazioni).
Il mercato immobiliare continua a costituire la principale preoccupazione per la Federal Reserve. Assieme ad altre authority di regolamentazione del settore bancario, la Fed ha messo a punto le linee guida speciali per la gestione dei rischi default dei mutui. In particolare, con una nota, ha sollecitato le società che erogano finanziamenti a gestire con i propri clienti i possibili mancati pagamenti delle rate. In particolare, si invitano le istituzioni finanziarie a convertire il tasso variabile in fisso o indicizzato, oltre a un più attento esame delle condizione finanziaria dei mutui e di quei fattori che possono impedire i pagamenti. Infine, nelle linee guida si prevede un uso più accorto delle cartolarizzazioni garantite da prestiti ad alto rischio.



• Richard Dawkins è uno dei più noti divulgatori scientifici del mondo, soprattutto grazie a fortunate opere quali Il gene egoista (1976) o L´orologiaio cieco (1986). Nella prima egli difende l´idea, proposta nel 1872 dal vescovo Simon Butler, che i geni sono il mezzo di riproduzione degli organismi, e non viceversa. Nella seconda egli attacca invece l´idea, proposta nel 1802 dal vescovo William Paley, che se uno trova su una spiaggia un orologio biologico, deve per forza dedurre che è stato costruito da un orologiaio. Come si può intuire fin dal titolo, un corollario di questa seconda opera è che la teoria dell´evoluzione fornisce una spiegazione sufficiente della nascita della vita, e rende superflua la fede: cosa su cui concordano anche i fedeli, che infatti attaccano questa teoria fin dal 1859. Non stupisce dunque che Dawkins sia un ateo professante, né che abbia scritto il potente manifesto ateo L´illusione di Dio, in uscita in questi giorni da Mondadori (pagg.408, euro 19) a proposito del quale l´abbiamo intervistato. Lei usa la parola «religione» come sinonimo di «teismo». Non crede che dovremmo almeno distinguere le religioni teiste da quelle atee, ad esempio il Cristianesimo dal Buddhismo? «Se definiamo una religione come un insieme codificato di valori o di regole di vita, allora lei ha certamente ragione: in questo senso, il Buddhismo è una religione che non crede in Dio. Ma io mi concentro su quelle che ci credono. Forse perché le trova irrazionali? Eppure gli Stoici credevano, pur rimanendo perfettamente razionali. «Lo loro era una fede di tipo naturalistico, e la stessa cosa si potrebbe dire dei Quaccheri o degli Unitari moderni. Ma, di nuovo, io concentro il mio attacco sulle religioni che hanno credenze soprannaturali». Perché non si limita a decostruire la nozione di Dio, e vuole addirittura dimostrarne la non esistenza? «Perché credo che l´ipotesi di un essere soprannaturale che ha creato l´universo, si possa formulare come una proposizione scientifica: in quanto tale, diventa allora passibile non soltanto di verifica, ma anche di refutazione. E la mia tesi è che, parlando da un punto di vista scientifico, questa ipotesi appare molto improbabile». Non impossibile? «No. Ma non lo sono nemmeno le fate, o il Mostro di Spaghetti Volante che è recentemente diventato popolare in Internet come parodia di Dio». Lei usa l´evoluzionismo come arma antireligiosa, ma non crede che esso sia compatibile con la credenza in un Creatore che si limita a intervenire nel primo istante della creazione? «Certo, ma sarebbe un Creatore ben diverso da quello della Bibbia o del Corano. Nel suo libro La creazione (Zanichelli, 1985), Peter Atkins discute cosa dovrebbe fare un Dio che volesse organizzare le cose in modo che la Natura potesse badare a se stessa e generare autonomamente la vita, e la sua conclusione è che non dovrebbe fare assolutamente nulla!». Nemmeno «in principio»?. «Il «principio» è appunto il momento a cui Atkins arriva alla fine, dopo aver eliminato tutto il resto. Ma anch´io, come biologo, le posso dire che l´evoluzione per selezione naturale è un modo parsimonioso ed economico di generare la vita, che non necessita di alcun intervento divino». Rimane ancora la possibilità di pensare a Dio come giustificazione del perché ci sono leggi della natura, e del perché sono quelle che sono. «Questo lo trovo molto poco soddisfacente, in quanto lascia aperto l´analogo problema di giustificare allora perché c´è Dio, e perché è quello che è». Lei usa l´evoluzionismo anche per spiegare l´esistenza delle religioni: non crede che la loro emergenza sia troppo recente, rispetto ai tempi lunghi necessari all´evoluzione? «Questo è vero se parliamo di evoluzione biologica, e del tempo necessario a produrre un cervello che mostri una propensione per le religioni. Ma l´evoluzione culturale avviene molto più rapidamente, come mostra ad esempio il cambiamento delle lingue, o lo sviluppo della tecnologia: queste cose hanno una scala temporale di qualche secolo, ben compatibile con la millenaria storia delle civiltà che hanno sviluppato religioni». A proposito di evoluzione culturale, molta gente ritiene che la scienza stessa sia un prodotto del pensiero cristiano. «La scienza occidentale è sicuramente nata nel Rinascimento cristiano, ma questo non significa che debba qualcosa al Cristianesimo: anzi, si potrebbe argomentare che si sia sviluppata non grazie a, ma nonostante il Cristianesimo. E, comunque, non dobbiamo dimenticare le origini greche del pensiero scientifico. E nemmeno gli sviluppi in paesi non europei, soprattutto la Cina». Visto che abbiamo cominciato a parlare del Cristianesimo, lei crede alla storicità di Gesù? «La maggior parte degli storici ritiene che sia esistito, e io mi adeguo. Ma credo che Gesù sia stato soltanto una delle molte figure profetiche del suo tempo, tutte più o meno simili fra loro, e che la sopravvivenza del suo culto sia solo un accidente storico». Cosa pensa del fatto che, tra gli sparuti scienziati cristiani, ci siano comunque premi Nobel come Werner Arber e Charles Townes, o medaglie Fields come Enrico Bombieri e Laurent Lafforgue? «In genere gli scienziati «credenti» sono religiosi soltanto nel senso astratto di Einstein, ma qualche eccezione che crede letteralmente a cose come la verginità della Madonna effettivamente c´è. Io lo trovo molto difficile da capire, e immagino che ci riescano solo attraverso una compartimentalizzazione della mente: hanno il cervello diviso, e non permettono a una metà di interferire con l´altra». Cioè, sono scienziati durante la settimana e credenti la domenica? «Sì, e comunque sono molto pochi: nel libro cito, ad esempio, un sondaggio effettuato all´Accademia Nazionale delle Scienze statunitense, dal quale risulta che il 93 per cento dei membri sono atei o agnostici. Ci sono dati simili per la Royal Society inglese, e sarei molto curioso di sapere se la stessa cosa è vera anche per altre Accademie delle Scienze: ad esempio, per i vostri Lincei». Townes, che ho citato prima, ha vinto il premio Templeton per la scienza e la religione. Da come ne parla nel suo libro, si direbbe che lei proprio non sopporti la Fondazione Templeton, vero? « Non mi piacciono i suoi metodi. A volte trovano gente veramente religiosa da premiare, come Townes appunto. Ma spesso si limitano a scovare grandi scienziati che abbiano scritto qualcosa che suoni vagamente simpatetico verso la religione, come Freeman Dyson, e lo premiano. E´ una specie di corruzione finanziaria, e bisogna essere fatti tutti d´un pezzo per rifiutare un premio di più di un milione di dollari. Io, però, non prenderei troppo seriamente queste cose: quando si viene corrotti con somme cosí elevate, si agisce sotto costrizione». Un altro vincitore è John Barrow, che ha legato il suo nome al Principio Antropico: un argomento che, stranamente, nel suo libro lei apprezza. «Il fatto è che l´evoluzione spiega perfettamente lo sviluppo della vita sulla Terra, ma ha problemi con le sue origini: si tratta infatti di un evento molto raro, con una probabilità assolutamente minimale, dell´ordine di uno su qualche miliardo. Ma poiché ci sono così tanti pianeti nell´universo, essendoci un centinaio di miliardi di galassie, ciascuna con un centinaio di miliardi di stelle, allora ci si può attendere che ci siano miliardi di pianeti con la vita. E il Principio Antropico descrive quali condizioni questi pianeti debbano avere, per poter sviluppare una vita come la nostra: a me questa sembra una spiegazione scientifica, e per nulla teista». Il fatto è che il Principio Antropico viene spesso applicato all´intero universo. «E´ la stessa cosa. La probabilità che le costanti fondamentali della fisica siano finemente calibrate, in modo da permettere all´universo di essere come lo conosciamo, è assolutamente minimale. Ma si può pensare di vivere in un multiverso con tanti universi, ciascuno con i suoi valori delle costanti fondamentali, e allora ci si può attendere che ci siano universi con questi valori calibrati in maniera tale da produrre creature come noi. E il Principio Antropico spiega di nuovo soltanto quali condizioni questi universi minoritari debbano avere, per poter sviluppare una vita come la nostra». A me non sembra affatto la stessa cosa: un conto è parlare di un gran numero di pianeti, e un altro di un gran numero di universi!» «Sono assolutamente d´accordo con lei: è più plausibile fare questi ragionamenti coi pianeti, che con gli universi. Forse dovremmo chiedere ai fisici se ci sono altre ragioni per credere in un multiverso, invece che in un universo: da quanto ne so, ci sono, ma non so quali siano». Come risponderebbe a un´obiezione alla Berkeley, del tipo: la scienza fa la schizzinosa con Dio, ma poi crede in cose altrettanto metafisiche o implausibili, dalle stringhe ai multiversi? «Che c´è una differenza. Un Dio in grado di calibrare le costanti fondamentali di un universo o creare le condizioni per la vita su un pianeta, per non parlare di un Dio in grado di ascoltare e soddisfare le preghiere dei fedeli, dev´essere un´entità molto complicata e complessa. Il multiverso, invece, non è più complicato o complesso di un singolo universo: solo più prolifico e ridondante».
• Sono di passaggio ad Amburgo, ho un appuntamento col direttore della Zeit, che è il più importante settimanale tedesco. La sede della pubblicazione è in centro, a poca distanza dalla stazione: un edificio moderno, asettico, che potrebbe ospitare la direzione di una grande banca. Nessun essere umano a pianterreno: prendo uno degli ascensori, salgo al quarto piano. Bionde segretarie longilinee, tutte vestite impeccabilmente allo stesso modo, blusa bianca e jeans, mi accolgono con cortesia professionale, e alle 16,30 in punto, l´ora prestabilita, mi introducono nella stanza del direttore. Tutto prevedibile. Tranne il fatto che il direttore è un italiano. Giovanni di Lorenzo, che dirige la Zeit dall´agosto del 2004, è proprio italiano, di nascita e di passaporto. Nato nel 1959, ha trascorso l´infanzia e ha frequentato le elementari a Roma. All´età di undici anni (con mamma tedesca) si è trasferito a Hannover, dove ha fatto le scuole medie e l´università (tesi di laurea, le televisioni commerciali in Italia). Attratto dal giornalismo, di carta stampata e televisivo, perfettamente bilingue, poteva scegliere per la sua carriera, finita l´università, l´Italia o la Germania. Ha scelto la Germania. In breve tempo ha collaborato alla Süddeutsche Zeitung, quotidiano fra i più importanti, prima come inviato, poi come responsabile della terza pagina. Nel 1999 è andato a dirigere un quotidiano di Berlino, il Tagesspiegel. E tre anni fa è diventato direttore della Zeit. Conduce anche, con successo, un programma alla televisione. Il settimanale che dirige è forse, per dimensioni e strutture, unico al mondo. E´ di grande formato, come i quotidiani del passato. E´ stampato (con impaginazione moderna) su carta di giornale, non patinata. Ed è suddiviso in numerosi fascicoli, dedicati alla politica, all´economia, alla scienza, alla letteratura, ai viaggi, e ad altro ancora, tutti facilmente individuabili grazie a uno splendido indice che occupa una pagina intera. Fu fondato nel 1946, ispirandosi ai principii «di libertà, democrazia, socialità», quando la Germania era occupata, ridotta a un cumulo di rovine. Da allora ebbe successo, continuò a crescere: oggi vende 480.000 copie ogni settimana. Esce il giovedì e per la sua lettura, dice con teutonica precisione l´editore, occorrono mediamente tre ore. La sua figura più rappresentativa, attraverso gli anni, fu Marion Dönhoff, emblematicamente chiamata die Gräfin, la «contessa» (ai tempi dell´università era «la contessa rossa»), che lo diresse per vari anni: nata in una famiglia prussiana di solida nobiltà, figlia di una dama di compagnia dell´imperatrice Augusta Vittoria, partecipò a una cospirazione contro Hitler, e diventò famosa, fra le tante imprese, anche per una fuga a cavallo che durò sette settimane. Morì nel 2002, all´età di novantadue anni. Oggi, il nume tutelare della pubblicazione è Helmut Schmidt, già cancelliere della Repubblica federale. E si può ben dire che questo settimanale famoso, diretto attualmente, vedi caso, da un italiano, rappresenta la Germania di oggi, profondamente diversa da quella del passato. C´era nell´Ottocento la Germania di Bismarck, di impronta imperiale e prussiana, governata da una nobiltà di proprietari terrieri e di militari: due sconfitte sui campi di battaglia la distrussero, la Prussia fu incorporata nell´impero sovietico. Negli anni successivi alla guerra ero corrispondente a Bonn, ho visto le città in macerie: sembrava la fine. Dalle rovine è invece emersa una Germania totalmente diversa, rappresentata dalla borghesia renana, di cui Adenauer fu il leader: una specie di grande Svezia o di grande Svizzera, risoluta a vivere in pace e a godere la vita, con discrezione. La attraverso tutti gli anni, e ho l´impressione di muovermi in un giardino fiorito, ordinato, accogliente. La Zeit è lo specchio di questa Germania dei nostri tempi, moderna, elegante, capace di ironia e di un certo distacco: la Atene del Duemila. Una ricerca demoscopica del settimanale indica che il paese si muove verso sinistra, perché predomina fra i cittadini il desiderio di sicurezza: pensioni generose, certezza del posto di lavoro, reddito fisso, assistenza sociale. Ma è giusto considerare di sinistra queste aspirazioni? O non rispecchiano piuttosto il desiderio, semplicemente, di vivere in pace, senza ambizioni, in una civiltà giunta allo stadio finale, forse un po´ senile, aliena dalle avventure, infinitamente saggia? Affaccio l´idea nella conversazione con di Lorenzo, ed è inevitabile un cenno a Spengler, col suo tramonto della civiltà: un tramonto che può essere dolce, oraziano, piuttosto che apocalittico. Quando poi di Lorenzo mi accompagnerà all´ascensore, incontreremo per caso una persona alla quale sarò presentato: una persona che porta, vedi caso, il nome di Spengler, un suo lontano parente. In Germania può succedere. Parliamo di giornali, naturalmente. La Zeit è costantemente in crescita, contro tendenza, perché oggidì la maggior parte dei giornali, in Germania e fuori, è in difficoltà. Ha un avvenire la carta stampata? Di Lorenzo pensa di sì, come me: purché segua nuove strade, tenendo conto di un pubblico che ha altre esigenze, e ricordando che è sempre più importante la componente femminile. E l´Italia? Di Lorenzo non dimentica di essere italiano, in Italia ha i familiari, ci viene tutti gli anni. Che impressione fa dunque, questo nostro paese, su un connazionale che ha successo in terra straniera? Che impressione fanno, su un giornalista che lavora ad Amburgo, i nostri giornali? Anche lui, come me, come tutti, ha l´impressione che attraversiamo un periodo poco felice, di scarsa reattività, di rassegnazione: cita come esempio episodi recenti, la reazione fiacca agli incendi dei boschi, ai soprusi nella raccolta dell´immondizia. Ma è discreto, non infierisce nei giudizi. Forse condivide, come tanti altri nella sua patria di adozione, un debole per l´Italia.
• Presidente Cobolli Gigli, come si sente dopo essere stato impallinato dalle piccole del calcio italiano? «Sono ancora vivo e vegeto. Mi rammarico solo che come Juventus non saremo nel consiglio mentre si discuteranno argomenti vitali per il calcio italiano». Forse è proprio per questo che non l´hanno voluta. «Ho letto proprio su "Repubblica" Cellino parlare di sconfitta dell´arroganza. E´ un uomo intelligente e simpatico, forse un poco umorale, ma si ispira al passato, a vecchie delusioni. Una volta mi ha detto che nel sottoscala della Juve c´è ancora Moggi: sono andato a controllare ma non l´ho trovato». Il bilancio finale è che non ci saranno le grandi nel consiglio. «Un segnale preciso che hanno voluto dare le altre società. Però questa sconfitta ha in realtà rinforzato il legame tra le grandi che si sono sentite escluse e ho sentito forte la solidarietà dei miei colleghi». Potevate forse preparare meglio la votazione. «Ma io non ho fatto campagna elettorale. Ero nel Consiglio di Lega di serie B, con la promozione si era prospettato un certo automatismo per l´elezione nel sesto posto di A. Chissà, forse è stato un giudizio non positivo nei miei confronti del mio lavoro». Adesso comunque bisognerà trovare un accordo. «Non so se augurarmi un accordo o aspettare che la Melandri ci spieghi come dobbiamo dividere i diritti tv. Non so dove ci sia maggiore saggezza». Hanno accusato la Juve e le altre grandi di voler essere le padrone del calcio. «Io non sono un padrone. Cellino è un padrone e può perdere un milione di euro di tasca sua. Io devo rispondere ai 40mila piccoli azionisti». Ma perché le grandi non riescono a cancellare la sensazione di voler prevaricare sulle piccole? «Ma è così dovunque nel mondo, in qualsiasi attività. Ci sono i grandi che prevaricano e i piccoli pieni di rancori». Quale può essere la base di un accordo futuro sui diritti? «L´esistenza di accordi pregressi ci obbliga a lavorare su due periodi: uno fino al 2010, che porterà solo a modificazioni marginali, l´altro con la centralizzazione dei diritti in Lega. La filosofia di base non può essere quella di dare meno alle grandi o di riparare a torti passati». E´ possibile la formula inglese, il 50% diviso tra tutti e l´altro 50% secondo i meriti? «Uno schema che al momento è inapplicabile. Potrà funzionare, in futuro, solo se i proventi dei diritti tv cresceranno, allora sì potremo dare la metà a tutti: il che vuol dire non tanto di meno ai grandi e molto di più ai piccoli. Ma per ora non potrà essere che il 30%, il 35%. Non posso andare dai miei azionisti e dire loro: ci hanno tolto ”x´ milioni». Ma la Lega è attrezzata per accrescere la torta dei diritti? «No, manca completamente di capacità di marketing, non l´ha mai fatto. La Lega si deve svegliare. Si perde in un milione di piccole cose e non si accorge che il 2010 è vicino». Che farà invece? «Ho due obiettivi: tornare a essere grandi per entrare in Champions League e lavorare ugualmente per creare il sistema secondo i consigli della Melandri». La sensazione che lei dà è di preferire la sponda con il governo all´accordo con le altre società. «Ma quando noi parliamo con la Melandri e gli altri, il meccanismo della gradualità ce l´hanno ben chiaro e che la quota per tutti può aumentare quando entreranno più soldi. Credo che il ministro abbia più buon senso dei signori in Lega». Galliani è tornato a minacciare uno scisma con una Lega dei grandi club. «Non mi faccia fare fantascienza. Lo scopo di noi cinque, Milan, Inter, Juve, Roma e Napoli, è di stare tranquilli e tutelare i nostri interessi». Matarrese ha dato il suo avallo alla rivolta dei piccoli club. «Ma in assemblea aveva invocato che nel Consiglio ci fossero le diverse anime delle società. L´hanno zittito, accusandolo di tirare la volata alla Juve. Allora si è limitato a fare, bene, il presidente dell´assemblea. Quando parla dopo, si lascia trascinare dall´impeto». Ma c´è una questione della sua rappresentatività nei vostri confronti? «A lui interessa fare il presidente che, mi creda, è un mestiere difficile. E che noi siamo fuori non è un problema suo, ma un problema della Juve». Non le sembrano sconfortanti queste diatribe di Lega? «In Italia non ci sono molte cose confortanti. Ma io sono un neofita e credo che anche dallo scontro possa nascere il dialogo».
• Prof, le dicono, ha presente cosa guadagna un calciatore? Lei che ha studiato, quanto piglia? «A fine carriera, non arrivo a 1800 euro al mese». Seduta sull’unico divano angolare d’un piccolo soggiorno, ultimo piano di un palazzone di Palermo, c’è la prof che lo scorso giugno fu rinviata a giudizio per aver imposto a un allievo bullo di scrivere cento volte «Sono un deficiente» (lui, veramente, scrisse deficente, senza la i). Ha passato parte dell’estate a respingere le avances dell’intero palinsesto televisivo italiano - ah, non fatelo sapere ai suoi alunni! - e ora prepara la ripresa delle lezioni «sperando che tra tre anni mi lascino andare in pensione». Mica per mancanza di passione, però. E’ che la scuola dei deficienti logora. E ci sono momenti - per esempio quando un genitore risponde alla richiesta d’intervenire sul figlio indisciplinato alzando le spalle e sbottando: «Prof, ma lei lo sa quel che c’è al Malaspina?» - in cui viene voglia d’arrendersi: «Perché Malaspina è un carcere minorile, capisce? E allora, dopo un paragone così, cosa ci possiamo ancora dire io e quel padre?». Occorre qui fare un passo indietro per ricordare che una prof vecchio stampo, con cattedra di italiano, storia e geografia alle scuole medie fin dal 1973 e una sfilza d’incarichi in zone disagiate, non usa le parole pur che siano; e quando dice «deficienti» intende esattamente «mancanti, che presentano carenze». Come quei ragazzini che, impedendo a un compagno più piccolo d’entrare nel bagno dei maschi, avrebbe per l’appunto «dimostrato di mancare di solidarietà, rispetto per l’altro, senso della legalità». Impegnarsi? Non serve Vista con il rigore dell’etimologia, oltre che con gli occhi dell’insegnante di Palermo, la scuola italiana degli ultimi anni è dunque parecchio deficiente. Nella scuola media in cui insegna la prof, per dire, manca pure il riscaldamento: «Una storia complicata. L’edificio, parecchio fatiscente, è della Curia, e con il Comune si palleggiano la responsabilità di fare i lavori di ristrutturazione», spiega lei. Perché stupirsi, allora, se ci sono famiglie che la palla sanno solo lanciarla, ritenendo che una prof sia pagata non già per insegnare la grammatica e le guerre puniche, ma per fare la baby-sitter? Ma procediamo con ordine nell’inventario: deficienza numero uno? «Abbiamo permesso che si facesse largo nella società l’idea che studiare non serve a niente. Quanti sono veramente convinti che la cultura sia ancora uno strumento di promozione sociale? Non i ragazzini, naturalmente. Non i genitori, spesso. E a ben vedere neppure gli insegnanti: di fronte ai miei allievi che hanno il mito del calciatore e della velina e mi dicono ”prof, lei parla parla, ma le strade sono piene di diplomati”, io replico, ci mancherebbe, ma so che i miei sono argomenti che lasciano il tempo che trovano. Perché questo abbiamo dimostrato ai più giovani: impegnarsi non serve. Ed è una responsabilità che dobbiamo assumerci tutti quanti, perché i ragazzini si sa che ci provano, ma gli adulti?». I genitori, per esempio. «Giustificano tutto. Se il figlio non ha fatto i compiti, se si comporta male, se quel giorno non gli va d’andare a lezione. Ci sono famiglie che arrivano a produrre certificati medici per assenze non dovute a malattia. Quando li convochi per parlargli di un deficit d’impegno, allargano le braccia e rispondono: "Io glielo dico di studiare, ma che ci posso fare?" Vuol sapere qual è la risposta più frequente delle mie allieve, quando dico loro che sarebbe meglio non venire a scuola in abiti da spiaggia? ”Prof, non mi dice niente mia madre e me lo viene a dire lei?”. Non parliamo poi delle superiori, il regno della compiacenza, coi ragazzi che entrano, escono, si giustificano dicendo ”avevo un impegno”, con la scusa che tanto hanno compiuto i diciotto anni... Una volta poteva accadere che la bocciatura scatenasse una reazione nelle famiglie, non foss’altro che per la prospettiva di dover mantenere il figlio un anno in più, acquistare nuovi libri... Ora non si boccia più, e nessuno si pone il problema. Il ministero ci dà dei parametri minimi e massimi, ma anche chi sta sotto quelli minimi viene promosso lo stesso. E se questo è il messaggio, come se ne esce? Vuol sapere com’è iniziato tutto?». Dica lei, prof. «Lasciando correre. Siamo una società che lascia correre, quando basterebbe che ciascuno facesse la sua parte. Lasciano correre le madri, poverette: magari lavorano tutto il giorno, alla sera sono sfinite e non hanno più la forza di fare discussioni. Lasciano correre gli insegnanti, poveretti, perché sono frustati dalla difficoltà di farsi ascoltare, oberati dalla burocrazia, consapevoli di non poter più reagire, stritolati come sono tra il genitore che arriva urlando e il preside che allarga le braccia - guardi quel ch’è accaduto a me - o magari perché la scelta d’insegnare è vissuta come una specie di ripiego». Ecco: deficienti anche gl’insegnanti? «In un mondo del lavoro così incerto, il nostro è rimasto uno dei pochi posti fissi relativamente facili da ottenere. Oggi un giovane dice: intanto prendo questo stipendio, che è basso ma sicuro. Poi mi dò da fare per trovare altri lavoretti». E li trovano? «Penso di sì». I classici perduti La prof non è un’ingenua: «Ho cresciuto due figli, con grandi sacrifici li ho mandati a specializzarsi all’estero. Mi hanno dato soddisfazioni. Però... quando avevano l’età dei miei allievi, comprai loro tutti i classici della letteratura per ragazzi, poi capii che non li avrebbero letti e dovetti proporre letture più veloci, capaci di attirare la loro attenzione». Che le nuove generazioni crescano senza aver letto Pirandello o i romanzieri russi, insomma, la prof l’ha messo in conto, senza scandalo, da tempo; piuttosto è lei a scandalizzare la giornalista: «Ma guardi che le ultime leve d’insegnanti sono già cresciute dentro quella logica lì!». E hai voglia a progettare il ritorno alle tabelline e alla sintassi, la prof prende atto della svolta Fioroni e non è certo contraria - «si sprecano tanti soldi in progetti e progettini inutili, ci si chiede di essere tutto, quando sarebbe già tanto poter insegnare bene le nostre materie...» - ma si permette di dubitare: «Oggi non è più possibile dire ai ragazzi: spiego la lezione in classe fin qui e poi voi leggete a casa le dieci pagine successive. Anche il più brillante tornerà il giorno dopo dicendo: ”Non ho capito”. Nel nostro mondo veloce, è diminuita la capacità di concentrarsi sulla pagina scritta. Aggiunga che dalle elementari ci arrivano ragazzini che non hanno imparato a leggere...». In che senso, scusi? «Nel senso che non sanno leggere». Sarà per questo che la cosa più eccezionale accaduta alla prof l’anno scorso non è essere finita su tutti i giornali, quanto l’aver terminato il programma di storia con la sua terza: «ogni tanto succede. Sono soddisfazioni, sa?».

LA REPUBBLICA GIOVEDI’ 6/9/2007
ANDREA GRECO
MILANO - Torna l´aria di tempesta sui mercati, che si avvitano in una spirale negativa del "costo" di oltre 150 miliardi solo in Europa, in capitalizzazione, con perdite attorno al 2% per gli indici azionari. Le banche centrali tornano in sala macchine e immettono altra liquidità nel sistema: la Fed e la Banca d´Inghilterra ieri, la Banca centrale europea con tutta probabilità oggi, in occasione della riunione del direttivo.
Cos´è accaduto in poche ore, a sprofondare nuovamente i listini nel clima soffocante dell´agosto? Di concreto poco, ma di simbolico molto, attraverso il duplice pronunciamento dell´Ocse e della Federal Reserve. L´organizzazione dei paesi occidentali in mattinata aveva lanciato l´allarme: la crisi dei mutui subprime – i finanziamenti di qualità inferiore erogati negli Stati Uniti e diffusi tramite le cartolarizzazioni nei portafogli di tutto il mondo – «è più forte del previsto», e intaccherà la crescita dei paesi occidentali membri. Quindi tagli delle stime di crescita, Italia compresa. In serata, a completare l´opera, il Beige Book dei banchieri centrali americani ha confermato quel che molti sospettavano: l´impatto della crisi sull´economia Usa è «limitato, tranne che per il settore immobiliare». La qualità del credito è ancora buona, anche se la crisi dei mutui «si è aggravata». Ammissioni di gravità, da parte di due fari del mercato. Abituati a soppesare le parole, edulcorarle nel caso, sapendo troppo bene che, da settimane, l´umore isterico degli investitori si è potuto placare solo con iniezioni massicce di denaro pubblico e con mantra rassicuranti, ripetuti come a uno specchio.
Proprio per questo gli assunti di ieri hanno spinto ovunque l´offerta di titoli azionari. Londra ha perso l´1,6%, Parigi il 2,1%, Francoforte l´1,7%, Madrid e Milano il 2,4%. Né hanno fatto meglio le Borse di New York: l´indice Dow Jones ha perso l´1,07% e il Nasdaq lo 0,92%. Anche perché le vendite di case a luglio, negli Usa, sono scese del 12%, il peggior risultato dal 2001. Praticamente nessuno si salva dalla violenza venditrice, ma tra i più colpiti ci sono sicuramente i titoli finanziari, "rei" di aver guadagnato con i mutui ad alto rischio e che guadagneranno meno per il prossimo restringimento creditizio. I broker Merrill Lynch e Ubs avevano ridotto le raccomandazioni sul settore giusto martedì. Ieri Bradford & Bingley ha perso il 5,2%, Société Generale il 3,3%, Northern Rock il 5%, Deutsche Bank il 2%. Anche a Piazza Affari i bancari hanno dato il la: giù del 3,7% Unicredit e Mediolanum, meno 3,45% Bpm, 3,2% Capitalia, 3% Intesa Sanpaolo, poco meglio le altre. Anche i titoli industriali hanno sofferto. Come Fiat (’3,6%) che sconta il rialzo della vigilia, o Enel (’2%) pesante da due giorni per le attese poco rosee della trimestrale pubblicata oggi.
Poco sorprendente che, in questo contesto, la Fed abbia fornito di altri 8,5 miliardi di dollari il mercato. O che la Banca d´Inghilterra, per la prima volta da quando, un mese fa, è scoppiata la crisi finanziaria, ha aumentato del 6% l´ammontare delle riserve a disposizione delle banche commerciali britanniche. Tutti catalizzatori della domanda. Oggi dovrebbe fare la sua parte anche la Bce, che ieri ha espresso in una nota nuove preoccupazioni, sul fronte delle valute: «La volatilità del mercato monetario è aumentata, se ciò dovesse persistere oggi siamo pronti ad assicurare condizioni ordinate del mercato monetario». Difficile, però, attendersi novità sui tassi di interesse in Eurolandia. Almeno oggi.

LA REPUBBLICA GIOVED 6/9/2007
MAURIZIO RICCI
«IL marasma è ben lungi da essere finito» ha dichiarato ieri al Congresso Robert Steel, il responsabile per la finanza nazionale del Tesoro americano. In altre parole, l´impressione è che la cura da cavallo che le banche centrali hanno adottato, ormai da quasi un mese, attraverso quasi quotidiane iniezioni di liquidità, come quelle di ieri, nel mercato finanziario, non ha funzionato. Pompare soldi nella speranza di rimettere in moto gli ingranaggi del credito è servito solo ad evitare un collasso, come aspirine che trattano il sintomo, ma non curano la malattia: gli ingranaggi restano bloccati. Oggi potrebbero passare agli antibiotici, tagliando direttamente i tassi di interesse, per rendere il credito di nuovo facile e appetibile. Ma non è detto che basti.
La crisi finanziaria esplosa ad agosto, infatti, sta già oscurando le prospettive dell´economia reale, costringendo - come è avvenuto ieri per l´Ocse - ad una revisione delle previsioni di crescita, di investimenti di occupazione che, ancora a giugno, sembravano brillanti. Per vedere questo meccanismo concretamente al lavoro, basta guardare all´andamento del Libor, il tasso interbancario sul mercato di Londra. Nonostante le iniezioni di liquidità delle banche centrali, ieri il Libor a 3 mesi per il dollaro era al 5,72 per cento, il livello più alto dal gennaio 2001, contro il 5,36 per cento ancora di luglio. E´ la prova che il credito è sempre più caro, perché, nonostante gli sforzi di Bce e Fed, è sempre più difficile trovare chi voglia prestare soldi a qualcun altro. Ma il Libor è un tasso cardine, perché vi sono agganciati migliaia di prestiti alle aziende e milioni di mutui immobiliari in tutto il mondo, Italia compresa. Il rincaro del denaro espresso dal Libor si ripercuote, dunque, direttamente sui bilanci delle imprese e sui portafogli delle persone.
Un taglio dei tassi d´interesse da parte delle banche centrali, del resto, può fermare l´ascesa del Libor, ma la crisi esplosa ad agosto ha radici più profonde. Secondo Bill Gross che, attraverso la Pimco, gestisce il più grande operatore in obbligazioni al mondo, la crisi è il risultato dei miracoli della nuova finanza, quella del boom dei derivati. Sul Financial Times, Martin Wolf sostiene che dalla crisi si esce rivedendo la normativa che ha sottratto la finanza derivata ad ogni forma di trasparenza e di controllo. Il motivo per cui il credito è, oggi, paralizzato è, infatti, che nessun potenziale prestatore di denaro sa se e quanto è affidabile chi glielo sta chiedendo, quanti derivati, a cominciare dai famigerati Cdo, abbia in cassa e cosa ci sia dentro questi Cdo. Il boom della finanza derivata, osservava un anno fa il presidente della Fed di New York, Tim Geithner, ha reso più fluidi e liquidi i mercati, «ma le novità non sono mai state testate da una crisi». La crisi di agosto ne ha fatto emergere le debolezze.
La prima debolezza è che nessuno è in grado, oggi, di valutare le perdite insite nella situazione attuale. La stima prevalente è fra i 100 e i 200 miliardi di dollari. Ma il problema non riguarda solo i mutui immobiliari, che il mutuatario non salda. Impacchettati nei titoli-salsiccia come i Cdo, ci sono anche i debiti delle carte di credito, le rate delle automobili, i prestiti alle aziende.
Ancora più importante, secondo Gross, sarà capire «dove sono nascoste queste perdite». Quali sono i "cadaveri", secondo la cruda definizione che circola fra gli analisti, non ancora riconosciuti? Man mano che il velo dell´opacità si solleva, si scopre che anche insospettabili fondi monetari, sulla carta l´investimento più sicuro, sono coinvolti nella crisi dei subprime, i mutui immobiliari senza garanzia. Bloomberg riferisce, ad esempio, che fondi monetari gestiti da Bank of America, Credit Suisse, Fidelity e Morgan Stanley (al top della finanza mondiale) avevano in cassa, a giugno, Cdo per un valore nominale di 6 miliardi di dollari. Inoltre, il meccanismo di formazione dei Cdo prevede che una banca crei un´apposita entità, fuori dal suo bilancio, (il nome in gergo è "conduit") per emetterli e gestirli. La Sec, la Consob americana, ha cominciato ad indagare su questi "conduit". Di fronte a perdite montanti, la banca può, infatti, essere costretta a reinserirli nel bilancio, perdite comprese. In realtà, nota l´economista Nouriel Roubini, è difficile gestire con gli strumenti tradizionali la crisi di un mondo del credito che tradizionale non è più.
Non sono più le banche a creare credito, facendo leva sui loro depositi. Ma il credito è creato da una moltitudine di attori, attraverso la moltiplicazione dei derivati, collocati a garanzia del credito. Una crisi creditizia non si esprime in una corsa allo sportello, perché lo sportello in un hedge fund non c´è. E, a differenza di tutte le crisi bancarie dopo il 1929, non c´è un sistema di assicurazione dei depositi che freni il panico. La conseguenza è che è difficile curare la paura, anche tagliando i tassi. Lo verificheremo presto: il 14 settembre arriva a scadenza quasi la metà del miliardo di dollari di "commercial paper", sorta di cambiali a nove mesi, che sono la linfa del lavoro quotidiano del sistema creditizio. Sarà cruciale capire quante verranno rinnovate.

LA REPUBBLICA, GIOVEDì 6/9/2007
ALBERTO D’ARGENIO
STRASBURGO - Sulla scia della crisi dei subprime l´Ocse taglia le previsioni di crescita degli Stati Uniti e delle maggiori economie della zona euro, compresa quella italiana. Lo ha reso noto ieri il capo economista dell´organizzazione di Parigi, Jean-Philippe Cotis, indicando che in Italia nel 2007 la crescita del Prodotto interno lordo si fermerà all´1,8% rispetto al 2% previsto a maggio. Stesso discorso per Francia (dal 2,2 all´1,8%) e Germania (dal 2,9 al 2,6%), mentre la zona euro perderà un decimo di punto attestandosi al 2,6%. E i problemi, ovviamente, toccheranno anche gli Usa, dove la crescita si fermerà all´1,9% rispetto al 2,1% stimato inizialmente. Ma in serata la Federal Reserve ha cercato di raffreddare gli allarmi indicando che la crisi dei mutui ha avuto effetti «limitati» sull´economia reale.
Lo scoppio della bolla immobiliare americana, ha spiegato l´Ocse, è stato «più forte del previsto», ragion per cui non è si può escludere che gli Usa cadano in recessione. Quanto all´Italia, la strada da seguire è la stessa già indicata dal ministro dell´Economia Tommaso Padoa-Schioppa: «La priorità è quella di continuare a ridurre il deficit e quindi di tagliare le spese», ha indicato Cotis.
Ieri anche le Nazioni Unite si sono espresse sulla crescita, indicando che l´economia mondiale nel 2007 metterà a segno un´espansione vigorosa (+3,6%), anche se in rallentamento per colpa degli Usa.
Analisi improntate al pessimismo che ieri sera sono state bilanciate dal Beige Book pubblicato dalla Federal Reserve, secondo cui fatta eccezione per il settore immobiliare l´impatto sull´economia reale della crisi dei subprime è «limitato». Il «rallentamento del comparto immobiliare si è aggravato nella maggior parte dei distretti industriali - ha indicato la Fed - mentre le turbolenze di mercato hanno portato a un restringimento dei tassi di intesse standard sui prestiti». Cionostante si è assistito a un «moderato rialzo» della spesa al consumo e a un «modesto aumento» dell´occupazione. Analisi che non è riuscita a calmare i mercati, con Wall Street che nei minuti successivi alla pubblicazione del rapporto è andata sotto: Dow Jones ha perso l´1,4% e il Nasdaq l´1,07%.
Sul versante italiano, il ministro per lo Sviluppo economico, Pier Luigi Bersani, ha commentato con grande cautela i dati delle organizzazioni internazionali. «Per ora non abbiamo ragioni di correggere le nostre stime», ha affermato da Strasburgo sottolineando che gli effetti negativi dei subprime eventualmente si sentiranno nel 2008: «C´è da aspettarsi qualche contraccolpo, faremo le nostre verifiche per capirne la dimensione». Analisi in linea con quella del commissario Ue agli Affari economici, Joaquin Almunia, che parlando sempre dall´Europarlamento ha ribadito come i rischi «più evidenti» si proiettano sull´anno prossimo, aggiungendo però che se «riusciremo a migliorare la fiducia avremo risultati migliori di quanto in molti vanno dicendo». Invece per il commissario al Mercato interno, Charlie McCreevy, problemi simili a quelli verificatisi negli Usa in Europa «hanno molte meno probabilità di verificarsi»: è tuttavia necessario «restare vigili» sui conflitti di interesse delle agenzie di rating, ha aggiunto spiegando che è necessario «aumentare la trasparenza».

LA REPUBBLICA, GIOVEDì 6/9/2007
HUGO DIXON
Per i mercati finanziari tre mesi sono un periodo lunghissimo, in cui un oceano di liquidità può diventare un deserto dove anche le transazioni a basso rischio sono guardate con sospetto. Grazie al deciso sostegno delle banche centrali i mercati dei prestiti overnight continuano a funzionare, ma dal fronte dei finanziamenti a tre mesi giungono brutte notizie: anche se il differenziale tra il tasso d´interesse dei prestiti tra banche (libor) e il tasso overnight esente da rischio - di solito intorno ai 10 punti base - ora tocca i 75 punti base, le operazioni (anche quelle in titoli indenni dalla crisi dei mutui subprime statunitensi) restano scarse. I problemi correlati sono, da una parte, la penuria di fondi da prestare delle banche e il rapido calo dei prestiti a breve termine nel settore non bancario, che le banche si trovano a dover compensare. E, dall´altra, la riluttanza delle banche a prestare anche i soldi che hanno, per timore che la crisi di liquidità costringa all´inadempienza anche intermediari solidi. vero anche che così facendo si riduce la disponibilità di fondi nel sistema. Così facendo, la contrazione della liquidità accelera l´esodo dalla carta commerciale e incentiva le singole banche ad accumulare riserve. questo il prezzo della massiccia riduzione dell´indebitamento. L´illiquidità non è mai un problema insolubile in un sistema finanziario basato sul corso forzoso della cartamoneta, perché le banche centrali possono stamparne a volontà. Alle autorità potrà anche non piacere la nazionalizzazione del rischio che è la conseguenza pratica dell´accettazione di carta commerciale a tre mesi, ma tra i due mali questo sembra il minore.
Edward Hadas
[Esperimento Banca d´Inghilterra]
La Banca d´Inghilterra ha deciso di lanciarsi in un avvincente esperimento di politica monetaria: giocare secondo le regole. La Banca centrale europea e la Federal Reserve si sono precipitate a soccorrere le banche rimaste vittime della stretta creditizia. Una tecnica che non ha ancora rimesso in marcia i mercati creditizi, ma che da ai mercati finanziari l´impressione che gli istituti centrali si stiano attivando. Diverso l´atteggiamento dell´istituto inglese, che mette a disposizione delle banche ulteriori fondi eventualmente necessari, ma a fronte di un tasso d´interesse di un punto percentuale superiore al normale. E se il dolore è la misura giusta per riuscire nell´impresa, allora questo «amore estremo» è la cura giusta. Il mercato inglese dei fondi a breve termine è il più rigido in circolazione. Il tasso interbancario a tre mesi britannico (Libor) è salito al 6,8%, più alto rispetto al tasso di penalità del 6,75% applicato per i prestiti overnight della banca centrale.
Va detto, però, che un aiuto eccessivamente esiguo da parte delle autorità potrebbe trasformare la paura degli istituti emittenti in panico. probabile che la Banca d´Inghilterra sia l´istituto centrale giusto per provare la via dura, poiché il settore bancario britannico è abbastanza grande da offrire un test affidabile, ma abbastanza piccolo da evitare che il fallimento minacci l´economia mondiale. vero anche che il fallimento non andrebbe comunque bene ai banchieri inglesi, alcuni dei quali vogliono che la loro banca segua la corrente principale. Difficile dargli torto.
Edward Hadas
(Traduzioni a cura di MTC)

LA STAMPA 6/9/2007
La crisi finanziaria sta danneggiando la crescita economica: tra le organizzazioni internazionali l’Ocse ieri è stata la prima ad abbassare le sue previsioni. Ne hanno risentito i mercati. Intanto, di fronte a nuovi segni di instabilità finanziaria, la Banca centrale europea ha annunciato che oggi tornerà ad immettere liquidità, proseguendo nella svolta iniziata ieri l’altro; mentre la scorsa settimana ne aveva sottratta, pensando di intravedere un ritorno alla normalità.
Quella dell’Ocse (che raggruppa i 30 maggiori Paesi industriali) è una revisione provvisoria, relativa al solo 2007. Non è affatto pessimista sull’Europa, per cui prevede un andamento discreto nel terzo e quarto trimestre, né in particolare per l’Italia. Anzi il capo-economista dell’Ocse, il francese Jean-Philippe Cotis, si spinge a ipotizzare che l’Istat riveda al rialzo il deludente dato provvisorio (+0,1) sul nostro Pil nel secondo trimestre. Ma, l’aumento dell’incertezza si farà sentire.
Negli Stati Uniti il rallentamento sarà marcato, perché «il settore immobiliare eserciterà un effetto di freno più prolungato e più energico»: per questo l’Ocse rivede la sua previsione sul Pil 2007 dal già basso (per gli Usa) 2,1% a 1,9%. In Europa, il numero è ritoccato solo di un decimo, da 2,7% a 2,6%, per l’insieme dell’area euro, di più per i tre Paesi maggiori: tre decimi in meno per la Germania, da 2,9% a 2,6%, quattro per la Francia, da 2,2% a 1,8%, due decimi per l’Italia, da 2,0% a 1,8%.
Sul 2008, per ora, l’Ocse non si esprime. Proprio gli eventi della giornata hanno confermato che la crisi scoppiata in agosto è tutt’altro che finita («le condizioni dei mercati finanziari rimarranno difficili a lungo» prevede Cotis), ed è difficile capirne gli effetti più in là. Le Banche centrali si trovano di fronte a scelte complicate: i dati fondamentali dell’economia indicano la necessità di alzare in futuro i tassi di interesse, mentre a breve per evitare il collasso finanziario stanno agendo in senso opposto.
In breve, alla Federal Reserve americana (che ieri è intervenuta di nuovo, immettendo sul mercato 8,5 miliardi di dollari) l’Ocse consiglia «un qualche alleggerimento del tasso sui Federal Funds» dopo il taglio del tasso di sconto già compiuto in agosto (gli analisti ipotizzano meno 0,25 punti il 18 settembre). Alla Bce l’Ocse invece consiglia di aumentare ancora un po’ i tassi «una volta che i mercati si siano stabilizzati».
La prima riunione dopo le ferie estive del consiglio direttivo della Bce si terrà appunto oggi. Prima della crisi, si era certi che i 19 (sei membri del comitato esecutivo di Francoforte e 13 governatori nazionali) avrebbero deliberato di far salire oggi il tasso di intervento dall’attuale 4% al 4,25%. Ora la previsione degli esperti è che si resterà al 4%, ma che nella conferenza stampa il presidente Jean-Claude Trichet confermerà l’orientamento verso un successivo rialzo.
Di qua e di là dell’Atlantico, il problema comune nell’immediato è decidere quanta liquidità fornire ai mercati. Se manca, le banche, per mancanza di fiducia le une nelle altre, nel dubbio sui rischi di credito, fanno salire i tassi con possibilità di insolvenze; se ce n’è troppa, si salvano gli imprudenti e gli imbroglioni («occorre evitare il salvataggio di chi ha assunto rischi eccessivi» sostiene l’Ocse) con nuovi rischi inflazionistici per il domani.
Anche la Bce oggi ritoccherà all’ingiù le sue previsioni sulla crescita economica. Dalla Commissione europea, che in genere si muove in sincronia, il commissario agli Affari monetari Joaquìn Almunia ripete che «l’impatto delle turbolenze sull’attività economica e sulla crescita occupazionale in Europa nel 2007 ci sarà ma sarà molto limitato» mentre è troppo presto per pronunciarsi sul 2008.

LA STAMPA 6/9/2007
Come una febbre malarica la crisi dei mutui Usa ad alto rischio riemerge a distanza di settimane e torna a far tremare le Borse. La nuova crisi si è manifestata a partire dalle piazze asiatiche, Tokio in testa, che, con una perdita dell’1,6%, è stata la peggiore del continente. Lì infatti si sono concentrate le vendite sui titoli del «real estate» per il timore di una fine del boom immobiliare giapponese.
Il contagio è arrivato, puntuale, in Europa dove ha pesato l’allarme lanciato dall’Ocse, che ha tagliato le stime di crescita per il 2007 dell’Ue, degli Usa e di tutta l’area G7 come inevitabile conseguenza dell’impatto dei mutui subprime sull’economia. Una crisi definita dall’organizzazione dei paesi maggiormente industrializzati «più forte del previsto». A peggiorare le cose sono arrivati nuovi segnali deludenti dagli Stati Uniti, dove le vendite di case, crollate del 12,2% sul mese precedente e del 16,1% sullo stesso periodo 2006, dimostrano che la bufera sul mercato immobiliare Usa è ancora in corso.
La bolla speculativa dei «subprime» continua quindi a produrre danni sia all’economia reale sia a quella finanziaria e la nuova iniezione di liquidità da 8,5 miliardi di dollari eseguita dalla Fed non è servita a ridare slancio alla Borsa. Tantopiù che l’Ocse vede un contesto in cui «le condizioni dei mercati finanziari probabilmente rimarranno difficili» e non esclude la possibilità di una recessione negli Stati Uniti.
Riguardo all’Europa il commissario agli affari economici Joaquin Almunia, ha ribadito che «l’economia si basa su fondamenta solide e non dovrebbe essere colpita dalle recenti turbolenze». Contemporaneamente il commissario al mercato interno, Charlie McCreevy, ha insistito perchè venga chiarito il ruolo delle agenzie di rating, nella cui opera potrebbe innestarsi un conflitto d’interessi.
Sui mercati del Vecchio Continente, dopo cinque sedute di fila al rialzo, è stato un giorno nero, in cui sono stati bruciati 159 miliardi di capitalizzazione. I listini, partiti in lieve flessione, hanno cominciato la loro picchiata dopo l’apertura negativa Wall Street che ha poi continuato a macinare perdite principalmente per la flessione del mercato immobiliare i cui dati sono i peggiori dal 2001. In seguito la situazione è peggiorata con la diffusione del «Beige Book», il periodico rapporto sull’economia Usa della Fed, che affondava ancor di più la lama nella piaga dei mutui «subprime» pur asserendo che i criteri sono stati resi maggiormente selettivi. Wall Street ha concluso la seduta con l’indice Dow Jones a -1,07% e il Nasdaq a -0,92%.
In Europa Milano si è aggiudicata la maglia nera con una perdita del 2,42%, seguita da Stoccolma (-2,32%), Parigi (-2,14%) e Madrid (-2,40%). Tutte in negativo ma con perdite inferiori al 2% le altre piazze: Francoforte -1,73%, Londra -1,66%, Amsterdam -1,50% e Zurigo -1,37%.


IL SOLE 24 ORE 06/09/2007
Luca Paolazzi
«Così è degenerata la corsa alle triple A». La turbolenza dei mercati in agosto? stata accentuata dal cattivo uso di informazioni scarse. Gli eccessi nelle emissioni di titoli poco affidabili? Sono figli naturali dei surplus valutari dei Paesi emergenti. E alcuni hedge fund, che hanno anticipato la crisi e contribuito a far esplodere la bolla del credito ipotecario, si preparano a cogliere le nuove opportunità generate dai prezzi bassi.
Antonio Foglia dà un’interpretazione poco convenzionale della crisi che ha colpito i mercati nell’ultimo mese e mezzo. Foglia, 47 anni, è direttore della Banca del Ceresio (Lugano), specializzata da decenni nel selezionare gestori di hedge fund, e consigliere della sgr speculativa Global selection.
Dottor Foglia, quali sono le cause della crisi?
La principale è stata già indicata da vari osservatori: usciamo da un lungo periodo di abbondante liquidità, testimoniata da tassi reali bassi. Ma va sottolineato anche che in questo contesto si sono presentati sul mercato attori nuovi di estrema importanza, come i fondi sovrani e in generale chi nei Paesi emergenti ed esportatori di materie prime gestisce le riserve ufficiali, che stanno aumentando a ritmi senza precedenti. Questi attori hanno conteso ai tradizionali investitori istituzionali (fondi pensione, assicurazioni) i titoli a tripla A. Le emissioni di questo tipo di titoli non sono state sufficienti a soddisfare la domanda e Wall Street si è ingegnata a crearne di ulteriori con le cartolarizzazioni. Che resteranno un’innovazione valida per la diversificazione del rischio. Ma sono state portate all’eccesso.
In agosto non ha agito anche il fattore "ferie" che riduce lo spessore dei mercati?
Sì e in quel clima alcune notizie sono state amplificate. Emblematico è il caso dei fondi Bnp (la cui negativa performance è stata rilevata per primo dal Sole 24 Ore, ndr), che sono stati correttamente sospesi perché non era possibile fornirne la quotazione: la sproporzionata enfasi con cui il mercato ha accolto quell’annuncio ha fatto perdere 9 miliardi al valore di Bnp in Borsa e il contagio ha generato sospetti su molte altre banche costringendo la Bce a intervenire. Alla fine del mese quei fondi sono stati di nuovo quotati con un calo di appena il 5%, sopportabile per qualunque investitore. Perciò le poche informazioni disponibili e il modo in cui sono state annunciate e accolte hanno contribuito a un avvitamento del mercato forse ingiustificato. Come dimostra la crisi di fiducia tra banche che rimane tuttora.
A quanto ammontano allora le vere perdite?
 presto per fare un bilancio definitivo. Sicuramente i danni più evidenti sono nei prestiti ipotecari in Usa, con perdite che possono oscillare tra i 200 e i 500 miliardi di dollari nel peggiore dei casi. Tutto sommato entità gestibili a fronte della stazza dei mercati finanziari.
Chi ha vinto e chi ha perso in questa crisi?
Tra i perdenti ci sono quelli che in Usa sono chiamati «yield pigs» (ingordi di rendimento), cioè quanti a caccia di maggiori ritorni si sono avventurati, magari con un’alta leva finanziaria, in attività di cui non sapevano valutare appieno il rischio. Molti hedge fund, poi, erano lunghi di azioni e hanno subito perdite in agosto, senza riuscire a cogliere il rimbalzo di fine mese perché nel frattempo avevano ridotto le posizioni. Tra i vincitori ci sono altri hedge fund, gli unici operatori che erano diventati guardinghi nei confronti del credito subprime e che l’hanno venduto allo scoperto sia per coprirsi da posizioni lunghe su azioni (che invece erano e sono ragionevolmente valutate) sia per sfruttare le opportunità della crisi che avevano previsto osservando gli eccessi crescenti in quel mercato. Tra i vincitori diversi si stanno preparando a sfruttare le opportunità di prezzo che la crisi offre. Tuttavia occorrerà più tempo prima che si possano riconoscere occasioni nei segmenti meno trasparenti e più penalizzati del mercato del credito.
Molti in queste settimane hanno denunciato la scarsa trasparenza come catalizzatore della crisi.
Lo sviluppo maggiore negli ultimi anni è stato nei mercati over the counter, non regolamentati e opachi, dominati da una mezza dozzina di case di investimento che approfittano proprio dell’opacità. Le conseguenze si sono viste in agosto, quando gli investitori hanno voluto fuggire tutti i prodotti e gli intermediari meno trasparenti, sui quali di colpo è venuta a mancare la fiducia. Speriamo che questo secondo campanello di allarme, sempre che si limiti a restare tale, induca le autorità a occuparsi di questo settore, la cui fragilità era già emersa nella crisi Ltcm (l’hedge fund salvato dall’intervento della Fed, ndr) nel 1998.
Come dovranno agire le autorità monetarie?
Se gli effetti sull’economia reale rimangono contenuti, è auspicabile che limitino gli interventi e lascino che avvenga nei mercati finanziari una pulizia analoga a quella nelle imprese americane dopo gli scandali del 2002. Inoltre, le autorità hanno dato segnali, già prima della crisi, di aver preso coscienza della fragilità dell’attuale architettura del sistema finanziario internazionale. Ma le loro reazioni sono onde lunghe e i provvedimenti che giungono adesso in porto rischiano di essere controproducenti, come l’abbandono della concentrazione degli scambi azionari nelle Borse, previsto dalla direttiva Mifid appena approvata. Tale modifica non può che peggiorare in prospettiva la trasparenza dei prezzi e delle posizioni degli investitori e lo spessore degli scambi in mercati che andrebbero invece presi a modello.

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 7/9/2007
M.D.F.
FRANCOFORTE- Ha appena deciso, come i mercati chiedevano e si aspettavano, di congelare la situazione: i tassi di Eurolandia restano al 4%. Decisione presa all’unanimità. A questo punto Jean-Claude Trichet lo scandisce ben bene: "noi siamo in-di-pen-den-ti, perché il Trattato di Maastricht obbliga i governi europei a non cercare di influenzare la Banca centrale europea. Nessuno pensa che possiamo essere influenzati. E chi lo pensa è fuori dall’ articolo 108 - uno-zero-otto - del Trattato. E se non lo conosce dovrebbe leggerlo". Pochi minuti prima, da Parigi, Nicolas Sarkozy, il bersaglio degli strali del presidente della Bce, aveva esclamato: "A forza di parlare e di alimentare il dibattito, si fanno dei piccoli passi avanti".
E dunque, secondo il presidente francese, le pressioni esercitate nei giorni scorsi sui banchieri centrali di Francoforte contro un eventuale rialzo del costo del denaro hanno avuto il loro effetto.
Nulla di più sbagliato, risponderà a distanza Trichet: il Consiglio direttivo ha deciso di non toccare i tassi per le incertezze ancora insite nei mercati. Tuttavia la politica monetaria rimane orientata a un futuro rialzo dei tassi, perché sono aumentati i rischi di inflazione, che entro la fine dell’anno risalirà oltre il 2%. Per questo i banchieri centrali di Francoforte continueranno a "monitorare da vicino tutti gli sviluppi" e la politica monetaria "è ancora tendenzialmente accomodante". Parole-chiave, utilizzate da Trichet per indicare un futuro aumento del costo del denaro.
Mentre la crescita di Eurolandia per ora prosegue "sostenuta", anche se le nuove previsioni di crescita pubblicate ieri dalla Bce - una forchetta compresa fra il 2,2%-2,8% per il 2007, e fra l’1,8%-2,8% per il 2008 - sono state riviste leggermente in calo. Sulla crescita di Eurolandia pesano infatti dei "rischi al ribasso", a causa delle "incertezze" dettate dalle turbolenze sui mercati finanziari, che la Bce continuerà a "monitorare molto da vicino". Per questa ragione Trichet, anche se ha lasciato aperta la porta a futuri aumenti del costo del denaro, non ha fatto previsioni sul "quando" la Bce agirà. Ieri un altro intervento di 42 miliardi.
Nel frattempo, ieri, dopo gli annunci dell’Eurotower, l’euro è salito oltre quota 1,37 dollari, e le borse hanno chiuso in rialzo.

LA REPUBBLICA, VENERDì 7/9/2007
HUGO DIXON
HUGO DIXON
Spesso gli hedge fund sono accusati di vendere titoli "buoni" per ridurre il debito e ripianare le perdite causate da quelli "cattivi", ma nei volatili mesi estivi potrebbero esservi stati costretti dai fondi di fondi, che secondo recenti studi possiedono oltre il 60% dei 1.900 miliardi di patrimonio degli hedge fund. A quanto pare, a luglio gli investitori hanno prelevato dai fondi di fondi ben 55 miliardi di dollari dei 162 miliardi che vi avevano fatto affluire nel primo semestre, costringendoli a chiedere a loro volta rimborsi agli hedge fund i quali, generalmente ancora più indebitati, per ridurre il debito non hanno potuto fare altro che vendere titoli in massa. Le vendite di giugno probabilmente sono state innescate da una sequela di cattive notizie, per lo più legate alla crisi dei mutui subprime iniziata a maggio. Generalmente, per disinvestire dai fondi è richiesto un preavviso da 30 a 60 giorni ed è comprensibile che i fondi di fondi abbiano cercato di non rimanere incastrati nelle perdite degli hedge fund, ma può anche darsi che abbiano disinvestito anche da qualche hedge fund solido per ridurre al massimo il debito e accumulare liquidità in previsione di massicce richieste di rimborso da parte dei propri investitori. Tutto ciò solleva interrogativi sull´utilità dei fondi di fondi, che non sempre brillano per capacità di filtraggio degli hedge fund meno validi, come i loro investitori si aspetterebbero in cambio delle commissioni che pagano. Almeno un grande fondo di fondi aveva comprato quote sia di Amaranth che di Sowood, i due hedge fund recentemente naufragati sugli scogli degli investimenti in obbligazioni composte da mutui ipotecari subprime.
Richard Beales
[Spunta la proposta di un taglio ai tassi Usa]
Martin Feldstein, eminente economista nonché rivale di Ben Bernanke nella successione al comando della Federal Reserve, ritiene necessario tagliare di un punto percentuale il tasso base, a riprova del fatto che Feldstein sarebbe stato un fedele successore di Greenspan. Bernanke può fare di meglio. Non che l´analisi fatta da Feldstein sul danno che il calo dei prezzi delle case potrebbe arrecare alla crescita sia sbagliata, poiché è noto che quando i prezzi salgono i proprietari si sentono più ricchi e spendono di più, mentre quando i prezzi scendono la tendenza si inverte. A questa analisi va però contrapposto il fatto che la bolla dei prezzi doveva pur scoppiare e, fino ad ora, il danno non è stato eccessivo se si considera che il pil tendenziale nel secondo trimestre è stato del 4,0%, valore che sarebbe salito al 4,6% senza il calo degli immobili. I dati dell´ISM relativi ai prezzi indicano che la pressione inflazionistica perdura, ma Feldstein suggerisce di ignorare l´inflazione e di affrontare subito i rischi che incidono sulla crescita, in modo da scongiurare una possibile flessione. Quello che in pratica ha sempre fatto quel genio di Greenspan, soprattutto nell´autunno del 1998, quando con un taglio di 75 punti base trasformò un collasso creditizio simile a quello odierno nella bolla euforica del 1999. L´esperienza insegna che l´azione preventiva non sempre è segno di saggezza. Il forte taglio suggerito da Feldstein potrebbe rivelarsi disastroso, inflazionando di nuovo i mercati e creando pericoli ancora maggiori nel futuro. Dosando bene le sue risorse ora, Bernanke riuscirà ad evitare l´immeritato salvataggio di speculatori e a risparmiare munizioni per dopo, nel caso in cui l´economia Usa dovesse veramente arretrare bruscamente.
Ian Campbell
(Traduzioni a cura di MTC)

CORRIERE DELLA SERA, SABATO 8/9/2007
GIACOMO FERRARI
MILANO – Finora la crisi dei mutui subprime, pur dirompente, era rimasta circoscritta all’ambito finanziario. Da ieri coinvolge anche l’economia reale. L’allarme arriva dagli Usa, dove sono stati diffusi i dati statistici sull’occupazione in agosto: 4 mila posti di lavoro persi, mentre gli analisti si aspettavano una crescita di almeno 100 mila. la prima volta in quattro anni che si registra una riduzione degli occupati negli Stati Uniti. Una doccia fredda, del tutto inattesa, che ha immediatamente risvegliato il fantasma della recessione. Wall Street ha aperto in calo, è peggiorata nel corso della seduta e ha poi chiuso con il Dow Jones in flessione dell’1,87% e il Nasdaq dell’ 1,86%. In Europa il peggior risultato è stato quello di Parigi (-2,63%), mentre Francoforte ha ceduto il 2,43% e Milano (S&P-Mib) il 2,39%. Ha limitato i danni Londra (-1,93%). Complessivamente, intanto, la capitalizzazione delle piazze europee è diminuita di 193 miliardi di euro.
Le autorità monetarie sono in allarme. «L’economia europea rimane ragionevolmente forte – ha detto Jean-Claude Trichet, governatore della Banca Centrale Europea, al Tg1
’ e credo che continuerà a esserlo. però aumentata l’incertezza». Ma nonostante la cautela del numero uno della Bce, si è mosso il ministro dell’Economia italian o, Tommaso Padoa- Schioppa, che ha convocato per giovedì prossimo 13 settembre il Cicr (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio) allo scopo di discutere gli effetti della crisi. Riunione ad altissimo livello con la Banca d’Italia di Mario Draghi, la Consob di Lamberto Cardia e l’Isvap di Giancarlo Giannini.
D’altra parte sia Bankitalia sia Consob hanno già avviato un’indagine sugli effetti che la vicenda subprime potrebbe avere sul sistema finanziario italiano. E lo stesso Cardia ha scritto alcuni giorni fa sul Sole-24 ore
che «le prime indicazioni sembrano lasciar intendere che il fenomeno sia marginale».
Insomma, problema tutto americano? Non proprio. Anche se è nata negli Usa e qui è esplosa con violenza (ieri, tra l’altro, il dollaro è scivolato ai minimi dei ultimi 15 anni contro le principali valute), la crisi è globale. L’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, parlando a un convegno a Washington, ha sostenuto che l’evoluzione della situazione dei mercati finanziari delle ultime settimane è «identica» per molti aspetti a quella che si creò nel 1998, culminata poi nel default dell’hedge fund Ltcm, Long Term Capital Management.
Anche l’Europa, come ha previsto l’Ocse, dovrà fare i conti con un rallentamento della crescita economica. E i governi del Vecchio Continente si preparano a fronteggiare le prossime difficoltà. Lunedì il problema sarà al centro del vertice tra il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy in programma a Berlino.

CORRIERE DELLA SERA, 8/9/2007
GIANCARLO RADICE
CERNOBBIO (Como) – Quella innescata dai mutui subprime americani è una crisi finanziaria «molto seria». Che avrà un impatto, anche se relativo, sulla crescita economica globale già entro la fine di quest’anno. E che, se dovesse prolungarsi nel tempo (come molti credono), provocherà nel 2008 una gelata nei Paesi più industrializzati. Con l’America che rischia il crollo dei consumi e l’economia in recessione. E con Europa e Giappone che dovranno dire addio a una consistente fetta di aumento del prodotto interno lordo.
Non è uno scenario rassicurante quello delineato ieri a Villa d’Este, dove economisti, banchieri, imprenditori sono riuniti per il tradizionale workshop dello studio Ambrosetti. Tantopiù che i segnali di preoccupazione sono condivisi da personaggi più che autorevoli: da Rodrigo de Rato, managing director del Fondo monetario internazionale, a Kenneth Rogoff, ex capo economista dello stesso Fmi e adesso docente alla Harvard University, fino a Jim O’Neill, capo delle ricerche economiche di Goldman Sachs. Anche l’ex ministro italiano dell’Economia Giulio Tremonti parla di una «crisi con la C maiuscola ».
Il punto di partenza è il mistero assoluto in cui è ancora immersa non solo la galassia dei mutui subprime, di cui ne sono stati contratti per oltre mille miliardi di dollari solo nel 2005 e 2006, ma soprattutto i mille rivoli attraverso i quali sono stati diffusi, una volta cartolarizzati, in titoli di debito ad alto rischio e bassissima trasparenza. Rogoff valuta che il sistema bancario ne abbia distribuito per 1.300 miliardi di dollari. Nessuno sa quanti si tradurranno in un «buco» nei loro conti e di quelli delle società finanziarie collegate. «Non lo sanno nemmeno le stesse banche – ammette Alessandro Mitrovich, numero uno italiano di Royal Bank of Scotland ”. Se anche dovessimo sederci attorno a un tavolo per discuterne, non riusciremmo ad avere l’esatto quadro delle situazione». Rogoff parla di una «finestra di vulnerabilità» e si spinge fino ad azzardare una prima lista dei caduti sul fronte subprime: «Almeno una grande banca internazionale salterà» dice, senza riferimenti espliciti. Poi aggiunge che potrebbe fallire anche un’agenzia di rating come Moody’s: «Dopotutto, Moody’s fa il 45% dei suoi profitti proprio con le valutazioni di titoli ad alto rischio». Di certo, per ora, c’è la crescente difficoltà di credito. E il clima di totale sfiducia, sia all’interno dello stesso sistema bancario sia fra gli investitori sui mercati. «La mancanza di fiducia può far precipitare le cose» osserva Rogoff. Sia lui sia de Rato concedono invece che le banche centrali «stanno facendo il loro dovere». La Fed, però, «deve tagliare subito i tassi d’interesse – chiede O’Neill ”. E forse neanche questo basterà». Quel che più preme ai protagonisti della prima giornata del workshop di Cernobbio, è comunque di capire l’impatto che la crisi avrà sulle economie e, dunque, sulla vita delle persone. Lo scenario più cupo se lo ritrovano di fronte gli Usa, dove secondo il Financial Times oltre 2 milioni e mezzo di americani rischiano di perdere la casa nei prossimi 18 mesi perché non saranno in grado di pagare le rate del mutuo. I loro consumi si fermeranno, così come quelli di chiunque ha perso soldi in borsa o, comunque, si sente strangolato dai debiti. Recessione nel 2008? «Qualche mese fa avrei detto che le probabilità sono del 15% – ricorda Rogoff ”. Ora penso al 25-30%». Rodrigo de Rato, ovviamente, è più cauto: «Direi che il rischio è di un forte rallentamento – spiega ”. L’economia Usa è sì rallentata, ma cresce comunque attorno all’1,8%, le aziende continuano a svilupparsi e a fare utili, i redditi personali sono sostenuti dall’ alta occupazione». O’Neill sta più o meno a metà strada, e sposta il tiro verso lo scenario globale: «Dobbiamo ringraziare dio che esiste la Cina – sintetizza ”. Una vera recessione mondiale può accadere solo se succede qualche grosso guaio dalle parti di Pechino».
L’Asia emergente, insomma, potrà al massimo essere scalfita dagli effetti della crisi finanziaria (meno export, dovuto ai minori consumi occidentali). Niente di più. E anche per l’economia europea si prospetta un impatto inferiore rispetto a quello degli Usa. L’Italia? «Potrebbe esserci un lieve indebolimento della crescita – si limita a pronosticare de Rato ”. I veri problemi italiani sono altri: bisogna aumentare il potenziale di sviluppo, fare le riforme e migliorare i conti pubblici». Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo concorda, ma vede il problema anche da un’altra angolatura: «Una leggera frenata del pil può pesare come un macigno in un’economia che cresce solo dell’1,8%, meno degli altri paesi europei». Quanto a Tremonti, si concede una battuta sferzante: «Non ci voleva un mago per capire che l’economia italiana stava rallentando». E per lui, ovviamente, la promessa di tagliare la spesa pubblica fatta dal ministro Tommaso Padoa Schioppa appare poco credibile. «Il pesce è marcio dalla testa – taglia corto ”. Il governo cominci a ridurre il numero di sottosegretari e viceministri, poi ne riparleremo».

LA STAMPA, SABATO 7/9/2007
CARLO BASTASIN
Il cambio di sentimenti nei rapporti economici tra Europa e Stati Uniti è radicale: fino a due anni fa, lo spettro del rischio Argentina veniva agitato per descrivere la fragilità finanziaria italiana. Ieri a Cernobbio al Workshop di The European House-Ambrosetti il paragone ha riguardato l’economia americana. Ken Rogoff, uno dei più noti economisti mondiali ha escluso che la crisi dei mutui possa finire con un default americano in stile argentino, ma il suo «cauto ottimismo» ha un’incognita: «Può darsi - ha osservato ieri - che la crisi attuale sia solo la punta dell’iceberg». La probabilità di una recessione negli Stati Uniti si avvicina al 30%, è dunque raddoppiata nel corso di dodici mesi. Ma nessuno è in grado di dire come reagirebbe a una recessione un’economia e una società che è sempre cresciuta e a ritmi formidabili negli ultimi vent’anni.
La situazione sui mercati finanziari è peggiore del previsto osserva Jim O’Neill, chief economist di Goldman Sachs e i dati recenti sull’economia americana sembrano già risentirne. Lo stesso giudizio sulla crisi è arduo. Gli strumenti finanziari coinvolti non hanno un valore esplicito, andrebbero scomposti in singoli prodotti e commercializzati come tali, un’ipotesi non realistica. Ma una tale incertezza sugli effetti sui bilanci bancari ha prosciugato la fiducia e i mercati rischiano di fermarsi. Tutto ciò in una fase di debolezza strutturale dell’economia americana.
La crisi americana è evidente nei grafici sull’andamento della produttività del lavoro e il costo per unità di lavoro. Gli investimenti in impianti produttivi sono stati deboli in tutti gli anni Duemila e perfino gli investimenti «intangibili», che tanto avevano contribuito al miracolo degli anni Novanta, sono oggi più bassi che nel decennio passato. La riconversione agli obiettivi di tutela ambientale e climatica potrebbe inoltre imporre costi di riconversione che l’industria americana non sembra pronta ad affrontare in una fase di recessione. A ciò si aggiungono i rischi politici e geopolitici fin troppo evidenti. Il problema è come reagiranno le famiglie americane. Il calo dei prezzi delle case è un primo segnale di difficoltà. Se i consumi dovessero essere ridotti, verrebbe a mancare il principale motore di crescita dell’economia globale.
Sarebbe per altro un buon momento per una stagnazione americana che riequilibrasse la bilancia dei pagamenti grazie alla forza con cui stanno crescendo le altre economie. Ma il contributo inferiore è ancora quello dell’Europa. Saranno determinanti le scelte di politica monetaria. Secondo Rogoff, la Fed taglierà di mezzo punto entro dicembre e la Bce non toccherà più i tassi. O’Neill ritiene che il ruolo cruciale spetti alla Germania la cui capacità di crescita sta sorprendendo molti: «La sua capacità di creare occupazione è paragonabile a quella americana» e ci sono segni che l’alto impiego si trasmetta anche in consumi e quindi sostegno alla crescita globale. Forse molti paradigmi delle comparazioni tra Europa e America, con il loro contorno di implicazioni politiche, andranno rivisti.











IL FOGLIO, SABATO 8/9/2007
UGO BERTONE
Ben, dammi retta: devi inondare il mercato di liquidità. Tu non hai idea di quanto brutte siano le cose qui”. E’ Ferragosto. Jim Cramer parla e gesticola. Il suo appello risuona anche nelle stanze della Federal Reserve, la banca centrale più potente del pianeta, quella che intercetta anche i sospiri dei mercati finanziari, da Wall Street alle partite più complicate dei derivati: una gigantesca centrale d’ascolto che ha consentito per anni ad Alan Greenspan, the gambler, di giocare con le carte segnate le sue partite. E i suoi bluff. Ma alla Fed, non c’è più Greenspan ma Ben Bernanke, ”the gentle Ben”, uno che nella vita ha solo insegnato e studiato. Tocca a lui porre rimedio ai guasti della crisi dei ”subprime”, che si stanno rivelando, parola sua, ”peggiori delle previsioni più nere”. Greenspan, probabilmente, una frase del genere non l’avrebbe usata: per diciotto anni, tanto era durato il suo regno, era cresciuto il mito di una Fed quasi onnisciente, mai colta in contropiede. Oppure, ai tempi del collasso di un hedge fund, Ltcm, capace di intervenire nel giro di poche ore con un blitz più rapido di un’incursione dei soldati di Petraeus in Iraq. Altra stoffa, lasciava intendere Cramer, zazzera rossa e mimica alla Sgarbi, l’idolo americano del parco buoi, l’uomo che non ha paura di dare le dritte giuste alle centinaia di migliaia di americani che ogni giorno fanno una puntata sulle varie Borse Usa. Un suggeritore instancabile che, da mattina a notte, tiene trasmissioni in tv, anima il sito TheStreet.com, Bibbia della piccola speculazione, tiene rubriche per la carta stampata e parla alla radio. Una vera macchina da guerra cui anche i nemici riconoscono una qualità: il feeling con il mercato, ovvero la capacità di sentire le sue paure e le sue emozioni. Quello che, in 23 anni passati a studiare tra Stanford e Princeton, forse il ”gentle Ben”, così preparato e con un quoziente di intelligenza da far paura, non ha imparato. Eppure, il suo è il curriculum di un buono che ha dedicato una vita allo studio della crisi del ”29 per imparare ad evitare gli errori di allora. ”Se vuoi capire la geologia, devi studiare i terremoti – spiega – Ma se vuoi capire l’economia, devi scoprire tutti i segreti che hanno portato alla peggior calamità del secolo”. Capire, però, è arte che mal si concilia con i tempi e l’adrenalina della tv . E Ben il dolce, così educato, l’ha già scoperto a sue spese concedendosi un anno fa ad un’intervista ”a braccio” a Maria Bartiromo, la superstar di Cnbc dagli occhi di fuoco. Un commento equivoco sui tassi e sui mercati scoppiò il finimondo: l’arte sublime di non dire nulla parlando molto, in cui Greenspan era davvero maestro, non s’improvvisa.
Intanto, sull’altra riva dell’Oceano, Jean-Claude Trichet, il presidente della Bce, si è divertito a far ”l’americano”. Sì, stavolta il banchiere dell’euro, cui di sicuro non fa difetto l’esperienza, si è mosso prima e con più energia dei cugini della Fed iniettando centinaia di miliardi di euro sul mercato per dissetar banche a secco, che non riuscivano più a far fronte agli impegni di titoli, fondi e marchingegni finanziari dalle sigle esoteriche (cdo, mutui Ninja, conduit, siv e mille altri nomi ancora) fino a poche settimane prima di gran moda. Ma quella di Trichet e dei suoi colleghi resta comunque una sovranità limitata. Una banca centrale, ammoniva sir Bagehot, mito della Bank of England, deve anche saper bastonare chi ha sbagliato distribuendo il denaro a ”tassi punitivi”. Ma questo potere, in pratica, Trichet non ce l’ha: i tedeschi hanno lavato i panni sporchi in famiglia, rimediando ai guasti di due piccole banche, Ikb e Sachsen Lb, con operazioni di salvataggio domestiche; la Francia ha protetto il colosso Bnp, nonostante la pessima figura rimediata sospendendo i rimborsi di tre fondi di liquidità (che dovrebbero essere sempre liquidabili a vista, per definizione) senza incorrere in sanzioni. Anzi. Da Parigi è pure arrivata una qualche lezione a monsieur Trichet, troppo blando nell’impegnarsi a sostegno della banca in difficoltà: Nicolas Sarkozy ha subito chiesto un G8 straordinario, per ribadire il primato della politica su quello degli gnomi della finanza. E il banchiere dei banchieri ha dovuto abbozzare per non alzare ancor di più la temperatura di un’estate caldo. O di un autunno che si annuncia rovente.
Anche Ben, come Jean-Claude, per tutto agosto ha fatto il pompiere cercando di spegnere gli incendi della finanza mondiale, gettando acqua sul fuoco che fiammeggiava anche dove non sarebbe dovuto esserci mai. Ma per le decisioni sui tassi americani si dovrà attendere il 18 settembre. Perché tanto tempo? Perché Bernanke è convinto che sarebbe un errore, forse il peggiore di tutti sarebbe quello di forzare la mano ai colleghi della Federal Reserve giocando sulle divisioni tra le ”colombe”, i governatori più vicini alla Borsa, che la pensano come Cramer e i presidenti delle Reserve regionali (votano 5 su 12 a turno) che temono che l’economia reale possa affogare in un’alluvione di liquidità, che minaccia di trascinare con sé la frana del dollaro e la ripresa dell’inflazione. Greenspan poteva permettersi (e l’ha fatto più di una volta) di mettere i colleghi di fronte al fatto compiuto o quasi, grazie al carisma del Maestro, vuole e deve volere il consenso degli altri sedici membri della Federal Reserve, o almeno dei nove colleghi che voteranno con lui. Per questo, a leggere i resoconti della riunione del 7 agosto, le famose ”minute” che vengono rese pubbliche un paio di settimane dopo il vertice dei banchieri, emerge un dilemma spinoso: è più importante evitare il crack degli speculatori più imprudenti, che può far preciptare l’intero sistema; oppure, per evitare danni peggiori, bisogna lasciar andare alla deriva i colpevoli? Un bel quesito, che richiede una risposta problematica.
Ai mercati, però, non piace Amleto. Peggio ancora se i principi di Danimarca sono addirittura due. Ben e Jean-Claude, invocando le City del pianeta, devono lanciare segnali precisi ”perché nel giro di sei-sette settimane – dice il presidente di Barclays Capital, Hans Joerg Rudloff – si capirà se il mondo è in grado di riprendersi dall’attacco al cuore di agosto”. E non è solo, o soprattutto, questione di tassi. Qui, salvo sorprese, il copione è già scritto. E’ quasi scontato che il 18 settembre la Fed operi un primo taglio. Molto probabile che questo non basti ma che ci voglia una seconda operazione. Intanto, la Bce ha rinunciato al rialzo del costo del denaro, già preannunciato ad inizio agosto. E non se ne parlerà per tutto il 2007. Ma, come precisava J. Pierpoint Morgan ”nella finanza la fiducia conta più del denaro”. E non è uno slogan: in questi giorni, sta accadendo quelloche i mercati temono di più. I tassi di mercato, soprattutto il londinese Libor su cui si basa larga parte dell’attività bancaria del pianeta, è salito assai al di sopra dei titoli di stato degli Stati Uniti che, in condizioni normali, si muovono su valori assai simili. In parole povere, questo è il segnale che le banche non si fidano a prestare soldi ad altre banche o, peggio ad altri operatori, a partire dagli hedge. Il che, in cifre, si è tradotto in un brusco calo dell’attività: da 500 a 100 milioni di dollari scambiati al giorno sul mercato interdealer della City. Se si va avanti così, dicono i banchieri, si rischia un contagio alla giapponese: la Banca del Giappone inietta denaro sul mercato, ma nessuno lo spende per sfiducia nel futuro. Una trappola della liquidità che ha fatto precipitare Tokyo in una depressione che dura dal ”91. Un meccanismo infernale innescato dalla ”comprensione” di politici e banchieri che non intervennero per punire le aziende, le banche e gli operatori di Borsa che avevano provocato la bolla del mattone. Guai a non assimilare la lezione.
Difficile mettersi nei panni, scomodissimi, di quei due. Il dilemma è infernale: ad allentare i cordoni della Borsa si rischia di innescare nuove bolle, l’inflazione, il crollo del dollaro e le reazioni della Cina; a stringere troppo, si corre il pericolo di vedere crollare, carta dopo carta, il castello di banche, private ed hedge fund con effetti devastanti. E tutto questo grava, in pratica, sulle spalle di due soli uomini. Bernanke il semplice, innanzitutto: classe 1953, da Augusta, Georgia. Figlio di un farmacista e di un’insegnante, due figli (Alyssa e Joel), una moglie, Anna, che insegna spagnolo e gli hobby tipici di una sit-com del pomeriggio: il basket nel prato di casa, il tifo per i Washington Nationals. Da quando portava i calzoni corti vive il ”29 come un’ossessione e una passione. ”Da bambino ho passato ore ed ore – ricorda – a sentire i racconti di mia nonna, Marcia Friedman, a Charlotte in North Carolina. Lei mi narrava della sua vita a Norwich Connecticut, quando solo lei poteva concedersi il lusso di comprare le scarpe ai suoi figli. I vicini, licenziati dalle aziende di calzature della città, non potevano permetterselo. Quel mistero, come mai una città piena di fabbriche di scarpe lasciava i suoi figli a piedi scalzi mi assillava”. Come spiegarlo? John Kenneth Galbraith puntava l’indice sull’eccesso di investimenti, la miopia dei capitalisti e la mancanza di regole per le corporations. Ma la folgorazione per il giovane Ben venne da un altro Friedman, omonimo della nonna. ”Professore, il suo libro mi ha cambiato la vita – ha detto Bernanke nel 2002 proprio davanti al mitico Milton nel giorno del suo novantesimo compleanno – Lei, maestro, aveva ragione: la Fed nel ”29, fece errori decisivi, prima provocando la recessione poi facendo precipitare la crisi con una stretta feroce. Ora, grazie a lei, questi sbagli non li ripeteremo più”. Di sicuro non li vuol ripetere lui, giunto ad un passo dal Nobel per aver studiato e individuato i meccanismi del ”financial accelerator”, ovvero del modo in cui le Borse trasmettono il contagio della crisi all’economia se non si interviene a tempo e nel modo giusto.
Meno facile, invece, capire le inclinazioni di Trichet il sofisticato: lionese, figlio di un insegnante di letteratura, all’apparenza freddo ma capace di imprevedibili coup de theatre, come quando, nel più assoluto riserbo, radunò 500 invitati, Giuliano Amato e Mario Monti compresi, nei saloni della Banca di Francoforte per festeggiare Tommaso Padoa-Schioppa che se ne andava. E Tps, cosa che gli capita di rado, si commosse quasi alle lacrime. Jean-Claude, un curriculum impeccabile, una grossa macchia. La sua prima scuola fu l’Ecole des Mines, ma la vita in fabbrica non faceva per lui. E allora, passando da una Borsa di studio all’altra, eccolo all’Institut d’Etudes Politiques, poi all’Ecole Nationale d’Admistration. Ma qui Trichet il giovane guadagna il soprannome di Justix per le sue simpatie per la sinistra radicale. ”Roba passata – ha commentato – Presto lasciai perdere e cercai di capire come far funzionare al meglio l’economia di mercato”. Una carriera quasi perfetta, la sua, ai tempi di Mitterrand e di Pierre Beregovoy. Ma è inciampato nel Crédit Lyonnais, l’Ambrosiano di Francia. L’accusa per l’allora direttore generale del Tesoro, fu di aver taciuto il ”buco” che si andava accumulando nella banca guidata da Jean-Yves Haberer, la punta di diamante della grandeur finanziaria parigina, protetto dalla nomenklatura del presidente. Rinviato a giudizio, è stato assolto. Ed è partito alla volta di Francoforte portando con sé l’addetta stampa che lo segue dai tempi della direzione generale del Tesoro, un quadro astratto di Emile Lahner, ungherese dal passaporto francese e la fama di ”falco”, capace di imporre alla politica una difesa ferrea del rapporto fisso tra franco e marco, prima pietra dell’euro.
Ben la colomba, Trichet il soldatino obbediente, attento ai richiami di Parigi ma anche a non offendere i rigori della Bundesbank. Il copione sembrava già scritto. E i mercati, che non amano le sorprese, approvavano. Poi, vennero le sorprese. Una volta insediato alla guida della Fed, Ben la colomba ha smentito quel che le Borse si aspettavano. Bernanke, che nel 2002, appena arrivato alla Fed come assistente di Greenspan, aveva suggerito di ”mettere i soldi nelle tasche della gente, purché serva a rimettere in moto i consumi”, nel 2007 ha tenuto duro per mesi sul costo del denaro, resistendo alle pressioni di chi chiedeva tagli energici e tempestivi. Non solo. Ancora poche settimane fa, quando i subprime cadevano come birilli e mezza America veniva investita dai foreclosures, cioè la resa delle famiglie di fronte a mutui divenuti insostenibili, lui minimizzava il rischio dello scoppio della bolla. Altro che governatore dal denaro facile. All’improvviso Ben il gentile sembra voler dimostrare di avere il cuore di pietra, capace di rivoltare la politica corsara di Greenspan che ha sì sostenuto la finanza ma a prezzo di una voragine nei conti della bilancia commerciale e di quella dei pagamenti, sostenuta solo dai quattrini degli emergenti, Cina in testa. Un gioco rischioso che rischia di trasformarsi in una sorta di roulette russa per il povero Ben, lo storico del ”29 che balla sull’orlo della recessione. Ma, di riflesso, pure per Jean-Claude che sa che una crisi del dollaro o uno scontro finanziario o commerciale con Pechino può mettere in ginocchio la ripresa europea. Il mondo si aspetta che i due abbiano, per dirla con un linguaggio da stadio (e da caserma), i cosiddetti attributi. Presto lo si saprà perché, come dice il re delle Borse, Warren Buffett, ”c’è un solo modo per capire come è fatto un corpo che nuota, nudo, nell’Oceano: aspettare che l’onda si abbassi”. L’onda, o i tassi.

CORRIERE DELLA SERA, DOMENICA 9/9/2007
«...il Financial Times nota che a Londra Barclays e Royal Bank of Scotland hanno ancora prestiti pendenti su operazioni per un totale di 20 miliardi di dollari che devono essere ricollocati, mentre Citigroup a New York ha lo stesso problema per 12 miliardi...» (alla vigilia dell’incontro Merkel-Bernanke, Federico Fubini).

LA REPUBBLICA, DOMENICA 9/9/2007
EUGENIO SCALFARI
Purtroppo bisogna di nuovo tornare sul tema della crisi immobiliare-finanziaria che non si è affatto spenta come alcuni ottimisti ritenevano e come tutti speravamo al di là e al di qua dell´Atlantico. Non si è spenta per varie ragioni e sta tracimando sulla cosiddetta economia reale. In realtà la globalizzazione finanziaria ha cancellato questa distinzione scolastica; tra la finanza e la domanda-offerta di beni e servizi non esiste più alcuna effettiva barriera e chi si ostina a pensare come se quella barriera esistesse sbaglia sia la diagnosi sia la terapia.
Fin dall´inizio, ai primi d´agosto, a noi sembrò chiaro che il terremoto che aveva come epicentro la bolla immobiliare americana avrebbe rapidamente coinvolto non solo alcuni fondi «aggressivi» e alcune istituzioni impegnate nel settore dei mutui ipotecari, ma anche le aspettative di investimento nell´edilizia e nel vastissimo reticolo di aziende che lavorano nell´indotto edile.
Le aspettative negative avrebbero avuto ripercussioni sulla domanda di investimenti e quindi sull´occupazione. Le Borse avrebbero registrato questi fenomeni attraverso strappi al ribasso sempre più forti in tutte le voci del listino.
Tutto ciò è regolarmente avvenuto. Ma si sperava – irragionevolmente – che il calo di domanda per investimenti non mettesse in discussione la domanda di consumi. E poiché i consumi nelle società opulente rappresentano una quota molto più consistente degli investimenti, l´irragionevole fiducia nella loro tenuta alimentava un moderato ottimismo.
Ancora una volta, cioè, ci si aggrappava ad una distinzione puramente scolastica, inesistente nella realtà. La domanda di consumi era già falcidiata dallo sgonfiamento disordinato della domanda di case e di beni e servizi connessi con il mercato edilizio e dalle insolvenze di molti fondi. A questo primo taglio della domanda si è aggiunto quello proveniente dai ribassi delle Borse (particolarmente importante nei paesi dove l´investimento del risparmio in valori mobiliari rappresenta un fenomeno di massa). nfine i primi licenziamenti e le mancate nuove assunzioni nel mercato del lavoro, che hanno accentuato le aspettative negative di ulteriori tagli nella formazione del reddito e quindi un crescente trend a monetizzare il risparmio.
Tutti questi fenomeni strettamente connessi tra loro hanno rotto le briglie con sorprendente rapidità, specie nei paesi dove la flessibilità del lavoro è pressoché totale. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: languono gli investimenti edilizi, i consumi indietreggiano, la liquidità sul mercato è in diminuzione, aumentano le insolvenze, le banche non si fidano delle altre banche, i tassi overnight (a brevissimo termine) sono rincarati di almeno 40 punti-base, i prestiti interbancari a tre mesi di 70 punti base.
Le Banche centrali in Usa e in Europa hanno per fortuna seguito una linea comune iniettando liquidità con ampie operazioni. Ampie, ma con velocissimi rientri. Molti osservatori ed esperti (?) continuano a commettere l´errore di sommare le varie immissioni di liquidità arrivando a totali di centinaia di miliardi di dollari e di euro. Totali inesistenti quando si parla di prestiti tra Banche centrali e banche ordinarie della durata di 24-48 ore, salvo quelli trimestrali che hanno infatti tassi molto più alti e rappresentano una massa assai minore delle operazioni complessive.
L´immissione di liquidità, indispensabile per costruire attorno ai sistemi bancari internazionali una rete di relativa sicurezza, ha tuttavia scarsi effetti su una crisi che si protrae coinvolgendo i cosiddetti "fondamentali". Scarsi effetti poiché le aspettative negative degli operatori e dei risparmiatori si stanno orientando verso la monetizzazione. Vengono cioè chiuse le posizioni rischiose e vengono aperte posizioni in impieghi liquidi. Un tempo si mettevano i risparmi "sotto il materasso"; oggi si collocano in fondi "monetari", in titoli pubblici, in obbligazioni di massima garanzia e di tipo assicurativo, di immediata negoziabilità.
Movimenti di questa natura hanno l´effetto di far sparire il capitale di rischio dal mercato facendo dimagrire fortemente i flussi di finanziamento alle imprese. Non è la liquidità che manca, ma gira su se stessa senza sbocco come una trottola impazzita. Gira da un fondo all´altro, da una banca all´altra, dalle Banche centrali agli istituti di credito ordinari, appunto come una trottola che si avvita su se stessa. Nessun imprenditore oggi sarebbe in grado di lanciare tra il pubblico un aumento di capitale della sua impresa o un´Opa. Le fusioni tra imprese restano possibili solo attraverso scambio reciproco di titoli. I take over sono diventati rari. Quanto al "nanismo" delle aziende – fenomeno particolarmente diffuso in Italia – tentare di spingerlo verso dimensioni aziendali più ampie e ottimali è diventata nelle attuali condizioni del mercato e delle aspettative un´impresa impossibile.
Questo, dopo un mese e mezzo dall´inizio della crisi, è lo stato dei fatti. Scrivemmo ai primi d´agosto che il solo paragone possibile era con la crisi del ´29. Gli esperti (?) dissero di no, che il paragone era sbagliato. Ma sono loro che continuano a sbagliare. La crisi del ´29 – che trasse origine anch´essa dallo sgonfiarsi improvviso d´una bolla immobiliare e borsistica – creò un blocco degli investimenti, un´insolvenza diffusa, il crollo dell´occupazione, del reddito e dei consumi.
Naturalmente in situazioni diverse: c´era guerra tra le Banche centrali, guerra tra le monete, erraticità dei cambi. Oggi siamo meglio attrezzati da questo punto di vista ma la natura del sisma è assolutamente identica. Se poi si decide di non nominare il ´29 per non spaventare la gente, è un altro discorso; e se si decide questo tipo di autocensura per non risvegliare il ricordo dei rimedi proposti allora da Keynes e praticati da Roosevelt, è un altro discorso ancora. Discorsi ipocriti che producono solo chiacchiere senza formulare alcuna valida diagnosi e terapia.
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Il tema della crisi immobiliare-finanziaria ci riporta a questo punto in patria per esaminare la congruità della manovra di politica economica che il nostro governo sta elaborando, delle varianti sostenute dalla sinistra radicale, dell´opposizione a tutto campo preannunciata dal centrodestra e dalla martellante campagna di Montezemolo sull´abbattimento delle imposte che gravano sull´industria italiana.
Sembrerebbe che vi siano dissensi anche in campo riformista. Si dice che la manovra ammonterà a 14 miliardi a costo zero: ogni spesa in più dovrà essere finanziata con risorse proveniente da tagli di altri spese. La pressione fiscale non dovrà aumentare, quindi niente inasprimenti e niente nuove tasse. Le maggiori entrate già in cassa o in corso di entrarvi serviranno a finanziare provvedimenti già decisi come il bonus di 300 euro a 3 milioni di pensionati che stanno sotto ai 500 euro al mese e l´accordo con i pubblici dipendenti per quanto riguarda il contratto firmato in luglio e scaduto nel 2006. Ma ci sarà anche un ribasso dell´Ici con modalità allo studio. A ciò si aggiunga il taglio di 3 punti di cuneo fiscale per complessivi 4 miliardi e mezzo, già operativo, il cui finanziamento fa parte della legge finanziaria 2007.
Questi provvedimenti, pur apprezzabili e apprezzati dalla sinistra radicale da un lato e da Montezemolo dall´altro, sono giudicati insufficienti. La sinistra radicale vorrebbe emendare l´accordo sulle pensioni, propone altri sgravi sui redditi bassi e sui salari dei lavoratori dipendenti. La Confindustria chiede un taglio drastico di almeno 5 punti sulle imposte che gravano sull´industria, pronta a scambiarlo con l´abolizione degli incentivi alle imprese tuttora vigenti.
L´opposizione dice di no a tutto senza finora proporre nulla. Ma Tremonti sta studiando...

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Padoa-Schioppa vuole trasferire una parte della spesa improduttiva agli investimenti più carenti: infrastrutture, scuola, ricerca, sanità, sicurezza. Ha preparato un "libro verde" che segnala una serie di vistose distorsioni. Vuole cominciare a dare qualche concreta prova di questo risanamento qualitativo mai sperimentato da alcuno negli ultimi vent´anni. invece contrario a riduzioni immediate di imposte. Lo scambio proposto da Montezemolo non si effettuerebbe a costo zero perché l´abolizione degli incentivi coprirebbe a stento un terzo della somma necessaria per ridurre di 5 punti le imposte sulle imprese. Veltroni dal canto suo vorrebbe uno sforzo in più, ma Padoa-Schioppa non vede da dove prendere i soldi necessari. Se verranno fuori qualche cosa si farà, altrimenti si rinvierà ai prossimi esercizi. Prodi ci spera ma non abbandona il suo ministro del Tesoro.
In proposito ecco quattro riflessioni su questi controversi temi:
1. Bisognerebbe sempre premettere, quando si fanno confronti con altri Paesi, che il nostro bilancio è gravato da un debito pubblico che pesa per 70 miliardi all´anno. Non c´è Paese al mondo con un debito e un onere di queste proporzioni. Sinistra radicale e Confindustria si dimenticano sempre questo non piccolo dettaglio. Un debito che fu fatto durante il decennio degli anni Ottanta dalla Dc con l´attivo concorso di socialisti, comunisti e partiti laici minori.
2. Le imprese hanno ottenuto un taglio di 3 punti dell´Irap, già in corso di realizzazione, per un complessivo ammontare di 4 miliardi e mezzo. In Germania la Merkel ha fatto molto di più ma il debito pubblico tedesco è meno della metà del nostro.
3. La sinistra radicale sorvola sia sul debito sia sull´aumento delle pensioni minime per 3 milioni di pensionati sia sull´abolizione dello scalone sui pensionandi con un costo di 10 miliardi per il bilancio dello Stato. (Rossanda vuole sapere se il bilancio delle gestione contributiva dell´Inps sia in pareggio. Lo è, ma va in largo passivo con le uscite di tipo assistenziale. Se quelle uscite vengono tolte all´Inps bisognerebbe pagarle con altre tasse o abolire i servizi. Rossanda ha suggerimenti in materia?).
4. Padoa-Schioppa ha stabilito che il rapporto deficit/Pil vada mantenuto al 2.2 per cento nel 2008 come da impegni assunti a Bruxelles dal governo Berlusconi e confermati da quello attuale. Il proposito del ministro del Tesoro è encomiabile ma quando quell´impegno fu preso la crisi finanziaria mondiale non era scoppiata e le previsioni sul Pil erano migliori di quelle di oggi. Se i governi debbono sostenere la domanda globale con un´azione che compenserà gli effetti recessivi della crisi, credo che il rapporto deficit/Pil potrebbe essere portato fino al 2.5 senza danno e anzi con vantaggio. Del resto anche la Bce s´era impegnata ad innalzare i tassi di interesse a settembre ma ha cambiato politica, quindi potrebbe cambiarla su un punto abbastanza marginale anche il governo italiano.
La conseguenza sarebbe un aumento del fabbisogno che si potrebbe però compensare con tagli di spese maggiori del previsto e/o con alienazioni di patrimonio pubblico prefinanziate dal sistema bancario. In totale si tratta di uno scostamento di 5 miliardi di euro, che non è la fine del mondo.
Nell´eventualità che quest´ipotesi sia percorsa e percorribile si pone il problema di come usare quella cifra. Forse in parte per ridurre ancora Irap e Ires. Un´altra parte per sostenere i redditi degli incapienti, dei giovani e delle famiglie.
Vorrei anche far notare che negli undici anni dal ”95 al 2006 le imposte riscosse dal fisco sono aumentate del 12 per cento in termini reali; nello stesso periodo il Pil è aumentato del 20 per cento e le imposte riscosse dagli enti locali sono aumentate del 111 per cento. E´ vero che alcuni trasferimenti dal centro alla periferia sono stati ridotti o cancellati, ma non in quelle dimensioni. Non è questione da poco quella di tirare la briglia alla finanza locale. Una buona parte della pressione fiscale e del debito pubblico viene proprio da lì.

Post Scriptum. Molti emeriti collaboratori del Corriere della Sera si susseguono a recensire il libretto di fresca pubblicazione scritto da altri collaboratori di quel giornale (nel caso specifico Giavazzi e Alesina) con il titolo Il liberismo è di sinistra. Pare, stando ai recensori, che sarà il libro più importante di questa stagione editoriale con robusti effetti anche sul dibattito politico e sulle decisioni del governo.
Avendolo letto anch´io per ragioni d´ufficio, non vi ho trovato granché da discutere. Mi è sembrato un tessuto di domandine retoriche che, per come sono formulate, contengono già le risposte. di destra o di sinistra liberalizzare i mercati? di destra o di sinistra favorire i figli anziché i padri e i nonni? di destra o di sinistra assicurare la legalità? Far funzionare meglio e con minori costi la sanità, la giustizia, le infrastrutture?
Siamo ai dibattiti che satiricamente si tenevano nel salotto di Arbore nella trasmissione Quelli della notte. Ebbene non è né di destra né di sinistra risolvere questi problemi che rappresentano le condizioni per un funzionamento normale della società. In Italia vige un sistema corporativo. Da quando? Da sempre. Perché? A questo bisognerebbe rispondere. Noi ci abbiamo provato più volte.
Il libro di Alesina-Giavazzi considera il mercato come uno strumento al quale bisognerebbe rimettere la soluzione dei problemi. Ma i due economisti non ignorano – visto che insegnano una disciplina che si chiama Economia Politica – che il mercato fornisce risposte in presenza di una data distribuzione della ricchezza. Se quella distribuzione fosse diversa anche le risposte del mercato lo sarebbero.
Luigi Einaudi ipotizzò teoricamente una società nella quale gran parte della ricchezza accumulata e trasmessa per eredità fosse redistribuita ad ogni generazione. Tutta la struttura dei prezzi e l´allocazione delle risorse ne sarebbe risultata rivoluzionata. Quindi ragionare sul mercato e affidarsi ad esso come fosse uno strumento neutrale è un´assoluta sciocchezza.
Infine gli autori del libro si domandano perché i governi non operino per favorire i consumatori anziché le lobby che rappresentano i produttori. C´è ovviamente del vero in quella domanda, ma non va ignorato che non esiste un consumatore allo stato puro che non sia allo stesso tempo anche un produttore; con una mano consuma e con l´altra lavora per procurarsi il reddito destinato a farlo vivere. Sicché i provvedimenti che favoriscono alcuni consumi sono accolti con favore dagli utenti o consumatori di quei beni e di quei servizi, ma non da chi li offre sul mercato. Tutti gli altri poi sono indifferenti.
Micro esempio: le licenze dei tassisti e le tariffe dei taxi. Gli utenti dei taxi sono lieti di provvedimenti che liberalizzano quel mercato. I tassisti invece sono furibondi. Le persone che dispongono di automobile e autista se ne infischiano. La massa dei poco abbienti va a piedi o con i mezzi pubblici e anch´essa se ne infischia. Così più o meno avviene in tutti i settori e questa è la vera ragione per cui non esiste un partito dei consumatori in nessun Paese dell´Occidente.
Può dispiacere. A me personalmente dispiace. Ma con i dati di fatto è inutile polemizzare. Per dire che il liberismo ha pochi fautori perché parte da premesse del tutto irreali.
Quanto al liberalismo, quella è un´altra cosa.

LA REPUBBLICA, DOMENICA 9/9/2007
GIUSEPPE TURANI
Può la crisi americana diventare ancora più grave di quello che si può vedere oggi? Può, in poche parole, trasformarsi in una brutta recessione? C´è chi sostiene di sì. Sulla base di una specie di teorema molto semplice. Il consumatore americano (che è al centro del lunghissimo boom dell´economia Usa in questi ultimi anni) al momento si trova in parecchie difficoltà a causa della crisi del mercato immobiliare (con prezzi in forte discesa) e del conseguente terremoto dei prestiti subprime (non rimborsati per mancanza di soldi).
Questa crisi, ovviamente, pesa anche sulla congiuntura perché il consumatore ha meno reddito da spendere (e quindi può dare meno impulso ai consumi), e in più è anche un po´ spaventato. Era abituato a un mondo nel quale la sua villetta con giardino valeva sempre di più e gli consentiva di avere ogni sei mesi nuovi finanziamenti dalla banca (magari anche solo per cambiare macchina o televisore). Adesso si ritrova in un mondo nel quale il valore della sua villetta va indietro e la banca gli chiede di restituire parte dei finanziamenti avuti. Deve, nella migliore delle ipotesi, adattarsi a ridurre la qualità della sua vita. E quindi non è di sicuro un consumatore ottimista e allegro, pronto a saccheggiare ogni sabato il vicino supermercato.
Adesso succede anche che il "sistema americano", che fin qui creava ogni mese 100 o 200 mila nuovi posti di lavoro, in agosto ne ha invece distrutti 4 mila (e all´appello mancano ancora i 40-50 mila del settore finanziario sterminati dalla crisi dei prestiti subprime). Insomma, i posti di lavoro, invece di aumentare, diminuiscono. E quindi il consumatore americano deve cominciare a temere non solo la sua banca (che gli chiede indietro i soldi perché i prestiti non sono più garantiti dal valore della villetta), ma anche il datore di lavoro, che potrebbe lasciarlo a casa. In termini più generali è poi evidente che in agosto, in America, ci sono meno stipendi di quelli che c´erano in luglio. E questo riduce le possibilità di spesa della collettività dei consumatori.
Tutto questo impasto può avvitarsi - dicono alcuni - in una crisi di tipo recessivo. Magari non lunghissima, ma abbastanza pesante. Stanno proprio così le cose?
Per il momento nessuno ha la risposta, anche perché nessuno riesce a capire quanto è vasta e profonda la crisi dei prestiti subprime. Di sicuro c´è solo che i vari centri studi "privati" (delle grandi banche d´affari) a questo punto hanno deciso di tagliare le stime sulla crescita americana. Se ancora sei mesi fa si riteneva che nel 2007 questa crescita avrebbe potuto essere quasi del 3 per cento, adesso prudentemente si parla del 2 per cento o di poco più. E un punto percentuale in meno (se applicato alla più grande e più dinamica economia del mondo) è una cosa grossa. Ecco perché, da almeno due o tre giorni, tutti i centri internazionali di previsione "ufficiali" vanno spiegando che le stime sulla crescita 2007 di tutte le economie (dall´Europa all´Asia) devono essere riviste al ribasso.
Tutto questo, va detto, non sconta ancora l´ipotesi di una recessione americana, ma solo quella di un semplice rallentamento, sia pure importante. Nel caso di recessione secca l´impatto sull´economia mondiale sarebbe molto più netto e molto più forte. E la recessione negli Stati Uniti - secondo alcuni - a questo punto sarebbe quasi inevitabile, sarebbe già nei fatti.
Naturalmente, ci sono anche quelli che invitano a non drammatizzare più del necessario. Il rallentamento dell´economia americana ci sarà, ma la Federal Reserve (ormai abbastanza spaventata dall´ipotesi di trovarsi alle prese con una frenata secca dell´economia affidata alle sue cure) taglierà di sicuro il costo del denaro. Già il 18 settembre, cioè fra dieci giorni. C´è chi dice che taglierà solo di 25 basis point e chi sostiene che invece, proprio per dare una sferzata di energia a tutto il sistema, arriverà fino a 50 basis point. Anche i più moderati, comunque, sostengono che, se adesso il presidente Ben Bernanke dovesse scegliere l´ipotesi più cauta, fra qualche mese taglierà altri 25 basis point. Insomma, il costo del denaro negli Stati Uniti dovrebbe scendere dello 0,50 per cento prima della fine dell´anno. O in un colpo solo il 18 settembre o in due rate. E questo, continuano gli ottimisti, dovrebbe rincuorare tanto l´economia reale (le aziende) quanto la finanza. Inoltre, la crisi dei prestiti subprime verrà assorbita dalle banche che si accolleranno le perdite di questa avventura (attraverso uso delle riserve, aumenti di capitale e emissione di prestiti obbligazionari). Le banche, insomma, perderanno un po´ di soldi, ma ne hanno guadagnati talmente tanti in questi anni che certo non piangeranno.
Possono avere ragione gli ottimisti? La crisi di oggi può ancora essere gestita senza troppi danni? Forse sì, ma certamente a due condizioni. La prima è che nessuno faccia errori. La seconda è che il disastro dei prestiti subprime (di cui nessuno conosce l´entità esatta) sia di dimensioni sopportabili. Bisogna insomma che non ci siano troppi scheletri negli armadi delle banche.

LA STAMPA, LUNEDì 10/9/2007
MARIO DEAGLIO
Oggi riaprono le Borse, dopo un’altra settimana finanziaria angosciosa, con continui saliscendi nelle quotazioni delle Borse di tutto il mondo, patrimoni virtuali di centinaia di miliardi di euro che improvvisamente si materializzano o scompaiono, in un clima da sala da gioco più che da mercato serio. Queste convulsioni prefigurano un autunno denso di incertezze per l’economia mondiale, e, anche se finora non hanno provocato molti danni al risparmiatore italiano, accentuano un già diffuso bisogno di capire quello che sta succedendo.

Le Borse sono colpite da un virus che assomiglia, per molti versi, a quello dell’influenza aviaria. Contro l’influenza aviaria non esiste ancora un vaccino veramente efficace; sinora limitata ai volatili, può saltare le barriere genetiche tra le specie e infettare gli esseri umani. Il virus che ha colpito le Borse si chiama subprime - un termine che indica i mutui ipotecari americani concessi a persone difficilmente in grado di restituirli, e quindi a rischio elevato - e all’inizio era circoscritto alle transazioni immobiliari; nel corso di luglio-agosto ha però subito una «trasformazione genetica» e ha ormai attaccato i gangli del sistema mondiale dei pagamenti.
Nel seguire la trasformazione, ci si trova spesso davanti a forme sfacciate di disonestà che costituiscono un elemento distintivo di questa crisi finanziaria. La sua origine è, infatti, riconducibile a una pratica americana nota come predatory lending: un prestito «predatorio» per l’acquisto di un’abitazione in cui il mutuatario non si rende conto di firmare un documento zeppo di clausole sfavorevoli mentre il mutuante segretamente spera che il mutuatario non paghi per potergli portar via, per insolvenza, l’abitazione appena acquistata.
In Europa, chi ha bisogno di un mutuo va a chiederlo in banca o altrove; nel sistema «predatorio» succede il contrario. Qualcuno, dotato di capitali sovente presi a prestito, va a cercare i potenziali sottoscrittori di mutui, soprattutto neri e ispanici, anche di recentissima immigrazione - chiamiamoli Smith e Rodriguez - allettandoli all’acquisto delle case in cui vivono in affitto. Negli anni 2002-04, quanto il costo del denaro era bassissimo e il prezzo delle case saliva vertiginosamente, veniva loro prestato il 100% del valore dell’immobile e le prime rate erano «dolci» perché non comportavano restituzioni del capitale ma solo interessi. Passati uno o due anni, si facevano più onerose; essendo a tasso variabile, la loro salita si è accompagnata a quella del costo del denaro diventando insostenibile per moltissimi mutuatari (gli insolventi sono stimati in circa due milioni). Nel frattempo, però, i contratti di mutuo di Smith e Rodriguez erano passati in altre mani. Erano stati, come si dice, «cartolarizzati, acquistati da una banca o altra istituzione finanziaria, infilati in un prodotto finanziario a scopo speciale», confezionati per essere venduti a fondi speculativi, e persino a fondi comuni e fondi pensione. La gran parte di questi operatori acquistava e rivendeva i mutui di Smith e Rodriguez senza conoscer bene la loro potenziale insolvenza, con l’intento di rendere minimo il rischio dei propri impieghi mediante la diversificazione. Ed è proprio in questo processo di minimizzazione e di differenziazione che il virus cambia natura, si sgancia dal suo iniziale legame con il settore immobiliare, varca l’Atlantico e il Pacifico, entra in «prodotti derivati» di ogni tipo e finisce nessuno sa bene dove, nessuno sa bene in che misura.
Fino all’inizio del 2007, prima o poi qualcuno sventolava i contratti davanti agli insolventi Smith e Rodriguez, li sfrattava, si riprendeva la casa che nel frattempo aveva avuto un aumento di valore magari del 30 o del 50%; le assemblee di molte società finanziarie applaudivano all’abilità dei manager e volentieri assegnavano loro, sotto forma di bonus, una parte di un profitto che - per chi aveva avuto dall’inizio un chiaro intento predatorio - può forse definirsi come bottino. Il prezzo delle case, però, non può aumentare all’infinito. Una decisiva inversione di tendenza si verifica a cavallo del 2006-07: il detentore ultimo del contratto di mutuo di Smith e Rodriguez (sovente una finanziaria asiatica o europea) si trova a vendere un’abitazione che vale meno, talora molto meno di quanto era stata inizialmente pagata. Il forte utile si trasforma in forte perdita e, per il modo in cui sono costruiti questi prodotti finanziari sofisticati, spesso il valore dei titoli scende brutalmente a zero.
Per conseguenza, la struttura finanziaria internazionale, di cui questi titoli sono un elemento importante, riceve una durissima scossa alle fondamenta: dietro al rendimento elevato di un titolo può non esserci più nulla e grandi operatori possono trovarsi senza liquidità. A questo punto è inevitabile l’intervento delle banche centrali con prestiti di emergenza, concessi copiosamente nelle ultime settimane per impedire un collasso finanziario che andrebbe a danno di tutti; ma rimane l’amara constatazione che, nel mondo della finanza, se le loro dimensioni sono sufficientemente grandi, gli operatori che sbagliano vengono salvati. Non hanno quindi un particolare incentivo a essere prudenti: sfruttano quello che gli economisti chiamano un «azzardo morale».
Come andrà a finire? La situazione si presenta nettamente diversa negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Negli Stati Uniti si tratta di un problema industriale, con un forte abbassamento dell’attività produttiva: siccome si vendono meno case, se ne costruiscono ancora meno e ne soffrono i settori legati all’edilizia. Già il vecchio governatore Greenspan aveva indicato, otto mesi fa, il pericolo di una recessione entro la fine dell’anno; allora non fu preso molto sul serio, mentre oggi le stime dell’Ocse e del Fondo Monetario Internazionale, pur evitando questa temuta parola, ritengono inevitabile un forte rallentamento produttivo americano con ripercussioni sull’economia globale .
Per l’Europa e l’Asia, al contrario, gli effetti recessivi saranno più leggeri e in Europa in particolare, se i governi saranno saggi e la Banca Centrale Europea non miope, potranno essere combattuti eventualmente con strumenti fiscali e una politica monetaria più vigile. Vi è però un più generale effetto negativo: il dubbio e la sfiducia si sono insinuati nei rapporti tra gli operatori e per combatterli sono indispensabili nuove regole che impongano ai mercati una trasparenza diversa e briglie più strette delle attuali; il tramonto di un certo liberismo pasticcione e approssimativo è ormai nei fatti.
Se tutto andrà bene, i contraccolpi di questa vicenda potrebbero toccare solo marginalmente il signor Bianchi, il signor Dupont, o qualsiasi normale cittadino europeo che chiede soprattutto sicurezza per i suoi risparmi e il suo lavoro e non è molto interessato alla finanza e alla Borsa; la partita, però, è ancora aperta, nessun risultato è acquisito, come per l’influenza aviaria non abbiamo alcuna vera garanzia contro una soluzione disastrosa. Come una maledizione, l’incertezza finanziaria rimarrà con noi, come minimo, ancora per qualche mese.

CORRIERE DELLA SERA, MARTEDì 11/9/2007
FEDERICO FUBINI
DAL NOSTRO INVIATO
BERLINO – Ha scelto un castello della Prussia feudale per provare a intendersi con Nicolas Sarkozy sui mercati globali. A Meseberg, nel cuore del Brandeburgo, Angela Merkel ieri mattina è emersa da un’ora in compagnia del presidente francese senza l’ombra di un sorriso sul volto. Ma non dev’ essersi trattato di un’ora sprecata, perché per entrambi i leader è ormai tempo di una risposta europea all’instabilità che Parigi e Berlino considerano un frutto avvelenato in arrivo dagli Stati Uniti e dalla Cina.
«Serve una moralizzazione dei mercati. L’Europa non può essere la sola regione dove il mondo intero arriva e si serve – ha attaccato subito Sarkozy ”. Non possiamo permettere a qualche decina di speculatori di mettere al tappeto l’intero sistema internazionale». Più sorvegliata nelle parole Angela Merkel, ma non nella determinazione a farsi valere a Bruxelles e al Fondo monetario internazionale: «Il nostro desiderio comune è che ci sia più trasparenza anche negli strumenti finanziari », ha detto.
Se questi sono gli obiettivi, le prossime tappe arriveranno già il mese prossimo. La cancelliera ha messo in chiaro che il Portogallo, presidente di turno, lancerà un’iniziativa al vertice dei leader dell’Ue a ottobre e l’Europa la farà pesare quando i 184 Paesi dell’Fmi si vedranno a Washington negli stessi giorni. «Dobbiamo fare trasparenza su certi aspetti – ha martellato Angela Merkel – Per esempio, gli hedge fund e le agenzie di rating che valutano i debiti: non si può più spiegare dopo che, purtroppo, nessuno sapeva nulla e molta gente è rimasta danneggiata».
La cancelliera non ha ricordato tutto: non ha detto che le istituzioni espostesi di più nella crisi, fin qui, sono due banche tedesche a controllo pubblico come Ikb e SachsenLB. Non si è addentrata nella lotta sotterranea fra Bundesbank e Bafin, l’autorità di Borsa di Francoforte, dopo le sviste sulle colossali attività coperte del sistema creditizio in Germania. Sarkozy, velatamente, glielo ha fatto notare: «I risparmiatori vogliono sapere che rischi si sono sobbarcati le banche».
Ma il presidente francese non ha insistito, perché a momenti l’incontro nella pioggia di Meseberg ha dato l’impressione di avere anche altri obiettivi. Entrambi i leader sembrano infatti voler approfittare della crisi di liquidità sui mercati per rispolverare vecchi cavalli di battaglia. Per Sarkozy, in primo luogo la forza eccessiva dell’euro rispetto alle monete delle potenze emergenti. «Non sono contro i mercati né contro la globalizzazione, sono contro l’economia speculativa – ha detto il nuovo inquilino dell’Eliseo ”. La Cina deve svilupparsi ma anche contribuire al commercio leale». Non è dunque un caso se il comunicato di Parigi e Berlino definisce «allarmanti» le barriere commerciali «imposte attraverso pratiche scorrette come i tassi di cambio influenzati dalla politica ».
Neanche Merkel si è fatta pregare a riproporre la sua campagna contro gli hedge fund e i fondi controllati dai governi stranieri. «Occorre vigilanza nel caso in cui le risorse di alcuni Stati agiscano in maniera da distorcere la concorrenza », ha insistito la cancelliera.
Come tutto questo interventismo nel nome della trasparenza s’intersechi con il nervosismo sui mercati, resta in buona parte da vedere. Merkel oggi ne parlerà con Ben Bernanke e, con ogni probabilità, sugli hedge fund registrerà il dissenso del presidente della Federal Reserve. Per il governatore di Washington alla crisi contribuisce la finanza opaca delle banche sulle due sponde dell’ Atlantico, per gli europei si tratta un fenomeno americano aggravato dalla sete della Cina per le imprese e i mercati del vecchio continente. E, se queste resteranno le posizioni, fra il Brandeburgo e Wall Street è ancora la lunga la strada per tranquillizzare i mercati.

LA REPUBBLICA, MARTEDì 11/9/2007
HUGO DIXON
Il calo dell´occupazione negli Usa non solo interrompe una striscia positiva di quattro anni, ma induce a pensare che i problemi creditizi e il caos immobiliare stiano intaccando l´economia. Fino ad ora l´azione della Fed è stata molto mirata, volta a fornire liquidità e, nel contempo, a non fare sconti per gli operatori scellerati, con un occhio sempre puntato sull´inflazione. Ma il dato sull´occupazione evidenzia un malessere dell´economia reale impossibile da ignorare, soprattutto per uno come il governatore Ben Bernanke, che predilige i dati all´umore delle Borse. C´è da valutare però se un taglio sia o meno saggio. Certo, i dati sull´occupazione di agosto sono tutt´altro che brillanti, ma è anche vero che altri recenti indicatori dello stato di salute del settore manifatturiero hanno evidenziato un quadro positivo. Tuttavia, se si danno per buoni i numeri, la tendenza appare sicuramente negativa, anche se la tesi a favore dell´allentamento non è ancora del tutto convincente. Le previsioni di un taglio ai tassi emerse dopo la pubblicazione dei dati hanno innescato una forte riduzione del dollaro rispetto a euro e yen, uno sviluppo di per se inflazionistico. A complicare le cose per Bernanke è la data stabilita per la riunione del comitato preposto a fissare il tasso della Fed, poiché essa coincide con la data in cui saranno pubblicati i prossimi dati sull´inflazione, dati che se dovessero superare le attese metteranno Bernanke dinanzi a una difficile scelta: continuare la lotta all´inflazione e proteggere il valore del dollaro, spingendo però i mercati, e forse l´economia, giù per il burrone, oppure, più verosimilmente, optare per l´allentamento e rimandare il discorso inflazione a dopo. In questo caso, però, il segnale che non vi saranno altri tagli dovrà essere chiaro e forte.
Dwight Cass

DAGO SPIA, MERCOLEDì 12/9/2007
– MUTUI SUBPRIME: ”UNA GRANDE BANCA STA PER SALTARE IN ARIA (CITIBANK?)
Non sono state soltanto le donne a provocare brividi al Forum di Cernobbio. Il blitz di Margherita Agnelli e l’abbronzatura di Maria Bartiromo, la sensuale giornalista americana, per un attimo sono stati oscurati quando sul palco ha preso la parola un calvo professore che ha insegnato ad Harvard e a Princeton. Si chiama Kenneth Rogoff, ha 53 anni, è stato capoeconomista del Fondo Monetario, e con voce nasale ha detto agli ospiti dello Studio Ambrosetti che una grande banca sta per saltare in aria.

La platea intorpidita e desiderosa di guadagnare il buffet, è sobbalzata sulle poltroncine di velluto rosso e si è chiesta quale sarà mai la banca di dimensioni mondiali che scoppierà per colpa dei mutui subprime. Il professor Rogoff non ha voluto precisare, ma a suggerire una pista ci ha pensato dall’alto della sua età veneranda l’anziano presidente delle Generali Antoine Bernheim: "mi hanno detto che Citibank è in difficoltà".

Adesso è caccia aperta per capire dove esploderà la bomba finanziaria della finanza americana. In giro c’è una grande confusione alimentata dall’assenza di un Greenspan e dalla nebbia che sembra circondare la BCE di Francoforte. Tra sette giorni la Fed americana taglierà i tassi e la recessione dovrebbe allontanarsi, ma sono in molti a sostenere (uno di questi è Giulietto Tremonti) che lo spettro della recessione è vivo e che la crisi arriverà in Europa e in Italia. Fino a ieri sera a Wall Street pensavano che la bomba portasse il nome della banca d’affari "Bear Stearns", ma nel pomeriggio un ricco miliardario inglese che vive da 30 anni alle Bahamas ha cacciato 860 milioni di dollari per comprare il 7% della banca chiacchierata. Non è finita.

LA REPUBBLICA, MERCOLEDì 12/9/2007
HUGO DIXON
Tra il 2001 e il 2003 la Federal Reserve ha ridotto i tassi d´interesse dal 6,5% all´1%, per scongiurare la minaccia di una deflazione dei prezzi al dettaglio. La manovra è riuscita, ma ha innescato l´inflazione dei prezzi degli asset. Ora che la Fed e gli altri istituti centrali si trovano ad affrontare la minaccia di una deflazione dei prezzi degli asset, chissà se riproporre l´inflazione per i prezzi al dettaglio non sia la risposta corretta. Il percorso che va dai tassi bassi ai prezzi elevati degli asset passa attraverso l´indebitamento, reso allettante proprio dai tassi contenuti. La fase ascendente dei prezzi degli asset sembra però in via di esaurimento, colpa dell´attuale collasso creditizio, in un clima che vede un´inversione di tendenza sul fronte del ricorso al debito, un fenomeno che spinge al ribasso i prezzi praticamente di ogni bene finanziato con soldi presi in prestito, a cominciare dalle case. Esiste però un altro modo per riportare i prezzi degli asset a livelli più congrui in un contesto economico meno propenso al debito: il ricorso all´inflazione al dettaglio.
Sebbene creare l´inflazione dei prezzi al dettaglio potrebbe non essere facile, soprattutto se l´economia mondiale inizierà a frenare; l´impresa potrebbe riuscire se la Fed si orientasse verso un´inflazione al 5% per qualche anno. La cosa non farebbe felice Bernanke, ma rappresenterebbe una punizione appropriata, poiché ammettere da subito che l´inflazione dei prezzi degli asset costituiva una minaccia alla stabilità economica avrebbe consentito all´istituto centrale di agire con più risolutezza per fermarla.
Edward Hadas
[hedge fund, Grande è meglio]
Sebbene i rendimenti degli hedge fund siano sempre stati ritenuti avulsi dalle dinamiche dei mercati tradizionali, gli eventi di luglio e agosto sono un´ulteriore conferma che in certe circostanze i ribassi possono essere generalizzati. Ad agosto gli hedge fund in media hanno lasciato sul terreno l´1,3%, ma questa flessione, lungi dall´essere una minaccia per il settore, sarà utile per separare il grano dal loglio. I grandi fondi di successo, con ampia clientela e capacità operative su larga scala attireranno nuovi investimenti; mentre soffriranno quelli con solo qualche centinaio di milioni di dollari di patrimonio, perché basterà il prelievo dei fondi di un solo investitore per costringerli a vendite devastanti; senza dimenticare la crescente importanza dei fondi di fondi, sempre meno propensi a perdere tempo con investimenti in fondi minuscoli. Inoltre, per finanziarsi molti colossi possono fare a meno di banche sempre più taccagne: ad esempio Citadel Investment Group, un fondo da oltre 15 miliardi di dollari, l´anno scorso ha emesso 500 milioni di dollari di obbligazioni ed è pronto a emetterne altri 1,5 miliardi.
Altro fattore di possibile sviluppo: ora che anche negli hedge fund si sta diffondendo l´insicurezza del posto di lavoro, per i fondi maggiori è diventato più facile trovare personale qualificato a salari ragionevoli. Sebbend anche negli anni buoni alcuni fondi minori siano stati costretti a chiudere bottega, il numero e l´importanza di quelli più piccoli sembra destinato a un rapido declino.
Richard Beales
(Traduzioni a cura di MTC)

LA REPUBBLICA, SABATO 15/9/2007
MARIO DRAGHI
Dalla metà di giugno i mercati finanziari internazionali sono stati caratterizzati da un calo della liquidità e da un aumento delle incertezze, in relazione soprattutto all´evoluzione del mercato dei mutui subprime negli Stati Uniti. L´aumento delle insolvenze registrato su tale mercato ha infatti destato timori che le perdite potessero propagarsi dalle società (in larga misura non bancarie) che avevano erogato i mutui al resto del sistema finanziario, in particolare alle grandi banche internazionali coinvolte nella cartolarizzazione dei prestiti.
Alla fine di luglio l´emergere delle difficoltà della banca tedesca Ikb acuiva le incertezze e provocava tensioni sui mercati obbligazionari, dove si registrava un ampliamento del differenziale di rendimento tra le obbligazioni private e i titoli di Stato. Le incertezze si rafforzavano ulteriormente l´8 di agosto, quando la banca francese BnpParibas annunciava di aver sospeso la quotazione e i rimborsi di tre propri fondi, che avevano investito in titoli garantiti da mutui ipotecari.
Le difficoltà registrate da altre banche europee (come le tedesche WestLB e Sachsen LB e l´inglese Barclays) determinavano, il 9 agosto, un´improvvisa e forte tensione sul mercato della liquidità: sul mercato monetario dell´euro il tasso a brevissimo termine (overnight) raggiungeva punte del 4,60 per cento (contro valori normali di circa il 4%). Le tensioni riguardavano anche il mercato monetario in dollari, dove i tassi a brevissimo temine aumentavano improvvisamente di quasi 50 centesimi di punto percentuale (al 5,70%). Contemporaneamente si registrava un generalizzato aumento della variabilità dei corsi azionari e dei cambi, dove si registrava un forte apprezzamento dello yen e un indebolimento dell´euro. L´accresciuta avversione al rischio da parte degli investitori determinava un incremento della domanda (e un conseguente calo dei tassi) dei titoli pubblici.
Le tensioni dei mercati monetari erano legate in ampia misura alla accresciuta domanda di liquidità da parte delle maggiori banche internazionali, che in molti casi avevano garantito a società «veicolo» attive sul mercato dei titoli strutturati linee di credito a cui queste ultime avrebbero potuto far ricorso in caso di difficoltà nel reperire finanziamenti direttamente sul mercato dei titoli a breve (essenzialmente Commercial Paper). Questi sviluppi trasformavano quindi la crisi dei mutui in una crisi di liquidità.
Al fine di distendere le condizioni del mercato monetario, il 9 agosto la Bce immetteva liquidità con un un´operazione straordinaria di finanziamento di 95 miliardi di euro, con scadenza pari a un giorno e tasso fisso del 4%. All´apertura dei mercati statunitensi, la Federal Reserve immetteva liquidità per 12 miliardi di dollari; la Banca centrale canadese comunicava la disponibilità a fornire la liquidità necessaria per sostenere il sistema finanziario e garantire il buon funzionamento dei mercati.
Di fronte a rinnovate tensioni dei mercati monetari e delle borse, nei giorni seguenti le banche centrali (incluse quella giapponese e quella australiana) decidevano di intervenire anch´esse per fornire maggiore liquidità ai mercati.
Il 10 agosto la Bce effettuava una nuova operazione di finanziamento mediante asta a tasso variabile, attraverso cui venivano concessi finanziamenti per 61 miliardi di euro a un tasso medio del 4,08, in linea con il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale. Analoghe decisioni venivano prese dalla Federal Reserve, che concedeva finanziamenti a tre giorni per 19 miliardi di dollari, ampliando altresì le tipologie di titoli accettati a garanzia dei finanziamenti (una misura analoga era stata presa all´indomani degli attentati dell´11 settembre).
La settimana successiva (13 agosto) si apriva con condizioni di mercato meno tese. La Banca del Giappone immetteva tuttavia sul mercato fondi per circa 600 miliardi di yen (3,7 miliardi di euro). La Bce effettuava una nuova operazione di finanziamento a un giorno. Anche l´atteggiamento della Federal Reserve si conformava alle condizioni più distese dei mercato finanziari. Nelle giornate prefestiva e festiva di metà agosto la situazione sembrava avviarsi alla normalità. Il 14 agosto la Bce varava una operazione straordinaria di finanziamento per 7,7 miliardi di euro (contro i 48 in scadenza) a tassi in linea con quelli di mercato. La consueta operazione settimanale veniva collocata per un importo sensibilmente superiore a quello atteso.
Le turbolenze riemergevano il 15 agosto sul mercato dei cambi, dove la chiusura di posizioni sullo yen favoriva un sensibile recupero della valuta giapponese nei confronti di tutte le principali divise.
Nella seconda parte del mese le condizioni dei mercati monetari a brevissimo termine sono divenute meno tese. I problemi proseguivano sul mercato interbancario: su scadenze superiori alla settimana si registrava infatti una rarefazione degli scambi e un forte aumento dei tassi sulle transazioni non assistite da garanzia, come riflesso delle incertezze esistenti circa le esposizioni dei singoli intermediari sui mercati dei titoli strutturati. Rinnovate tensioni si registravano altresì sui mercati obbligazionari, azionari e dei cambi.
In questo clima, gli operatori mostravano aspettative di una revisione delle politiche monetarie delle banche centrali dei maggiori paesi. Tali attese trovano conferma nella riduzione da parte della Federal Reserve del tasso di sconto (dal 6,25% al 5,75%) e dalla contestuale estensione della scadenza dei finanziamenti (fino ad un mese, rinnovabile su richiesta del prenditore dei fondi). Anche sulla scia dei provvedimenti della Federal Reserve i mercati azionari internazionali nell´ultima parte di agosto registravano sensibili rialzi.
Le tensioni sul mercato monetario tuttavia proseguivano nella settimana successiva, determinando un aumento della domanda e il conseguente calo dei tassi sui titoli pubblici a breve termine (TBills); in particolare, proseguivano, rafforzandosi, le tensioni sul mercato interbancario sulle scadenze comprese tra due settimane e tre mesi, dove gli scambi risultavano pressoché nulli. Nell´area dell´euro il differenziale di interesse a tre mesi tra depositi interbancari non garantiti (euribor) e quelli provvisti di garanzia in titoli di Stato (eurepo) si stabilizzava su valori assai ampi, pari a 63 centesimi di punto percentuale. Anche per ovviare a questa situazione anomala, il Governing Council della Bcedecideva, il 23 agosto, un´operazione di finanziamento straordinaria a tre mesi per 40 miliardi di euro. Anche questa operazione non riusciva tuttavia a ridurre i tassi interbancari e riattivare gli scambi.
Nell´ultima settimana di agosto i tassi d´interesse a brevissimo termine tornavano a salire, sfiorando il 4,50% nell´area dell´euro e il 5,50% negli Stati Uniti. Nella giornata di venerdì 31 agosto le prese di posizione con cui il presidente degli Stati Uniti manifestava l´impegno ad intervenire in favore dei mutuatari in difficoltà e il governatore Bernanke confermava l´attenzione della Banca centrale alle ripercussioni delle turbolenze monetarie sull´economia reale, allentavano le tensioni, ma solo temporaneamente. Nei primi giorni di settembre i tassi a brevissimo termine risalivano sia negli Stati Uniti sia nell´area dell´euro; proseguivano le difficoltà dei mercati interbancari su scadenze superiori alla settimana.

* stralcio dell´intervento del governatore della Banca d´Italia al Cicr (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio)








LA REPUBBLICA, SABATO 15/9/2007
VITTORIA PULEDDA
MILANO - Venerdì grigio per i mercati: grazie ai molti dati congiunturali americani - di segno incerto, ma non negativissimi - le Borse hanno evitato il bagno di sangue ma la prima crisi di una banca britannica ha comportato chiusure generalmente in calo. Così il Mibtel ha perso lo 0,79%, Parigi e Francoforte mezzo punto percentuale e Londra l´1,17%. La piazza inglese in particolare è stata fortemente disturbata dalla richiesta di aiuto urgente da parte di Northern Rock, ottava banca del paese, che ha chiesto e ottenuto un prestito d´emergenza a lungo termine da parte della Bank of England (Boe). E´ la prima volta che la Boe effettua un intervento del genere (dopo aver ripetutamente escluso in passato di voler effettuare salvataggi), per un importo che non è stato reso noto.
La crisi della Northern - specializzata in mutui - è la prima che investe un istituto britannico ed è strettamente collegata al problema dei mutui subprime, sebbene l´istituto non si muova in quel contesto e non abbia esposizioni con gli Usa: semplicemente, la Northern ha pagato la crisi di liquidità che sta caratterizzando il mercato interbancario dei prestiti. In altre parole, non ha trovato finanziamenti sufficienti sul circuito su cui normalmente si finanziano le banche. Per questo, dopo aver lanciato un allarme sugli utili, ha chiesto soccorso alla Banca centrale. I tassi sull´interbancario spiegano lo stato di allerta dei mercati: l´Euribor ad un mese è grosso modo intorno al 4,45% e a tre mesi è al 4,75% mentre livelli fisiologici, rispetto ai tassi di riferimento Bce, dovrebbero essere più bassi rispettivamente di 30 e 50-55 punti base. «Fino a quando l´interbancario si terrà su valori anomali vuole dire che la liquidità è tirata - spiega Gregorio De Felice, responsabile del Servizio studi di Intesa Sanpaolo - vuol dire che le banche preferiscono tenersi in casa la liquidità, che hanno paura del rischio controparte». Ecco spiegato quanto è successo alla Northern Rock. Al punto che il ministro delle finanze britannico, Alistair Darling, ha chiesto «un´azione internazionale» per fronteggiare i rischi di stabilità del settore bancario, mentre il colosso Merrill Lynch ha comunicato di aver rivisto le sue stime sulle esposizioni nel settore del credito.
E mentre da una parte del mondo l´economia continua a correre all´impazzata, tanto che la Banca centrale cinese ha alzato per la quinta volta consecutiva i tassi, portandoli al livello più alto da nove anni a questa parte (al 7,29%) per contrastare l´inflazione e il formarsi di bolle speculative, il governatore della Banca d´Italia, Mario Draghi, è tornato a sottolineare l´importanza di agire in modo corretto sulla politica monetaria. Gli errori nella comunicazione infatti «possono pesare molto più che in passato» creando «effetti disordinati sulla liquidità». Negli Usa il mercato è tornato a scommettere su un ribasso di un quarto di punto dei tassi, nella prossima riunione della Fed (martedì). Ieri la valuta Usa ha guadagnato qualche posizione rispetto all´euro (che passava di mano a 1,3857 dollari, rispetto agli 1,3893 della vigilia) mentre la sterlina, danneggiata dalla crisi della Northern, ha chiuso ai minimi da 14 mesi. Infine, nuovo record, anche se per pochi centesimi, per il petrolio, a 80,36 dollari a barile.

***

DAL NOSTRO INVIATO
FRANCOFORTE - E´ stato proprio qui, nella piccola «market room» della Banca Centrale Europea al primo piano dell´Eurotower, che poco dopo le otto di mattina di giovedì 9 agosto i terminali hanno cominciato a riversare i dati di un repentino balzo dei tassi di interesse sui prestiti a brevissimo termine. A quel punto è scattato l´allarme. Il direttore generale delle operazioni, Francesco Papadia, ha riunito in teleconferenza il gruppo di contatto per ascoltare i rapporti delle tredici banche centrali e delle principali banche commerciali europee. Quindi ha preso il telefono e ha raggiunto i membri del board della Bce, quasi tutti in vacanza. Il suo messaggio, purtroppo, non ha sorpreso nessuno: «La crisi dei subprime sta innescando una spirale di sfiducia: le banche non si prestano denaro l´una con l´altra perché non si fidano dei titoli offerti in garanzia. Il bisogno di liquidi sta mandando alle stelle i tassi di interesse. Dobbiamo intervenire».
Forse neppure Papadia, nell´eccitazione del momento, si rendeva conto della portata storica della sua richiesta. Per la prima volta da quando esiste, la Bce si preparava ad agire non per proteggere la stabilità dei prezzi, ma per tutelare la stabilità dei mercati finanziari.
Alle 10.30, la Banca centrale emetteva un comunicato in cui si diceva «pronta ad assicurare condizioni di normalità sul mercato monetario dell´euro». Alle 12.30 il «front office» della Bce lanciava un´offerta di prestiti «overnight», da restituire entro 24 ore, accettando in garanzia i titoli che le banche commerciali avevano rifiutato. All´una e cinque, l´iniezione di liquidità a brevissimo termine aveva raggiunto i 94,8 miliardi di euro distribuiti tra 49 grandi banche europee. Il giorno dopo, venerdì, l´operazione è stata ripetuta per 61 miliardi. E il lunedì 13 la banca centrale ha riversato nel sistema creditizio altri 47 miliardi di euro a 24 ore, più 310 miliardi a una settimana. Da allora gli interventi, in parallelo con quelli della Fed americana e delle altre principali banche centrali mondiali, non sono mai cessati, anche se la crisi, o «la turbolenza dei mercati» come preferiscono chiamarla qui ai piani alti dell´Eurotower, non accenna a calmarsi.
Tecnicamente, qui a Francoforte, l´intervento della Bce è considerato un grande successo grazie al quale la sofferenza dei subprime non si è trasformata in una crisi strutturale del sistema finanziario che avrebbe potuto avere effetti anche più gravi di quelle del ”98 e del 2000-2001.
Ma non tutti sono d´accordo. Secondo il governatore della Bank of England, Mervyn King, «la fornitura di abbondante liquidità penalizza quelle istituzioni finanziarie che sono rimaste fuori dal balletto, incoraggia comportamenti gregari e aggrava l´intensità delle crisi future». Insomma, secondo la Banca centrale britannica, che pure presiede alla maggiore piazza finanziaria del Pianeta pesantemente toccata dalla crisi dei mutui subprime, la politica della Bce e della Fed americana «incoraggia una assunzione di rischi eccessiva» offrendo «una assicurazione ex post ai comportamenti troppo azzardati».
Ai piani alti della Banca centrale europea le critiche di King non sono apprezzate. E´ vero - si osserva - che non bisogna interferire con le leggi del mercato. Ma perché il mercato possa emettere le proprie sentenze e punire i responsabili di speculazioni sbagliate, occorre garantire che funzioni in modo corretto. Ed è esattamente quello che abbiamo fatto. Se non fossimo intervenuti, la mancanza di liquidità avrebbe penalizzato anche banche e istituzioni finanziarie che non si sono esposte in modo significativo alla crisi di mutui americani. L´effetto valanga avrebbe finito per travolgere anche operatori sani.
Invece, garantendo il corretto funzionamento del mercato, abbiamo offerto al sistema finanziario il tempo necessario per verificare quale sia l´entità reale delle perdite, fare le necessarie «due dilegences» e stabilire chi debba effettivamente pagare per gli errori compiuti.
Il momento della verità, insomma, verrà tra la fine di settembre e la metà di ottobre, quando prima le società finanziarie e poi le banche dovranno presentare i rendiconti trimestrali. A quel punto si potrà capire qual è la reale entità della crisi, chi sarà chiamato a farne le spese e in quale misura.
Altra cosa, pensano a Francoforte, è invece se i timori della Bank of England si riferiscono al rischio che le banche centrali siano tentate di ripetere quello che qui viene chiamato «l´errore di Greenspan», cioè allentare oltre misura il rubinetto del credito abbassando i tassi per drogare il mercato dei titoli e compensarne così le perdite dovute a speculazioni errate. E´ proprio quello che fece l´allora presidente della Fed tra il 2000 e il 2001 di fronte allo sgonfiarsi della bolla speculativa americana e poi alla crisi seguita all´11 settembre.
In questo caso la preoccupazione di King sarebbe legittima. E´ vero che quell´intervento attutì le conseguenze del crollo dei mercati finanziari e mantenne alta la crescita dell´economia Usa ma, secondo l´analisi della Bce, fu proprio quella enorme immissione di liquidità a diminuire la percezione del rischio e a porre le premesse per la crisi attuale. Una crisi, si sottolinea, che pur essendo originata negli Stati Uniti su prodotti finanziari americani, sta colpendo proporzionalmente il sistema finanziario europeo in misura forse superiore a quanto non faccia con il sistema bancario d´Oltreoceano.
Ma questa volta né la Bce e neppure la Federal Reserve americana sembrano orientate a ripetere l´errore. Il calo dei tassi deciso a Washington potrebbe proseguire ma, notano a Francoforte, la Fed è attenta a giustificarlo con i timori di un raffreddamento dell´economia reale e a non metterlo in relazione con le turbolenze dei mercati. Quanto alla Banca centrale europea, è vero che alla riunione del 6 settembre il Consiglio ha deciso di rinviare l´atteso aumento del tasso di sconto per non intervenire in un panorama finanziario già in fibrillazione. Oggi l´aspettativa dei mercati è che la Bce resterà per un po´ al balcone, in attesa di capire quale sia l´entità effettiva della crisi finanziaria innescata dai mutui subprime e quali possano essere le sue ricadute sull´economia reale dell´Eurozona. Ma all´Eurotower si affrettano a sottolineare come già oggi i tassi europei siano inferiori a quelli americani pur con una economia che cresce a un ritmo superiore di quella Usa. Se le prospettive di inflazione non si abbasseranno drasticamente, è certo che Francoforte, dopo la necessaria pausa di riflessione, riprenderà la strada del rigore monetario.

WWW.LASTAMPA.IT, SABATO 15/9/2007

Gb, panico per la crisi di una banca
Clienti in coda per entrare in un’agenzia della Northern Rock a Londra

Le azioni della Northern Rock
perdono il 30% e i correntisti
ritirano un miliardo di sterline

ROMA
«Panico nelle strade» della Gran Bretagna per la crisi della Northern Rock, ottava banca britannica e quinto maggiore erogatore di mutui del Paese. I principali giornali britannici dedicano oggi i titoli di apertura alla crisi dell’istituto di credito, le cui azioni hanno perso ieri oltre il 30 per cento del proprio valore.

L’istituto con sede a Newcastle è stato soccorso dalla Banca centrale della Gran Bretagna, che gli ha concesso un finanziamento di emergenza per fronteggiare una crisi di liquidità. La Northern Rock ha infatti comunicato che la crisi dei mutui subprime negli Usa sottrarrà dai suoi utili tra i 500 e i 540 milioni di sterline, un dato superiore alle attese.

La notizia dell’intervento della Banca centrale ha però gettato nel panico i correntisti della Northern, che si sono affrettati a ritirare i propri risparmi. Solo ieri è stato prelevato dai depositi dell’istituto circa un miliardo di sterline, riferisce oggi il Financial Times, che cita una fonte che segue da vicino questa vicenda.

Per Hamish McRae, giornalista economico del quotidiano The Independent, scene come quelle di ieri, con le code di clienti fuori delle varie filiali della banca, non si videro neanche negli Stati Uniti dopo la grande crisi del 1929. «Per la Northern Rock questa è una catastrofe», scrive McRae. «Per tutti noi è la fine dell’era dei soldi facili».

CORRIERE DELLA SERA, DOMENICA 16/9/2007
MONICA RICCI SARGENTINI
LONDRA – Si sono rimessi in fila all’alba di ieri, ignorando l’appello alla calma del Cancelliere dello Scacchiere Alistair Darling. Da Londra a Edinburgo migliaia di clienti della Northern Rock, l’ottava banca del Paese, per due giorni hanno preso d’assalto le 76 filiali per ritirare i propri risparmi dopo che l’istituto di credito, specializzato in mutui, giovedì scorso aveva annunciato di aver ottenuto un prestito d’emergenza a lungo termine dalla Banca d’Inghilterra (Boe). Un fatto inedito che ha scatenato scene di panico mai viste prima. «Questo è un evento simile a quello accaduto in America dopo la crisi del 1929» ha scritto Hamish McRae sull’Independent. La polizia è dovuta intervenire a Sheffield e a Glasgow per calmare la gente inferocita. A Cheltenham un uomo d’affari si è barricato insieme alla moglie nell’ufficio di un dirigente con la pretesa di chiudere un conto da un milione di sterline. Il portavoce della Northern Rock, Brian Giles, ha cercato di gettare acqua sul fuoco: «Non siamo senza soldi. I risparmi dei clienti sono al sicuro». Ma le sue parole non hanno convinto Brian Goodman, 80, pensionato, in coda insieme alla moglie: «Se torniamo la prossima settimana magari non c’è più contante. Non ci caschiamo». La stessa opinione di Andrew Gill, un ex funzionario del fisco: «La Northern Rock ha perso la sua reputazione. Quindi rivoglio i miei risparmi». Secondo il Financial Times nella sola giornata di venerdì i correntisti sono riusciti a ritirare un miliardo di sterline, il 4% dei depositi. Alla chiusura dei mercati, venerdì scorso, le azioni del gruppo erano crollate del 32%.
La banca, che ha sede a Newscastle, ha sofferto della stretta creditizia innescata dalla crisi dei mutui subprime, nonostante l’istituto non si muova in quel contesto e non abbia esposizioni con gli Usa. La Northern finanzia i mutui ottenendo prestiti da banche o da altre istituzioni finanziarie. Ma la situazione americana ha causato una fuga degli investitori. Di qui la richiesta d’aiuto alla Banca d’Inghilterra che, ieri, ha rassicurato i cittadini: per ora nemmeno una sterlina del fondo d’emergenza è stata toccata. Parole confortanti anche da Callum McCarthy il presidente della Fsa, l’ente che controlla il settore creditizio in Gran Bretagna: «Crediamo che l’istituto sia solvente e che abbia una buona qualità del credito». E il Cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling: «Tutte le banche hanno fondi a disposizione, ma al momento non se li stanno prestando a vicenda come fanno di solito».
Ma c’è chi accusa il premier Gordon Brown. «Deve assumersi la responsabilità di questa bolla creditizia – ha scritto ieri il Daily Telegraph ”. Nei suoi dieci anni al Tesoro è stato felice di beneficiare di un senso di falsa prosperità basato non sull’aumento della produttività ma sui prezzi delle case e dei prestiti». Ora si prevede un calo del mercato immobiliare, a settembre i prezzi sono scesi del 2,6%. Un motivo in più di preoccupazione per chi ha contratto un mutuo (800 mila persone solo con la Northern Rock). Secondo il Sun anche l’istituto di Newcastle ha le sue colpe: «La banca ha continuato a concedere ai clienti prestiti sino a cinque volte l’ammontare dei salari e fino al 125% del valore delle case, nonostante tutti gli avvertimenti sull’instabilità economica e il possibile crollo delle quotazioni degli immobili». E si fa strada l’ipotesi dell’interesse di qualche gruppo rivale per Northern Rock: il Financial Times parla di Lloyds Tsb. Ma gli interessati non confermano.

CORRIERE DELLA SERA, DOMENICA 16/9/2007
ENNIO CARETTO
WASHINGTON – A sorpresa, l’ex presidente della Riserva federale Alan Greenspan, l’ex grande timoniere della finanza internazionale, ha ieri recitato un parziale mea culpa sui mutui subprime, un mea culpa che influirà sulla decisione del successore Ben Bernanke se abbassare i tassi o non alla cruciale riunione di martedì della Fed. In un’intervista alla tv, presentando il suo atteso libro «The age of turbulence» (L’era della turbolenza) che uscirà domani, Greenspan ha dichiarato: «Ero al corrente di parecchie delle prassi dei subprime, ma non mi resi conto di quanto fossero diventate significative se non molto tardi. In realtà non lo capii che alla fine del 2005, inizio del 2006». Poi, in una debole difesa del proprio errore: «Non c’era però nulla di particolare su cui indagare perché, pur sapendo di quei problemi, per noi era assai difficile intervenire».
Con la sua ammissione alla tv Greenspan, su cui gli economisti si sono spaccati in due dopo la crisi dei subprime – chi lo definisce sempre «il maestro» chi «il signore delle bolle» – ha fatto marcia indietro rispetto al libro. Ne «L’età della turbolenza», scritto prima dello scoppio della crisi che vedeva peraltro avvicinarsi, l’ex governatore ha declinato ogni responsabilità.
Il boom immobiliare, ha asserito, fu dovuto alla fine del comunismo e alle emigrazioni che immisero milioni di lavoratori sui mercati globali e spinsero a un drastico ribasso salari e tassi. «Pensai allora e penso oggi che l’aumento del numero dei proprietari di case comporti più benefici che rischi», ha aggiunto Greenspan. Anche nell’intervista, tuttavia, Greenspan ha respinto l’accusa di Steven Forbes, l’editore miliardario ed ex candidato alla Presidenza, di essere stato «il primo colpevole della crisi con la sua troppa generosa politica creditizia». Dopo il 2001, ha spiegato, «tenni a lungo i tassi all’1% per prevenire una deflazione corrosiva: ero persino disposto a creare una bolla, una spinta inflazionistica, di cui ci saremmo presi cura più tardi». E alla domanda se lo scorso agosto al posto di Bernanke avrebbe reagito più massicciamente alla crisi ha riposto: «Non credo, sta facendo bene». (per il resto dell’articolo vedi scheda 141925)

CORRIERE DELLA SERA, DOMENICA 16/9/2007
MASSIMO MUCCHETTI
Celebre per esprimersi con un linguaggio involuto, spesso volutamente ambiguo, stavolta Greenspan sarà accusato di aver parlato con lingua biforcuta sia per la «bocciatura» di un presidente che non ha mai criticato apertamente quando era alla Fed, sia per il tentativo di presentare gli eventi degli ultimi anni in una chiave a lui favorevole.
Certamente, però, dalle sue memorie esce una lettura della storia economica dell’ultimo ventennio affascinante e che induce a guardare al prossimo futuro con una certa apprensione. Per Greenspan è stata la caduta del comunismo a mettere in moto la reazione a catena che ha portato al bassissimo costo del denaro e alle bolle speculative: dopo l’89 i Paesi ex comunisti e poi anche la Cina e l’India si sono aperti all’economia di mercato alimentando un’enorme offerta di lavoro a basso costo che ha fatto calare il prezzo di prodotti e servizi. Nelle nazioni avanzate questo si è tradotto in maggiore produttività e in minore inflazione, con conseguente riduzione dei tassi. L’ex capo della Fed sostiene anche che, comportamenti spregiudicati a parte, è stato politicamente saggio destinare un elevato volume di risorse al finanziamento dei mutui immobiliari: «La protezione dei diritti di proprietà, colonna portante di ogni economia di mercato, richiede un sostegno politico generalizzato possibile solo se i cittadini diventano in larga maggioranza padroni» della casa in cui vivono o di un patrimonio finanziario.
Quanto al futuro, Greenspan non nasconde di vedere molte nubi all’orizzonte: la produttività ha smesso di crescere al ritmo degli anni scorsi e il costo del lavoro ora sale anche nei Paesi emergenti.
L’inflazione è quindi destinata a riaccendersi. Le banche centrali possono spegnerla con una politica monetaria restrittiva e tassi più elevati, ma in questo modo bloccherebbero la crescita. Quanto all’impatto politico delle memorie di un personaggio che si definisce un repubblicano libertario, è chiaro che ad uscirne male è proprio il partito conservatore che, secondo Greenspan, ha meritato la sconfitta alle elezioni di medio termine e la perdita del controllo del Congresso. Ciò perché ha dimenticato i suoi impegni al rigore dopo l’operazione risanamento fatta da Clinton. A voler dare una lettura sofisticata delle sue parole, comunque, dietro alle critiche a Bush e all’elogio di Bill Clinton, si può leggere, oltre ad un’apertura di credito nei confronti di Hillary, anche un monito a tutti i candidati democratici che rischiano a loro volta di diventare protezionisti, oltre che spendaccioni, sotto la spinta di un Congresso nel quale - nota preoccupato Greenspan - oggi prevalgono le voci populiste.

LA REPUBBLICA, LUNEDì 17/9/2007
dal nostro corrispondente
LONDRA - Quasi due miliardi di sterline, pari a tre miliardi di euro ritirati in quarantotto ore. La previsione che a partire da stamattina, nel giro di una settimana, un totale di quasi venti miliardi di euro, la metà del totale dei depositi, verranno portati via da risparmiatori in preda al panico. La Northern Rock, quinto istituto di credito britannico, vacilla. «Cerchiamo un acquirente, un cavaliere bianco», ammette a malincuore Adam Applegarth, l´amministratore delegato, «sarebbe un supplizio andare avanti così». E potrebbe diventare anche peggio: varie filiali, inclusa quella londinese di Golders Green, hanno chiamato la polizia per calmare la folla che dava l´assalto agli sportelli e minacciava di tirare giù tutto. La Banca d´Inghilterra e Alastair Darling, il cancelliere dello Scacchiere ovvero il ministro del Tesoro, si sforzano di rassicurare l´opinione pubblica: «E´ tutto sotto controllo, la Northern Rock potrà contare su di noi se ne avrà bisogno, tutti riceveranno indietro i propri soldi». Ma bisogna andare indietro di trent´anni per ricordare una crisi di liquidità simile nel Regno Unito: allora fu la Cedar Holding, come la Northern Rock una banca specializzata nella concessione di mutui sulla casa, a trovarsi nei pasticci e l´operazione di salvataggio costò alla banca centrale qualcosa come cinque miliardi di euro odierni.
Il timore vero delle autorità è che il panico sia contagioso: il boom immobiliare dell´ultimo decennio, scrivono i giornali della domenica in prima pagina, «è finito», e una banca che precipita rischia di tirarne giù altre se la gente corre in massa a ritirare i propri risparmi dai conti correnti. Per il momento, gli analisti della City prevedono che ciò non avverrà. Ma qualcosa è cambiato. Il boom dei prezzi delle case appare in declino. I tassi d´interesse, viceversa, puntano al rialzo. I crediti interbancari, con cui le banche hanno finanziato mutui sempre più rischiosi, cominciano a chiudersi. E nell´arena politica, sentendo odore di sangue, si affilano i coltelli. David Cameron, leader dei conservatori, è partito all´attacco con un editoriale sul Sunday Telegraph accusando Gordon Brown, per dieci anni ministro del Tesoro e da due mesi primo ministro, di avere creato una bolla artificiale di ricchezza, basata sul mercato immobiliare e sui prestiti, non sulla produttività reale. «Se la Gran Bretagna non riduce la sua dipendenza dal debito, la crisi della Northern Rock sarà solo la prima di tante», ammonisce Cameron. Il quale fa la Cassandra, naturalmente, per mettere in difficoltà i laburisti di Brown: una crisi economica o perlomeno una sensazione d´incertezza sul futuro sarebbe la sua carta migliore da giocare alle prossime elezioni.
Non è solo sterile polemica, tuttavia, quella del leader dei Tory: il Regno Unito, in questi anni di crescita economica e consumismo alle stelle, è diventato il paese più indebitato d´Europa. Tutti s´indebitano con le carte di credito, mentre pubblicità televisive o avvisi nella cassetta della posta offrono a tutti prestiti di ogni genere, per comprare la casa, per restaurarla, per comprare la macchina, per andare in vacanza. La preoccupazione che questa catena di debiti colpisca la parte più debole e povera della popolazione è reale. Se accadesse, Brown sarebbe in seria difficoltà e l´eredità del blairismo assumerebbe contorni meno sfavillanti. A infuriare ulteriormente i cittadini britannici c´è il gap ricchi-poveri che continua a crescere. Una banca sta rischiando di affondare, la Northern Rock, ma i banchieri se la passano sempre meglio: questa estate i bonus annuali nella City hanno superato per la prima volta la media del milione di sterline, un milione e mezzo di euro a testa, e c´è chi se ne è messi in tasca ben di più. «I am sorry», mi dispiace, piagnucola Adam Applegarth, l´amministratore della Northern Rock, ma intanto i giornali pubblicano le foto della sua lussuosa villa da 4 milioni di euro nei sobborghi più esclusivi di Londra. Tutte le banche britanniche, secondo indiscrezioni, sono interessate a rilevare la Northern: ma prima vogliono che il suo valore, già sceso del 30% in Borsa, cada ancora più in basso. In questa atmosfera, non dovranno aspettare a lungo.

LA REPUBBLICA, LUNEDì 17/9/2007
FEDERICO RAMPINI
L´assalto agli sportelli della quinta banca inglese è un nuovo stadio nell´escalation della crisi finanziaria globale. Quella che all´inizio dell´estate sembrava ancora una malattia prevalentemente finanziaria, e americana, sta cambiando natura. La minaccia si avvicina sempre di più alla situazione economica degli italiani. Può colpire il mercato del lavoro, uccidere una ripresa che era appena avviata. Il nuovo capitolo si è aperto sabato quando lunghe code di risparmiatori hanno assediato la Northern Rock per svuotare i propri depositi e scappare a casa a mettere i soldi sotto il materasso. La Banca d´Inghilterra ha fatto il possibile per rassicurare il pubblico, ma a Londra e nel resto del mondo tutti si chiedono: adesso a chi tocca? Chi può dire di essere al sicuro? Il governatore della Banca d´Italia Mario Draghi, quando afferma che il nostro paese è meno esposto, ha davvero tutte le informazioni su ciò che si nasconde nei bilanci degli istituti di credito? La Banca d´Inghilterra, una delle autorità monetarie più antiche e rispettate del mondo, è stata colta di sorpresa. In precedenza gli scossoni della crisi erano venuti dagli Stati Uniti e dalla componente più speculativa, fragile e malata del sistema finanziario. Da una parte, il crollo del mercato immobiliare americano ha scatenato un´ondata di insolvenze nei mutui a rischio, pignoramenti di case, fallimenti di società finanziarie specializzate nel prestare alle famiglie meno abbienti o più spendaccione. Questo castello di debiti impossibili da ripagare, da anni era stato riciclato su tutti i mercati del mondo. Nuovi strumenti finanziari opachi hanno infilato i «mutui a perdere» nelle obbligazioni e nei fondi d´investimento sottoscritti da banche, assicurazioni, e dalla generalità dei risparmiatori. Fin qui però c´era ancora qualche possibilità di distinguere tra «carta buona» e «cartaccia»: la fuga verso i titoli del Tesoro, verso i vecchi depositi bancari e postali, nel mondo intero offriva un´uscita di sicurezza.
L´implosione della Northern Rock scuote perfino l´ultima certezza.
Qui non siamo di fronte a una banca specializzata nei rischiosi «subprime», i mutui di serie B. Si tratta di un istituto che faceva prestiti a una clientela normale e solvente. L´unica fragilità della Northern Rock è che si finanziava sul mercato interbancario, cioè con i prestiti di altre banche.
Questo mercato si è prosciugato nelle ultime settimane, paralizzato dalla paura.
E´ stato superato l´ambito iniziale della crisi - l´America e i suoi debiti. Entra in gioco una patologia più grave e più diffusa: si azzera la fiducia che alimenta la macchina quotidiana del credito. Il funzionamento dell´economia reale corre pericoli gravi. Quando ogni banchiere osserva il banchiere vicino con sospetto, tratta ancora peggio le imprese che hanno bisogno del credito per investire, esportare, assumere personale. Un mese fa, mentre i mercati cominciavano a percepire degli scricchiolii sinistri, il chief executive della più grande banca americana e mondiale ebbe un´uscita infelice. Chuck Prince, numero uno della Citicorp, usò l´immagine del gioco delle sedie musicali: «Quando la musica cesserà di colpo, in termini di liquidità, sarà un bel guaio. Ma finché la musica suona dobbiamo ballare.
Per adesso stiamo ancora ballando». La musica è finita, e l´impressione è che le sedie su cui poggiare siano sparite tutte insieme.
Ora i mercati mondiali aspettano l´intervento del grande salvatore: la Federal Reserve, la banca centrale americana, domani riunisce il suo direttivo che dovrebbe ridurre i tassi d´interesse. Tutta la finanza globale ha gli occhi puntati su quell´evento. E´ diffusa la speranza che si ripeta il «miracolo» del 1987 e del 1998. Le due ultime crisi finanziarie furono curate con massicce iniezioni di liquidità attenuando le perdite complessive per il sistema. In queste aspettative c´è un misto di ingenuità e di malafede. I «miracoli» del 1987 e del 1998 infatti non avvennero gratis. Salvando i protagonisti più spericolati della finanza, allora la Fed diede un´implicita assoluzione ai loro comportamenti. Gli eccessi di oggi sono figli di quelle indulgenze della banca centrale. L´immagine di indipendenza e autorevolezza della Fed ha ricevuto in questi giorni un duro colpo da colui che la guidò per quasi vent´anni. Il sommo sacerdote del dollaro e dei mercati globali Alan Greenspan, nelle sue memorie ammette candidamente di non aver visto arrivare la crisi dei mutui; e condanna ex post la politica fiscale dell´Amministrazione Bush (che ha accelerato l´indebitamento americano) mentre non aprì bocca quando aveva il potere di modificarla. Il suo successore Ben Bernanke riceve in eredità un esame duro, una prova di alto equilibrismo. Deve fare tutto ciò che è in suo potere per restituire fiducia ai mercati, e rimettere in moto la macchina del credito che si è inceppata. Deve anche lasciare che operi liberamente «l´angelo sterminatore» del mercato: che i peggiori falliscano, e paghino di tasca propria. Un´immensa bolla speculativa accomuna il settore dei mutui, gli hedge fund, il private equity e le banche che ne finanziano maxiacquisizioni in Borsa. Se la bolla non viene incisa dal bisturi della selezione naturale, il suo scoppio sarà ritardato e farà ancora più male.
E´ improbabile che da questa crisi si possa uscire senza ripercussioni severe sull´economia reale. Forse è già troppo tardi perché i tagli d´interesse della Fed riescano a scongiurare una recessione americana. Sul New York Times Floyd Norris ha segnalato la congiunzione di due indicatori che in passato hanno sempre annunciato una recessione: il calo dell´occupazione americana, e la caduta dei rendimenti dei Bot Usa al di sotto dei tassi della banca centrale. L´economia europea già rallenta. Quelle asiatiche non potranno da sole trainare il mondo intero. Le crisi a volte servono: molte istituzioni regolatrici dei mercati nacquero dopo il crac del 1929. Oggi quelle istituzioni hanno bisogno di riforme profonde. Proprio Draghi è stato incaricato dal G7 di preparare un progetto per migliorare la trasparenza dei mercati finanziari mondiali. Il fresco ricordo dei casi Cirio e Parmalat gli saranno preziosi in questa sfida.

LA REPUBBLICA, 17/9/2007
JOHN LLOYD
Mi trovavo in Italia, alla conferenza annuale italo-britannica di Pontignano, vicino a Siena, quando ho letto sui giornali di sabato del rischio di fallimento della Northern Rock, e ho visto le foto che mostravano code simili a quelle che tutti abbiamo visto nelle foto scattate all´epoca del crac borsistico del 1929. Un pensiero mi è passato per la testa: tutti i miei soldi sono in una banca (la Lloyds, una delle banche più grandi del Regno Unito, fondata due secoli fa da una famiglia con cui, nonostante l´omonimia, ahimé, non sono minimamente imparentato). Se questa banca fallisse, mi ritroverei povero. Magari, appena torno in patria, faccio un salto dalla Lloyds e ritiro i miei soldi.
Il pensiero, però, è durato poco, perché quello successivo è stato: se anche tutti gli altri ritirassero i loro soldi, sarebbe davvero di nuovo come nel 1929. E gli economisti ci hanno rassicurato, nelle ultime tre settimane in cui i mercati finanziari hanno mostrato segnali di nervosismo acuto, che non c´era nessuna ragione concreta per aver timore, che le economie occidentali erano fondamentalmente sane, che sì, si era dovuto mettere un freno ai prestiti ad alto rischio, ma che era una correzione da tempo che sarebbe dovuta arrivare già da molto tempo. Dato che scrivo queste righe di domenica pomeriggio, spero che anche i miei concittadini ci abbiano pensato su, e che questa mattina non ci saranno code fuori dalle banche e la paura non si sarà trasformata in crisi.
I britannici vanno orgogliosi delle loro banche. La Banca d´Inghilterra, non più controllata dal governo, fu la prima banca nazionale del mondo e, insieme alle banche commerciali fondate nel XVIII e nel XIX secolo, rappresento un segno di rispettabilità e di sicurezza, uno dei fattori che concorrevano a definire l´identità della prima nazione capitalistica che viveva di industria manifatturiera e di commercio. I banchieri non godevano generalmente di buona fama in letteratura – la figura di Bulstrode tratteggiata da Charles Dickens in Tempi difficili era un personaggio ipocrita e avido – ma nella vita reale di loro generalmente ci si fidava.
Al tempo stesso, però, adesso i britannici hanno il più alto livello di indebitamento personale tra i Paesi del continente europeo. Il vecchio stereotipo del suddito di sua maestà – razionale, prudente e misurato – fa a pugni con un presente in cui i britannici, sotto molti aspetti, sono il popolo meno misurato d´Europa: i più inclini a ubriacarsi, ad avere famiglie monoparentali, ad indebitarsi. La Gran Bretagna è, come tutti i Paesi ricchi, un Paese in cui l´economia è trainata dall´alto livello dei consumi. La crescita relativamente alta degli ultimi quindici anni, incoraggiata dai media e dalle molte migliaia di ricchissimi presenti oggi nel Paese, a Londra in particolare, ha creato uno stile di vita che si avvicina, più che in qualsiasi altro Stato europeo, a quello americano, con tendenza a spendere molto e a indebitarsi.
I britannici hanno un problema specifico: le case costano di più che in qualsiasi altro Paese europeo, e la maggior parte delle persone comprano la casa in cui vivono. Se la comprano accendendo un mutuo, con società come la Northern Rock: e, come negli Stati Uniti, le compagnie edilizie che prestano soldi a quelli che vogliono acquistare una casa hanno cominciato a chiedere sempre meno garanzie, il che significa che il reddito necessario per comprare una casa è diventato sempre più basso. Nel Sudest del Paese, dove c´è la crescita più sostenuta e i redditi più alti, le tante persone che hanno uno stipendio basso scoprono che perfino case piccole nei quartieri poveri delle città costano cifre ben superiori ai 150.000 euro: chiedono un prestito per comprare queste case e poi si ritrovano nell´impossibilità di rimborsarlo. Nel corso della settimana passata, i media britannici sono stati invasi da interviste a gente che confermava quanto fosse facile ottenere un prestito, quanto fosse facile ritrovarsi nei guai e quanto fosse difficile a quel punto ottenere aiuto.
Il problema non scomparirà. Gli individui a basso reddito, disoccupati o con un impiego mal retribuito, si trovano ora in grande difficoltà. Mentre i grandi calciatori sono multimilionari, i ragazzi e le ragazze che magari sono cresciuti ammirandoli e che hanno lavori malpagati e non riescono a trovare di meglio ora vedono i loro stipendi scendere o rimanere bloccati, in parte per la concorrenza degli immigrati dell´Europa orientale, in parte perché la tecnologia ha eliminato molti dei lavori meno pagati, in parte perché i lavori ben pagati nell´industria manifatturiera sono scomparsi.
Questa categoria di poveri è difficile da ridurre, e le loro aspirazioni a vivere una vita soddisfacente sul piano materiale, come quella che vedono tutto intorno a sé, li spinge a indebitarsi e ad affogare nei debiti. Li si può aiutare – sono loro, in Gran Bretagna, che hanno beneficiato dell´introduzione di un salario minimo – ma fino a un certo punto. Sono i punti deboli del sistema finanziario: la principale causa di turbolenze nel mercato, uno dei più grandi problemi sociali che ci troviamo di fronte nel mondo industrializzato. I loro problemi adesso sono i nostri problemi. E se i loro problemi si trasformano in panico, anch´io finirò col mettermi in fila davanti a una banca che ha il mio nome, e che ha i miei soldi.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

CORRIERE DELLA SERA, MARTEDì 18/9/2007
MONICA RICCI SARGENTINI
DAL NOSTRO INVIATO
LONDRA – Un lunedì di passione per l’economia britannica. I mercati, anche europei, ieri hanno guardato con grande apprensione le lunghe file di persone davanti alle filiali della Northern Rock, investita da una crisi di liquidità che l’ha portata a chiedere aiuto alla Banca d’Inghilterra. Per il terzo giorno la gente ha continuato a ritirare i propri risparmi al grido di «questa volta li metto sotto il materasso». Due miliardi di sterline (tre miliardi di euro) hanno già lasciato le casse del quinto istituto di credito del Paese, l’8% dei soldi depositati dai risparmiat ori nei conti correnti. Un’emorragia meno copiosa di quanto temessero alla City, anche se il titolo della Northern, specializzata nella concessione di mutui per la casa, ieri ha perso il 35,4%. La crisi ha investito anche altri due istituti bancari dalle caratteristiche simili: la Alliance & Leicester che ha chiuso con una perdita del 31,3% e la Bradford & Bingley con il 15,4%. Un segnale negativo che ha fatto tremare Downing Street, dove si temeva l’effetto domino. Ma finora non sembra che i clienti delle altre banche siano corsi a ritirare i propri risparmi. Anzi Barclays e Hbos, il terzo e il quarto istituto britannico dopo Hsbc and Royal Bank, hanno assicurato di aver avuto più clienti del normale. «Il flusso di denaro è sopra la media», ha detto il portavoce della Hbos Andrew McDougall. Ieri il Santander, che controlla Abbey National, ha dichiarato di non essere preoccupato.
Ma la situazione rimane critica. Tanto che, ieri sera, Alistair Darling si è sentito in dovere di intervenire nuovamente per rassicurare i cittadini. «Il governo britannico garantirà la totalità dei risparmi della clientela Northern Rock», ha detto il Cancelliere dello Scacchiere dopo aver incontrato il premier Gordon Brown e il ministro del Tesoro americano Hank Paulson che ieri è arrivato a Londra per discutere della crisi innescata dai mutui subprime. «Questo significa – ha aggiunto Darling – che la gente può continuare a prelevare i propri risparmi, ma se sceglie di lasciarli presso la Northern Rock saranno garantiti».
Anche le agenzie di rating hanno certificato la crisi con il loro intervento. Ieri Fitch ha declassato da «A» ad «A-» il rating a lungo termine di Northern Rock, ma allo stesso tempo ha deciso di aumentare da «BB+» ad «A-» il cosiddetto «rating di supporto» proprio per il sostegno offerto all’istituto dalla Banca d’Inghilterra tramite la concessione di una linea di credito d’emergenza. Ma molti a Londra accusano il governatore della Boe Mervyn Allister King di essere intervenuto troppo tardi. L’esempio da seguire, secondo gli analisti, era quello della Banca Centrale Europea che, subito dopo la crisi dei subprime, ha fornito denaro alle banche con un’asta ben sette volte.
Ora cosa ne sarà della Northern Rock? Le voci di una vendita, o di una fusione, si rincorrono. Ieri sera la Bbc parlava di un interesse da parte di Rsb e Lloyds Tsb, quest’ultima era già in trattative per l’acquisto prima dell’estate. La banca, in un comunicato, ha ammesso di stare valutando «tutte le opzioni strategiche nell’interesse degli azionisti e dei clienti». E ha lanciato una campagna mediatica per riconquistare la fiducia dei risparmiatori. Oggi su molti giornali britannici comparirà una pagina di pubblicità. Il messaggio: «Sono stati giorni difficili ma la Northern Rock non vi abbandonerà ».
La crisi ha colpito un po’ tutta l’Europa. A Londra l’indice Ftse 100 ha perso l’1,6%, il Dax 30 di Francoforte ha lasciato sul terreno lo 0,24%e il Cac 40 di Parigi ha ceduto l’1,8%. In Italia, l’indice Mibtel ha chiuso con un meno 1,13%. In discesa i titoli bancari. Intanto cresce l’attesa per la decisione della Fed che oggi dovrebbe tagliare di almeno un quarto di punto i tassi.

LA REPUBBLICA, MERCOLEDì 19/9/2007
ARTURO ZAMPAGLIONE
NEW YORK - «E´ un giorno cruciale per l´economia, tutti gli occhi sono puntati sulla Federal Reserve», avvertiva ieri mattina la Merrill Lynch, mentre Wall Street aspettava la decisione sui tassi di interesse con un misto di nervosismo e ottimismo. Alle 14.15, cioè le 20.15 ora italiana, è arrivato il comunicato della svolta. Per la prima volta dal giugno del 2003, il presidente della Fed Ben Bernanke e i suoi colleghi del Fomc, il comitato del credito della banca centrale americana, hanno abbassato il costo del denaro. Una riduzione consistente - mezzo punto - con l´obiettivo di limitare i danni dei mutui subprime e i rischi di una recessione.
I tassi sui Fed funds, cioè sui prestiti, interbancari a breve sono così passati dal 5,25 al 5 per cento. Il tasso di sconto è sceso al 5,25. I mercati, che si aspettavano una flessione di un quarto di punto in linea con il «gradualismo» di Alan Greenspan, sono rimasti sorpresi dalla prontezza e aggressività di Bernanke.
In teoria la mossa della Fed poteva fare pensare a una crisi dell´immobiliare più profonda del temuto, ma gli investitori di Wall Street hanno preferito scommettere sull´efficacia della manovra e sui positivi effetti psicologici. E in pochi minuti l´indice Dow Jones ha guadagnato 200 punti.
Da oggi sarà meno caro per gli americani pagare i mutui e indebitarsi con le banche per l´acquisto di un´auto. E le imprese avranno più soldi da investire, creando posti di lavoro. Il rischio, ovviamente, è che tutto ciò faccia crescere l´inflazione. Ad eccezione delle piazze asiatiche, tutte in ribasso, le Borse mondiali si sono preparate all´annuncio della Fed con rialzi generalizzati. Milano ha chiuso a +1,59 per cento, Londra +1,63, Francoforte a +1,27, Parigi a +2,02.
Poco prima dell´ora X il Dow Jones guadagnava 80 punti: un comportamento insolito - di norma è stazionario alla vigilia delle riunioni del Fomc - legato soprattutto ai risultati trimestrali della Lehman Brothers, una delle banche più coinvolte nei mutui subprime, i cui utili sono diminuiti di appena il 3,2 per cento, molto meno del temuto. Il Dow Jones ha chiuso a quota 13.739 con un aumento del 2,5%, il più consistente dal 2003 e l´oro è volato ai massimi degli ultimi 28 anni toccando 733,40 dollari l´oncia.
I mercati finanziari hanno anche snobbato il petrolio, che proprio ieri ha registrato un nuovo record storico, superando gli 82 dollari al barile per la prospettiva di una forte domanda americana nei mesi invernali, cui potrebbe non corrispondere una offerta adeguata.
Intanto i contraccolpi della crisi dei mutui subprime sull´economia mondiale hanno portato il Fondo monetario internazionale a ridimensionare le previsioni di crescita per il 2008 non solo negli Stati Uniti ma anche, sia pure in misure più ridotta, per la zona dell´euro. Secondo una bozza dell´Economic Outlook, il rapporto degli esperti del Fondo che sarà pubblicato tra poche settimane, il Pil americano salirà l´anno prossimo del 2,2 per cento, e non del 2,8 come promettevano le proiezioni dei mesi scorsi. In Europa ci si assesterà sul 2,3 per cento: un po´ meno del 2,5 previsto nel passato.
Anche l´Italia paga uno scotto, come hanno già anticipato il ministro dell´Economia Tommaso Padoa-Schioppa e il governatore della Banca d´Italia Mario Draghi. La bozza del Fondo monetario, infatti, pur lasciando invariati i livelli di crescita di quest´anno (1,8 per cento), riduce quelli del 2008 dal 1,7 al 1,6 per cento. Mostra anche che il rapporto deficit/Pil sarà del 2,2 per cento nel 2007 e del 2,3 l´anno prossimo.

CORRIERE DELLA SERA, MERCOLEDì 19/9/2007
MASSIMO GAGGI
NEW YORK – L’economia Usa ha la febbre e la Federal Reserve, tagliando i tassi di mezzo punto, le somministra una medicina da cavallo con molti effetti collaterali indesiderati: dall’abbassamento delle difese contro l’inflazione al rischio che i mercati considerino il calo del costo del denaro una mezza «amnistia» per i finanzieri più spregiudicati, arrivati alla resa dei conti con la crisi dei mutui «subprime ». Wall Street festeggia: pochi secondi dopo la decisione della Banca centrale Usa l’indice Dow Jones si impenna di oltre 200 punti, mentre Jim Cramer – popolarissimo e pittoresco conduttore della rubrica «Mad Money» (denaro pazzo) della rete televisiva Cnbc – s’inginocchia con le braccia levate al cielo: «Sul mercato azionario torneranno i compratori, le famiglie consumeranno di più, l’economia riprenderà fiato: questa non è una buona notizia, è manna dal cielo».
Ma dietro questa fiammata euforica c’è la realtà di una Fed che fino a qualche settimana fa era decisa a non ridurre il costo del denaro e che invece è stata costretta a farlo e in misura molto consistente: cosa che, date le circostanze, la lascia con ben poche munizioni da usare in caso di un ulteriore avvitamento della crisi.
Ben Bernanke, che un anno e mezzo fa, ereditando da Alan Greenspan la guida della Banca centrale, si era dato l’obiettivo di rendere la politica monetaria più trasparente, prevedibile e comprensibile, si ritrova oggi a governare la moneta con i colpi di scena.
Davanti a una crisi attesa da molti, ma che ha sorpreso tutti per il modo in cui si è presentata e per la sua complessità, Bernanke non ha certo tirato i remi in barca: ha imposto ai direttori della Fed (alcuni dei quali ancora sabato scorso dicevano di voler lasciare i tassi invariati) un intervento che, favorendo un ulteriore indebolimento del dollaro, fa pagare buona parte del conto della crisi all’Europa che esporta, agli investitori asiatici e mediorientali che hanno i forzieri pieni di biglietti verdi e anche ai consumatori americani che, da un lato, vedono ridursi il costo dei loro debiti, dall’altro pagheranno di più per la benzina e gli altri prodotti d’importazione.
Ora l’America corre un grosso rischio: l’inflazione in questo momento sembra sotto controllo, ma con il petrolio di nuovo a livelli record, l’economia cinese surriscaldata (prezzi che corrono al 6,5 per cento) e le materie prime sotto pressione (quelle agricole risentono dell’accresciuta domanda del mercato asiatico, mentre sui cereali si è abbattuto l’effetto «biofuel »), una fiammata può essere dietro l’angolo.
Bernanke ne è consapevole, ma alla fine ha scelto la via che era stata indicata anche dall’altro «grande vecchio» della scienza economica americana: quel Martin Feldstein che molti consideravano il successore «naturale» di Greenspan e che nei giorni scorsi aveva sostenuto la necessità di un taglio «aggressivo » dei tassi, riconoscendo che ciò potrebbe favorire una ripresa dell’inflazione, ma aggiungendo che, oggi, questo è il minore dei mali.
Ecco il nodo: il rischio di un avvitamento della crisi. Chi pensa che Bush abbia scelto Bernanke perché più «malleabile» di Feldstein, oggi penserà che, tagliando i tassi, la Fed ha fatto un favore alla Casa Bianca e ai repubblicani che, dopo otto anni di governo, vorrebbero evitare di andare alle elezioni con le famiglie, che sono state spinte da Bush a comprarsi la casa, «impiccate» ai loro debiti. In realtà la Fed voleva soprattutto evitare di fare un regalo agli speculatori; ha deciso di agire 10 giorni fa quando i dati dell’occupazione hanno presentato – per la prima volta negli ultimi quattro anni – il segno meno. Nei giorni successivi quasi tutti i centri di analisi (e lo stesso Greenspan) hanno segnalato un aumento del rischio di recessione.
La Fed ha quindi deciso di intervenire per contrastare la trasmissione del «contagio» finanziario all’economia reale. Certo, con gli strumenti limitati che può mettere in campo, Bernanke non è in grado di invertire le tendenze né di risolvere la crisi dei mutui, ma può ridare fiducia alle banche e cerca di evitare nuove crisi di liquidità che potrebbero diventare l’incidente capace di trasformare una bassa crescita in una recessione. Al tempo stesso cerca di spingere un Paese che vive da anni al di sopra dei suoi mezzi, verso un riequilibrio doloroso ma inevitabile: meno importazioni, più export e riduzione dei posti di lavoro nelle imprese che si ristrutturano per divenire più competitive.
E’ un tentativo di riprendere il cammino che merita l’attenzione di un Paese come l’Italia che, mentre attorno tutto cambia, è ancora una volta tentato di restare a braccia conserte, soddisfatto di essere solo sfiorato dalla crisi dei mutui «subprime».
Che, oltretutto, facilita la raccolta di risparmio per finanziare il nostro enorme debito pubblico.

CORRIERE DELLA SERA, 20/9/2007
MARCO MARONI
MILANO – Sono bastate due buone notizie dall’America: il taglio dei tassi e i alcuni bilanci trimestrali bancari meno peggio del previsto, per far ripartire a razzo le Borse. Ieri Milano ha registrato il maggior rialzo dall’inizio dell’anno: più 2,1%, una crescita di quasi il 4% in due giorni. Francoforte è salita del 2,3%, Parigi del 3,3%, Londra del 2,8%. Wall Street è salita dello 0,4% dopo il 2,5% di martedì. Sono state comprate soprattutto azioni delle banche, che erano state le più penalizzate, a causa delle perdite legate alle cartolarizzazioni dei mutui americani e per la conseguente crisi di liquidità.
«Un dato importante è il risultato trimestrale di Lehman Brothers, in calo ma meno delle attese – dice Gianluca Verzelli, direttore sviluppo e investimenti di Bnp Paribas Banque Privée – se si aggiunge il taglio dei tassi, il buon dato sull’inflazione americana (prezzi alla produzione scesi dell’1,4% ad agosto
n.d.r.) e il fatto che non ci sono reali avvisaglie di recessione, si capisce la maggiore distensione degli animi ».
Sullo sfondo i problemi però rimangono. Il taglio della Fed dello 0,5% (il consensus era dello 0,25%) indica che il problema della liquidità è preso molto sul serio. Il taglio ha fatto scivolare ulteriormente il dollaro, ora ce ne vogliono 1,4 per comprare un euro. In Europa, dove la Bce ha lasciato invariati tassi che sembravano destinati a un rialzo, il differenziale tra il tasso interbancario Euribor e il tasso Bce, un termometro della crisi, ieri era ancora dello 0,73% (normalmente è attorno allo 0,20%) segno che le banche non si fidano a finanziarsi l’un l’altra.
Il presidente dell’Associazione bancaria, Corrado Faissola, ieri ha lanciato un messaggio tranquillizzante: «I gruppi bancari italiani hanno escluso una crescita delle rate impagate per i mutui di entità significativa ».
Il problema è che le dinamiche ormai sono globali e che la crisi in europa non riguarda tanto i mutui, quanto i titoli derivati extrabilancio, difficili da valutare per gli stessi banchieri. Sempre ieri, il commissario Ue per il mercato interno, Charlie McCreevy, ha detto che indagherà su come alcuni prodotti e titoli finanziari sono stati «impacchettati» in modo da sfuggire agli obblighi di trasparenza europei.

CORRIERE DELLA SERA, GIOVEDì 20/9/2007
BERLINO – I giorni dell’incertezza sono quelli durante i quali un banchiere centrale vorrebbe essere rimasto impiegato di banca. O professore all’università. Probabilmente era questo il sentimento di Ben Bernanke, il presidente dell’americana Fed, quando martedì ha incrociato le dita e tagliato i tassi d’interesse.
Ed è lo stato d’animo che deve avere anche Jean-Claude Trichet, il capo della Banca centrale europea, che il 4 ottobre dovrà decidere se seguire il sentiero americano oppure tenere le posizioni, pensare alla lotta all’inflazione prima di tutto e non muovere niente. Anche lui incrocerà le dita.
Il fatto è che, in questo momento, Trichet e la Bce sono il punto di riferimento più credibile per i mercati, sono l’unica istituzione che non è ancora vacillata sotto i colpi della crisi internazionale del credito. Bernanke, di fronte ai primi segni
Il tasso di riferimento fissato dalla Bce
di panico sul mercato, ha ribaltato la politica di rialzo dei tassi dei mesi precedenti e ha segnalato di non avere letto bene la situazione. Il governatore della Bank of England, Mervin King, è stato addirittura costretto a un cambio di direzione sconcertante, oltre che umiliante: dopo avere sostenuto che non avrebbe messo a disposizione delle banche alcuna linea di credito facilitata, per non favorire gli azzardi di chi ha speculato e sbagliato, è prima corso in salvataggio della Northern Rock e poi ha deciso di immettere liquidità nel sistema. Una reputazione crollata in pochi giorni.
Ora, è il momento di Trichet di leggere le foglie di tè sul fondo della tazza. Oggi e domani, a Francoforte, si celebra il 50˚anniversario della nascita della Bundesbank, la gloriosa banca centrale tedesca sul cui modello è stata costruita la Bce: parleranno in molti, compreso il suo attuale presidente, Axel Weber, ma il discorso più atteso è quello di Trichet. Non dirà nulla sulla direzione che prenderanno i tassi europei. Ma, forse, dirà la sua sulla domanda del momento: abbiamo cambiato stagione? Le forze che hanno tenuta bassa l’inflazione negli ultimi anni hanno messo la retromarcia?
Il periodo straordinario di crescita e basso aumento dei prezzi, che ci accompagna dagli anni Novanta, è alla fine? Questa è la tesi di Alan Greenspan, il semidio che ha guidato la Fed tra il 1987 e l’anno scorso. A suo parere, le forze benigne della globalizzazione, dell’innovazione tecnologica e degli aumenti della produttività hanno creato un lungo periodo di crescita economica senza inflazione e di gonfiamento dei prezzi dei beni mobili e immobili. Bene, Greenspan sostiene che questa fase è finita. E che i primi a dovere fare i conti con il nuovo mondo della finanza internazionale, ovviamente, saranno i banchieri centrali, che si troveranno di fronte a un dilemma dal quale il clima favorevole dei due decenni passati li aveva assolti: se si stringono troppo i tassi, rischiano di innescare una seria recessione, se li tengono bassi, rischiano di gonfiare l’inflazione e di dovere somministrare una cura più dura in futuro.
Per ora, Trichet si è riferito alla crisi come «una correzione di mercato che ha episodi di volatilità». Vedremo se, in casa della banca centrale più ossessionata dal pericolo inflazione, dirà qualcosa che va oltre l’incertezza. E oltre Greenspan.







• Tra poco le Giunte delle Camere risponderanno alla richiesta milanese d´usare dialoghi intercettati, dove figurano parlamentari d´ambo le sponde, negli affari Unipol e Bpi. Caso grosso nella commedia politica e siccome se ne parla in varie chiavi, talvolta capziose, inquadriamolo. Gli artt. 3, 5, 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 (già dichiarata invalida nel punto concernente un´immunità dei presidenti) appartengono alla cabala reazionaria su cui Licio Gelli rivendicava spiritosamente diritti d´autore: idee esposte nel «Piano d´una rinascita democratica», anno 1976, rifioriscono in aria bicamerale attraversando l´età berlusconiana; sia detto en passant, sta consumandosi il primo terzo della legislatura e i vincitori conservano quegl´indecorosi monumenti, dal falso in bilancio impunito alla prescrizione delittofaga. L´art. 68 Cost. ignorava l´argomento. Riformulato dalla l. 29 ottobre 1993, privilegia i parlamentari subordinando l´intercettazione al voto della Camera in cui siedono: tanto vale impedirla; chi sa d´essere ascoltato misura le parole. Ma talvolta restano impigliati frequentando linee altrui, forse convinti d´essere exceptae personae, quindi invulnerabili. Nella disciplina attuale, grossolanamente lesiva d´interessi tutelati dalla Carta (presto interloquirà la Consulta), l´uso dei reperti dipende da Montecitorio o Palazzo Madama: nel caso d´un rifiuto vanno distrutti; è roba non valutabile, tale dichiarata «in ogni stato e grado». Ad esempio, un boss garrulo, come non credo che siano (chiamiamolo N), racconta d´avere commesso varie imprese delittuose fornendo ogni particolare: il pubblico ministero cercava le prove; ecco una magnifica confessione ma sfuma se tra i dialoganti figura P, eletto dal popolo, e la Camera risponde «no»; ricevuta da R, privo del carisma elettorale, la stessa confidenza manda N all´ergastolo. Inutile dire perché norme simili siano invalide (art. 3 Cost.). I termini del caso. Pare che il silenzio non sia più d´oro: finanzieri rossi da corsa ciarlano con punte d´imperioso turpiloquio; santoni d´alta politica straparlano, cantano, sognano. L´ufficio requirente ha sotto mano 68 dialoghi, utili alla prova dei reati su cui indaga: sinora teneva fuori gli onorevoli collocutori ma nella richiesta ventila l´intento d´estendere i bersagli secondo quanto risulta dai discorsi captati; non era rivolta direttamente al Parlamento; vi provvede il giudice qualora sia d´accordo (così vuole quel pastiche dell´art. 6, c. 2, sperando che le due teste divergano); e un´ordinanza chiede il placet. Sarebbe cautela sorniona non fiatare sugli «unti», colpendoli poi se la risposta è affermativa. Il gip batte la via opposta: lancia l´en garde prospettando possibili imputazioni; a suo avviso, i parlamentari de quibus concorrono nel reato. Scrivendolo usurpa i poteri d´un pubblico ministero? No, l´atto vale quale denuncia. Iscrittala nel registro, l´organo requirente deve indagare: alla fine chiederà il processo o un responso che lo esima dall´agire; il verbo tecnico è «archiviare»; e qualora tale richiesta sia respinta, su ordine del giudice formula l´imputazione. Le prospettive. Cominciamo dall´eventualità preferibile, che Camera e Senato votino un sì pieno. Se è permesso dirlo, al posto degl´interessati, mi spoglierei del residuo obliquo d´una malfamata immunità. Meglio tardi che mai e sarebbe mossa giudiziosa. Supponiamo che le Giunte ringhino «no»: dove circola odore d´affarismo, è inelegante acquattarsi sotto ali berlusconiane (prova generale d´una «larga intesa»); e quanto dura lo scudo? Poco, vista l´alta probabilità che anche questo sgorbio normativo sia dichiarato invalido. Seconda ipotesi e «distinguo» perverso: sta bene usare i dialoghi galeotti, solo però rispetto ai parlanti senza qualifica parlamentare; esito tecnicamente possibile, sebbene stupisca i profani dotati d´istinto logico e sentimento morale. Ogni tanto capita: la prova risulta bene acquisita nei confronti d´uno o alcuni tra più imputati; tamquam non sit contro gli altri. Sarebbe gesto poco lodevole in sede etica, politica, estetica, ma siamo in piena teratologia (lo studio dei mostri). Nel 1642 Nicola Tibaldo, bolognese, stampa una «Monstrorum historia» che Bartolomeo Ambrosino ha raffazzonato nel lascito d´Ulisse Aldrovandi, decorata d´orrende tavole: vitelli o suini dal capo umano, l´ermafrodito con quattro teste e altrettante gambe, «foetus bicorpor humanus et caninus», ecc.; l´art. 6 è fenomeno giuridicamente mostruoso. Stiamo enumerando i possibili epiloghi nella scala del via via più abnorme. Il terzo è un voto negativo tout court: al diavolo dischi, nastri, verbali, tabulati, testi trascritti ecc.; siano distrutti, come se nel luglio 2005 nessuno degli allegri collocutori avesse mai emesso sillaba; l´accaduto è intangibile nel mondo fisico ma diritto e storiografia servile lo cambiano dal nero al bianco. Il rischio è che l´impostura duri poco, il tempo d´un vaglio della legge, troppo invalida, e tale sia dichiarata prima che i reperti vadano in cenere. Quarto e ultimo scalino, una fin de non recevoir: la Camera restituisce gli atti al mittente senza degnarlo; perché? Lo spiega uno degl´interloquenti d´allora, con argomenti che desterebbero l´interesse d´Ulisse Aldrovandi e Bartolomeo Ambrosino se fossero anche gius-teratologhi. Vediamone tre. Quel gip è acrimonioso. In 57 anni d´esperienza, contandoli dalla laurea, non avevo mai sentito dire che l´«amor rei» sia requisito dei provvedimenti giudiziari; ha scritto quel che, a torto o ragione, diagnosticava. Suona come una sentenza, esclamano anime sensibili, sdegnate. No, è un enunciato fallibile. Il giudizio li vaglia. Lamenti simili ricorrevano nell´aggressiva querimonia berlusconiana. Secondo, s´è arrogato poteri alieni. Nossignori, l´abbiamo visto: semmai esagera nel fair play scoprendo le carte; se però tacesse sui quasi intoccabili, la riserva mentale sarebbe trasparente, col pericolo che lo schieramento soi-disant garantistico opponga un rifiuto indiscriminato mandando in fumo la prova. Lasciamo da parte le questioni d´enfasi: le style c´est l´homme; davanti a platee iraconde la prudenza consiglia toni sfumati ma l´ira scoppierebbe egualmente. L´ultima doléance suona vaniloqua, se i resoconti sono esatti: che il gip sotto banco chieda un´autorizzazione a procedere, non essendo più nel potere delle Camere concederla; no, mon Dieu; chiede l´assenso all´uso della prova; e qualora gl´interpellati definiscano «irricevibile» la richiesta, nasce un conflitto tra poteri dello Stato, risolubile dalla Consulta. Infine, il resistente accetta qualunque delibera della Giunta (formula vacua, non essendo sindacabili tali voti), ma confida che le sue «riflessioni siano valutate con rigore». l´opposto della virtuosa sottomissione al processo eventuale. Qui l´analisi diventa antropologica e politica. Stiamo a vedere.
• La terra trema ormai sotto i piedi della Casta. Per la prima volta il popolo bue la minaccia davvero. Finora i signori del potere se ne sono infischiati della rabbia crescente di un elettorato che si sente irretito nell’impotenza (a dispetto dei rombanti discorsi che lo proclamano, poverello, sempre più sovrano). Ma ecco che, inaspettatamente, Beppe Grillo entra nella tana del nemico e, alla festa dell’Unità di Milano, spara a mitraglia contro gli ottimati Ds. Fino a meno di un anno fa Grillo sarebbe stato subissato dai fischi; invece, è stato subissato da applausi. Un episodio che richiama alla mente la caduta della Bastiglia. Di per sé quell’evento della rivoluzione francese fu un nonnulla; ma ne divenne il simbolo. Forse sto forzando troppo i fatti. Forse. Vediamo perché. Intanto, e in premessa, cosa si deve intendere per «antipolitica »? La dizione è ambigua: sta per «uscire» dalla politica, estraniarsi; oppure per «entrare» a tutta forza nella politica per azzerarla (il caso di Grillo). Ciò premesso, le novità sono due. Primo, Grillo entra in politica avendo prima creato una infrastruttura tecnologica di supporto e di rilancio: Internet, blog, e un radicamento territoriale assicurato, ad oggi, dai 224 meet up (gruppi di incontro) che in un giorno raccolsero 300 mila sottoscrittori per una legge di iniziativa popolare. Ora, né la satira politica di altri bravissimi comici (Luttazzi, per esempio), né i girotondini hanno mai dispiegato un armamentario del genere. Dal che ricavo che misurare la forza di Grillo con riferimento ai suoi predecessori sarebbe una grave sottovalutazione. Secondo. Grillo ci sa fare. Non propone un nuovo partito (il 32˚, come ironizzano a torto gli altri 31), ma un movimento spontaneo che li spazzi tutti via. Inoltre ha messo subito il dito sul ventre sensibile della Casta: il controllo dei voti. Se vogliamo davvero sapere quale sia lo stato di putrefazione del Paese, la fonte non è Grillo ma il libro La Casta di Stella e Rizzo. Quel libro ha venduto un milione di copie – un record di successo mai visto – eppure non ha smosso nulla. Gli italiani dovrebbero esprimere la loro protesta «razionale» continuando a comprarlo. Ma anche così dubito che la Casta ascolterebbe. Perché Stella e Rizzo non controllano voti. Invece Grillo sì. Lo ha già dimostrato e si propone di rincarare la dose al più presto. Per le prossime elezioni amministrative Grillo sosterrà liste civiche spontanee «certificate » (da lui) che escludano iscritti ai partiti e personaggi penalmente sporchi. Ne potrebbe risultare uno tsunami. Anche perché il grillismo capitalizza, oggi, sulla retorica (ipocrita) di esaltazione dello «spontaneismo» dispensata da anni sia da Prodi come da Berlusconi. Hegel elogiava la guerra come un colpo di vento che spazza via i miasmi dalle paludi. Io non elogio la guerra, e nemmeno approvo le ricette politiche «al positivo» del grillismo (a cominciare dalla stupidata della ineleggibilità di tutti dopo due legislature; stupidata che l’oramai infallibile incompetenza del nostro presidente del Consiglio ha già approvato). Ciò fermamente fermato, confesso che una ventata – solo una ventata – che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili.
• «Ma perché, c’è qualcuno convinto che Beppe Grillo sia un bravo attore? Ma va...Impossibile. Tra l’altro lui capì proprio durante le riprese del mio film che recitare non era pane per i suoi denti. E Coluche forse gli ispirò la strada alternativa: fare il capopopolo ». Dino Risi, a 91 anni, non si smentisce. Il regista risponde al telefono dalla sua casa in un residence nel centro di Roma, proprio davanti al Bioparco, dove vive solo, e felice. «Ormai è mia, senza il disturbo di parenti o amici e senza le noie del condominio». E anche se con il comico genovese non si vedono dai tempi di «Scemo di guerra» – il film del 1985 nel quale Risi diresse lui e il francese Coluche ”, del «fenomeno Grillo», manco a dirlo, sa tutto.
Dino Risi, 91 anni, ha diretto Beppe Grillo e Coluche nel 1985 in «Scemo di guerra», ispirato a un romanzo di Mario Tobino«Ho letto i giornali: parlano solo di lui». A quella pellicola, invece, è legato il ricordo di un tragico flop: «Fu un insuccesso sia in Italia sia in Francia. Ma peccato, perché era molto carino, invece non fu capito. E pensare che il libro da cui fu tratto, "Il deserto di Libia" di Tobino, sceneggiato da Age e Scarpelli, è tra quelli che ho più amato...».
Di quella regia, però, Risi conserva anche ricordi divertenti. Come del giovane esordiente Grillo: «Ragazzo bruttarello ma simpatico. Ai tempi era la giovane promessa dello spettacolo italiano. Lo ammiravo per le cose che faceva in tv, e per questo lo scelsi. Però mai avrei immaginato che fosse così negato a recitare. Anche Beppe, a dire il vero, comprese presto che il cinema non era per lui. In compenso si capì subito che puntava a diventare personaggio, che aveva altre ambizioni. E forse, ripeto, fu proprio Coluche a ispirarlo: lui in Francia era già un idolo per tutti. Era considerato il castigatore dei politici, tanto che poi si candidò alla presidenza della Repubblica. Un personaggio strepitoso. Adoravo le sue cene nel palazzo di Parigi: c’era di tutto e di tutti, anche la pista di cocaina come segnaposto». Una simpatia, quella di Risi per Coluche, che indispettì proprio Grillo: «Già depresso perché ridotto al ruolo di spalla, Beppe a un certo punto si ingelosì del rapporto speciale che avevo con Coluche. E così, per ripicca, fece la mossa classica dell’attore indispettito: si diede malato. Per due mesi dovemmo sospendere le riprese. Finché qualcuno non gli fece sapere che se non fosse tornato avrebbe dovuto pagare una penale. Parola magica: da buon genovese si ripresentò sul set». Ma i due, racconta Risi, andavano molto d’accordo: «Grillo aveva un rispetto enorme per Coluche. Ne riconosceva la grandezza artistica».
La carriera di Grillo, da quell’esperienza nel 1985, Risi l’ha seguita a distanza: «Un percorso interessante. La cosa che gli è riuscita meglio è la sua svolta antipolitica: è più attore oggi che fa politica di quando tentava di far l’attore. Credo guadagni un sacco di soldi, adesso. Attenzione, però: non c’è niente di Grillo nel personaggio che interpreta». Per Risi, cioè, «il suo diventare un antipolitico non coincide con il vero Beppe. Ai tempi, non mi è mai sembrato uno interessato a questi temi, per intenderci ».
Insomma, per Dino Risi il suo ex attore giovane è soprattutto uno furbo: «Ha capito cosa rende e se la sta inventando. Ha intuito che dire le cose da bar è un’attività redditizia. Niente di meglio per gli italiani, che aspettano sempre il capopopolo di turno. Ha fatto un po’, con maggior successo, quello che hanno tentato Celentano e tanti altri. Anche Umberto Bossi, se vogliamo. Ma state tutti attenti: Grillo non è pazzo, fa il pazzo».
Angela Frenda
• OMA – Anche lui adesso vuole far sentire la sua voce. Anche lui, come suo fratello Franco, non sopporta di essere stato escluso dalla conferenza nazionale sul clima. Lui è un altro fratello di Romano Prodi: Vittorio, professore universitario di Fisica. «Ma adesso sono il primo-vicepresidente della commissione parlamentare europea sul cambiamento del clima», dice. E lamenta: «Non hanno invitato me alla conferenza sul clima, ma nemmeno il presidente che è un altro italiano, Guido Sacconi. Una cosa insensata».  stata istituita in maggio questa commissione europea sul cambiamento climatico. E Jeremy Rifkin (l’economista che Alfonso Pecoraro Scanio ha chiamato come consulente al ministero) non ha esitato a definirla «qualcosa di infinitamente importante». «Eppure nessuno in Italia ha sentito l’esigenza di coinvolgerci», ribadisce Vittorio Prodi e viene spontaneo chiedergli se rivolge anche a suo fratello premier l’accusa per il mancato invito. Vittorio Prodi non si scompone. E come suo fratello Franco non se la prende con l’altro fratello presidente del Consiglio. Spiega: «Ci sono i canali istituzionali, le questioni di parentela non hanno senso. Non è mica stato Romano ad organizzarla la conferenza». Il fratello Franco per protestare dell’esclusione dalla conferenza sul clima ha preso carta e penna e ha scritto a Fabio Mussi, ministro dell’Università, a nome di tutti i professori ordinari di climatologia. «Noi come riferimento abbiamo cercato il parlamento italiano», spiega invece Vittorio Prodi. Che con il fratello climatologo non si trova d’accordo soltanto sulla linea di comportamento istituzionale. Dice, infatti: «Non posso che condividere la distanza presa da Franco sull’allarmismo gratuito che è stato lanciato per il nostro Paese. Non si può dire che per quanto riguarda il clima l’Italia è più a rischio di altri paesi. Non ha senso». Così come anche per Vittorio Prodi non hanno senso quei dati della conferenza che parlavano di un aumento della temperatura nel nostro Paese quattro volte superiore al resto del pianeta. Ma la protesta di Vittorio va oltre. Sostiene, il fratello del premier: «Dovevano dare una visione internazionale a questa conferenza. Perché il problema del clima è il complesso delle politiche che devono essere messe in moto subito. Bisognava parlare di Kyoto. Bisognava parlare della revisione dei permessi di emissione, fondamentale, visto che oggi si va avanti per serie storiche. Ovvero: chi ha inquinato di più può continuare ad inquinare di più. Servono nuove regole ».
• La ragione del fenomeno non è chiara. C’è chi per scherzo dice che la colpa sia dell’acqua: che contenga qualcosa che possa influenzare la gravidanza? Fatto sta che per due istituti scozzesi l’anno scolastico appena iniziato presenta difficoltà inusuali: diciannove gemelli iscritti in un istituto, diciotto nell’altro, 37 bimbi in totale in due scuole elementari che distano solo una manciata di chilometri l’una dall’altra. Un grattacapo, non c’è che dire, per gli insegnanti, che oltre a dover imparare i nomi dei piccoli allievi dovranno escogitare un modo per riconoscere bambini se non identici, almeno molto, molto simili.
Nella regione del Larnarkshire del Nord dicono che non era mai capitato. Probabilmente non sono molte nel mondo le scuole che hanno dovuto affrontare un’analoga situazione di emergenza. Eppure con il primo giorno di scuola erano tutti lì, la divisa nuova fiammante addosso e il sorriso sulle labbra, prova inconfutabile dell’aumento nazionale delle nascite gemellari. «Mi era capitato di avere a che fare con due, tre coppie di gemelli al massimo, in altre scuole, ma nove mai. Wow!», racconta la maestra Anne Ellen della St. Timothy di Coatbridge, una scuola cattolica, proprio come la St. Aloysius, che con la St. Timothy detiene il record scozzese in fatto di gemelli.
Non che gli insegnanti dei due istituti si siano fatti intimorire dall’arduo compito che hanno davanti. I gemelli, passati i primissimi giorni, si possono distinguere abbastanza facilmente. Basta aguzzare l’ingegno e imparare a conoscerli. «Una volta che capisci che tipo di personalità hanno, hai meno problemi. C’è sempre un gemello che è meno timido dell’altro, generalmente hanno gusti diversi, fanno cose diverse a scuola, in classe, si impara a distinguerli in fretta». Generalmente, appunto.
E poi c’è sempre qualche trucchetto. Eve e Katie, della St. Timothy, quando raccolgono i capelli mettono nastri, elastici e mollettine di colori divers i. Paul e Martin, della St. Aloysius, invece, «interpretano » la divisa a modo loro. Se uno indossa la giacca, l’altro opta per il golf e così via.
Se le maestre hanno qualche problema, lo stesso non vale per loro, i piccoli protagonisti della vicenda, felici di non rappresentare più una rarità. «Se fossi un bambino unico – ha detto Paul con la saggezza dei suoi cinque anni’ probabilmente mi sentirei solo. Qui siamo tanti in "coppia" come me, quindi si sta ancora meglio». Già. Otto coppie e un gruppo di tre, Daniel, Andrew e Craig. «E i gemelli – aggiunge con spirito – piacciono a tutti, no?».
Secondo Fabio Mosca, direttore dell’Unità di neonatologia e terapia intensiva della Clinica Mangiagalli di Milano, il caso scozzese è quasi unico: «In Italia sarà piuttosto difficile trovare classi come quelle scozzesi, primo perché non esistono così tanti gemelli e poi i parti gemellari, contrariamente a quello che si crede, non sono in aumento ». Le gravidanze gemellari naturali, spiega il neonatologo, «sono rimaste invariate nei secoli; il numero dei gemelli nati è cresciuto con l’avvio delle tecniche per la procreazione assistita, ma ora il trend si è stabilizzato e soprattutto sono sotto controllo quei fenomeni di parti plurigemellari con quattro, cinque o anche sei bambini». Le maestre, almeno quelle italiane, possono stare tranquille.

• ROMA – Privilegiato? Raccomandato? Di certo, il suo, è un cognome che pesa: Previti. E quest’anno, con un po’ di fortuna, potrebbe debuttare addirittura in Champions League contro squadroni forti e blasonati come il Real Madrid o il Werder Brema. «Davvero una bella sorpresa – dice lui ”. Non me l’aspettavo proprio, quando me l’hanno detto non ci credevo...». Da Forza Italia a Forza Lazio, già. Perché Umberto Previti, classe 1990, è il figlio di Cesare Previti e gioca in porta nella Lazio Primavera («Il mio modello è Buffon perché le prende tutte...»). All’ultimo momento, però, la società di Claudio Lotito l’ha inserito pure nella lista B dei calciatori disponibili per la massima competizione internazionale. Dunque, a tutti gli effetti, ora è un portiere da Champions. Dietro a «nonno» Ballotta e al neo acquisto Muslera. Un’ascesa un po’ troppo fulminea. O no? Il padre, Cesare Previti, ex ministro della Difesa con Berlusconi, lazialissimo da sempre, si è dimesso quest’anno da parlamentare dopo la condanna definitiva nel processo Imi-Sir e l’inibizione dai pubblici uffici. Ora ha pochissima voglia di tornare alla ribalta, però al telefono parla da padre orgoglioso: « una notizia che mi ha reso lieto, certo, ma aspettiamo quando esordirà. Tra l’altro adesso Umberto è infortunato e soprattutto deve pensare a studiare. al penultimo anno del liceo classico e non è ancora deciso se un giorno farà il portiere oppure l’avvocato come me. Di sicuro, non l’ho raccomandato io. Lui gioca nella Lazio da quando aveva 8 anni e se è andato così avanti lo deve solo ai suoi meriti. Io non c’entro niente». Anche il presidente Lotito taglia corto: «Se Previti jr gioca nella Lazio vuol dire che vale, io non raccomando nessuno né tantomeno vado a chiedere il certificato penale alla gente per giocare. Oltretutto è da tempo che suo padre non si fa più vedere all’Olimpico...». Il direttore sportivo della società, Walter Sabatini, è perentorio: «Da tre anni sto alla Lazio e non ho mai ricevuto una telefonata da Previti. Qui si fa troppa letteratura e l’unico rischio è quello di far soffrire il ragazzo. Nessun favoritismo, nessuna spintarella. Nella lista B abbiamo inserito tanti altri giovani come lui». Umberto Previti, dal canto suo, lo ammette: «So di avere un cognome importante. Ma tutto ciò non mi pesa e non è un problema. Spero solo che andando avanti nella mia vita si parli più delle cose che magari riuscirò a fare in campo. Il mio sogno è sempre stato quello di fare il calciatore e ci voglio riuscire, anche se so che di sacrifici ne dovrò fare tanti. Mio padre, comunque, me l’ha detto subito: ora non ti azzardare a montarti la testa, non hai fatto nulla e metti sempre lo studio al primo posto». Il generale Giulio Coletta, responsabile del settore giovanile biancazzurro, parla molto bene di lui: « alto, longilineo, sicuramente un buon portiere, non eccezionale ma umile. E dunque potrà togliersi le sue soddisfazioni ». Insomma, proprio nessuna raccomandazione, a quanto sembra. «Le colpe dei padri non ricadano sui figli», ammonisce serio Ottaviano Del Turco, uno dei 45 membri del Comitato nazionale del futuro Partito democratico, tifoso lazialissimo e presidente della Regione Abruzzo. «Il ragazzo non ha mica perso i diritti civili – continua Del Turco ”. Il portiere lo può fare benissimo e anzi speriamo che sia meglio di Ballotta e Muslera, che a dire il vero mi danno poco affidamento. Secondo me, però, la vera ragione per cui Lotito l’ha preso non è mica perché è il figlio di Previti, ma perché costa poco... Si sa come la pensa il presidente... Comunque tanti auguri sinceri al giocatore». Tra i tifosi doc della Lazio il coro è unanime: «Raccomandato? Non scherziamo – protesta l’attrice Sandra Milo ”. Il calcio forse è l’unico ambiente in cui i raccomandati hanno poca fortuna, se non hai i numeri non vai avanti». Anche Suor Paola non ci crede: «Non sapevo che il portiere della Primavera si chiamasse Previti, ma non fa differenza. In campo per me sono tutti uguali». Michele Plastino, noto giornalista televisivo di fede biancazzurra, parla scherzando di «lotizzazione», alludendo a Lotito. Ma sulla lazialità di Cesare Previti non ammette repliche: «Me lo ricordo nell’85 quando non era ancora famoso e la Lazio stava per sparire per i soliti problemi economici. Lui m’incontrò al ristorante e mi disse che stava facendo di tutto per convincere Berlusconi, che non era ancora Sua Emittenza, a salvare la Lazio». Anche tra i membri del Lazio Club Montecitorio l’assoluzione è completa: «Lasciamo tranquilli il senatore Previti e suo figlio – dice l’ex vicepresidente della Camera, Publio Fiori ”. Uno che arriva a fare il portiere a certi livelli non può essere un raccomandato». E lo stesso dice Enzo Carra, deputato dell’Ulivo anche lui iscritto al club: «Il calcio esclude la raccomandazione, puoi essere spinto quanto ti pare ma se non pari i palloni entrano... No, il calcio non è come la Camera».

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 21/9/2007
ENNIO CARETTO
WASHINGTON – A sole 18 ore dal primo ribasso dei tassi d’interesse in oltre quattro anni, il governatore della Banca centrale americana Ben Bernanke ha ammonito che le insolvenze dei mutui subprime o ad alto rischio «sono destinate ad aumentare », facendo schizzare l’euro a quasi 1 dollaro e 41 centesimi, un record storico, e costringendo le Borse a battere in ritirata.
Deponendo alla Commissione finanze della Camera con il ministro del Tesoro Hanry Paulson, l’erede di Alan Greenspan ha aggiunto che «le perdite finanziarie globali hanno ecceduto di molto le più pessimistiche previsioni» e che «la crisi creditizia ha stressato in modo significativo i mercati». Come nel comunicato della Fed di martedì, Bernanke ha concluso che la crisi finanziaria «ha reso più incerta la crescita economica» negli Stati Uniti. Ma ha spiegato di avere tagliato i tassi «proprio per impedire che essa contagi l’economia reale e per promuovere una crescita moderata duratura».
Dato l’allarme, il capo della Fed ha quindi cercato di rassicurare l’America e il mondo. «Siamo pronti ad affrontare i nuovi problemi che si presenteranno in un mercato immobiliare in rapida correzione» ha dichiarato. «Impediremo che si ripeta una crisi pur preservando i mutui subprime responsabili ». E ha spiegato che entro fine anno la Fed – a tutela dei consumatori – imporrà una maggiore trasparenza e uniformerà i regolamenti. «Malgrado le incertezze – ha sostenuto – il sistema finanziario globale è in una posizione relativamente solida per uscire dalla crisi». Alla domanda se in caso di necessità ridurrà ulteriormente i tassi, provvedimento che secondo Greenspan potrebbe essergli impedito da incipienti pressioni inflazionistiche, Bernanke ha tergiversato: «Continueremo a monitorare i mercati da un lato e a prestare una forte attenzione all’inflazione dall’altro » ha garantito, «staremo un passo avanti agli sviluppi ».
Nell’analisi del monetarista Steve Hanke, tuttavia, con il crollo del biglietto verde (adesso in parità con il dollaro canadese dopo 31 anni, e sotto i 114 yen giapponesi) e con il conseguente balzo del supereuro a 1,4091 dollari (ma era arrivato a 1,4099), gli sviluppi si preannunciano negativi. Il dollaro deprezzato, osserva Hanke, è foriero d’inflazione e Bernanke potrebbe trovarsi con le mani legate. Rischia di venire immobilizzata anche la Banca centrale europea: il supereuro, che di questo passo potrebbe presto superare il dollaro e mezzo stando ad Hanke, fa da freno all’ economia europea, e un rialzo dei tassi peggiorerebbe la situazione.
Il governatore della Riserva Federale ha parlato in un clima teso a causa del drammatico deprezzamento del dollaro, dell’aumento dello oro a 736 euro l’oncia, il massimo dall’80, e da quello del petrolio a 83,89 dollari al barile. Bernanke è intervenuto quando Paulson, al suo fianco, ha annunciato di avere permesso a due grandi banche a garanzia pubblica, la Fannie Mae e la Freddie Mac, di cartolizzare i mutui jumbo, ossia sopra i 400 mila dollari, «per accrescere la liquidità nel settore». Il provvedimento, ha precisato Bernanke che aveva appena immesso sui mercati altri 7 miliardi, è temporaneo, non vogliamo che il governo si trovi a dovere coprire perdite da insolvenza e che gli investitori continuino a esporsi a troppi rischi.
Come per limitare l’impatto della testimonianza del governatore che ha però elogiato – «Sta facendo un buon lavoro» – il presidente Bush ha trasmesso un messaggio ottimista all’America. «Siamo in una fase di grande turbolenza» ha asserito in una conferenza stampa alla Casa bianca «ma le fondamenta dell’economia sono forti, il mercato del lavoro è stabile, l’inflazione viene contenuta e le esportazioni crescono ». Bush si è poi impegnato «a lavorare con il Congresso per risolvere il problema dei mutui, purché non aumenti le tasse». Ma il presidente, che ha incassato le accuse rivoltegli da Greenspan nel suo libro di avere portato in passivo il bilancio dello Stato – «non mi sento offeso » – ha dimostrato un certo nervosismo: «Non vedo l’ora di uscire dalla stretta».

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 11/9/2007
GUIDO SANTEVECCHI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
LONDRA – Il governatore della Banca d’Inghilterra che ammette di aver cambiato parere dopo aver visto le immagini in tv sulle code agli sportelli della Northern Rock. Il presidente della Commissione Tesoro del Parlamento che chiede al vicegovernatore se fosse «addormentato nel retrobottega» quando per la prima volta in cent’anni una banca britannica veniva assediata da risparmiatori in fila per ritirare i loro depositi. un quadro di debolezze umane e inadeguatezza del sistema quello che è uscito dall’audizione di Mervyn King sulla crisi della Northern Rock.
Il governatore è stato accusato di non aver previsto la stretta sul credito a Londra per effetto dell’onda lunga della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti. E gli è stato rinfacciato di aver prima rifiutato di immettere liquidità nel mercato «perché danneggerebbe l’efficienza nella valutazione del rischio da parte degli operatori, spingendoli a manovre moralmente azzardate » (dichiarazione del 12 settembre) e poi di essersi contraddetto pompando d’urgenza 10 miliardi di sterline nel sistema finanziario «perché la situazione è cambiata e serve un’azione decisiva» (19 settembre).
King ha preso il fuoco delle contestazioni con dignità, insistendo che sarebbe stato irresponsabile un intervento preventivo della Bank of England già ad agosto, quando erano emerse le condizioni di difficoltà della Northern Rock. In quel momento si sarebbe solo minata la fiducia dell’intero sistema. Forse ha ragione, ma è vero che un mese dopo la fiducia è crollata per diversi giorni, mentre di fronte alle filiali della banca in crisi si formavano code chilometriche.
Per di più King ha detto che la gente a quel punto agiva in modo del tutto razionale, perché di fronte alla debole tutela dei risparmi prevista dalla legge britannica solo una garanzia del governo avrebbe potuto cambiare la situazione. La garanzia è arrivata, con Gordon Brown che è passato sopra al principio liberista in base al quale gli investitori privati se la devono cavare senza interventi pubblici. E poco dopo sono arrivati i 10 miliardi della Banca d’Inghilterra: ce n’è abbastanza per sospettare che anche la famosa indipendenza data alla Old Lady nel 1997 dall’allora cancelliere Brown sia una mezza finzione.
King ha negato di essersi piegato alla ragion politica del governo; in cambio Brown ha ribadito la sua piena fiducia nel governatore che aspetta il rinnovo quinquennale del suo mandato. King ha concluso che serve un adeguamento della legge britannica. Ma ha addossato parte della responsabilità per il mancato intervento preventivo sulle norme europee: il governatore ha rivelato che avrebbe preferito dare alla Northern Rock un aiuto segreto, senza pubblicità e quindi senza spaventare la gente. Questo però sarebbe stato un abuso per la normativa Ue.
Dignitoso ma disarmante vedere un uomo dell’esperienza di King costretto ad ammettere di aver cambiato idea guardando la televisione. E il presidente della Commissione parlamentare gli ha fatto osservare che se voleva limitare i danni, al contrario ha «gridato al fuoco in un cinema affollato» creando il panico.
L’inquisitore del Treasury Committee ha dedicato parole dure al vicegovernatore sir John Gieve, accusandolo di «aver dormito nel retrobottega » mentre la Northern Rock crollava. Sir John è il responsabile della stabilità finanziaria del Regno Unito e si è difeso dicendo di essere stato assente dalla Bank of England per un paio di settimane a fine agosto, quando circolò il rapporto sulla crisi. Il motivo? Un funerale di famiglia e poi le vacanze in Francia. «Francamente non credo che lei stia facendo il suo lavoro », ha concluso il presidente.

CORRIERE DELLA SERA, VENERDì 21/9/2007
GIULIO TREMONTI
C aro direttore, 1. Possiamo chiamarla come vogliamo: crisi, turbolenza, tempesta, collapse, storm, turmoil, distress, crunch. Possiamo – o no – paragonarla a quella del 1929. Possiamo chiamarla o vederla come vogliamo. Ma è certo che, a partire dall’«agosto 2007», dalle profondità misteriose del capitalismo finanziario salgono in superficie scosse fortissime.
Le scosse già registrate bastano per porre termine all’illusione fiabesca che il progresso economico possa essere continuo e gratuito. E con ciò segnano l’improvviso ritorno dal futurismo al realismo, dall’irresponsabilità alla responsabilità, aprendo spazi ad una visione della vita meno materiale e più spirituale.
Le stesse scosse, impattando sul rallentamento già in atto all’interno dell’economia, fanno prevedere una prossima fase di stagnazione.
Ma – soprattutto – non è affatto detto che tutto sia già successo. Che le scosse siano alla fine e non al principio. Che, essendo l’economia globale, anche da noi non arrivi altro. Addirittura che nel mondo si scateni la «tempesta perfetta», con il contagio globale – anche all’Asia ed alla Russia – via «rischio virus» o con i venti di guerra in Medio Oriente.
In altri termini: può finire bene (si spera), ma può ancora finire male. Molto dipende dalla cura e dai tempi della cura. La cura giusta non è quella dello struzzo: continuare a fare finta di non vedere quello che già si vedeva (da chi scrive, già nello scorso novembre) Forse è puntare su di un misto, tra interventi pubblici e fortuna: la strategia finora prevalente. Può essere che questa sia la cura giusta. Può essere che sia necessaria una cura diversa. In ogni caso: non si trova la cura di un male, se prima non se ne comprendono le origini.
2. Per secoli le banche hanno preso denaro sulla fiducia e prestato denaro a rischio. L’arte del banchiere è nella capacità di valutare il merito del rischio assunto. E’ ancora così, per la gran parte delle banche. Ma non per tutte. In un crescendo che parte più o meno dal principio di questo secolo (il secolo della «globalizzazione»!?) la struttura «aperta» dei mercati finanziari e le nuove tecniche della finanza hanno infatti consentito l’uscita dallo schema bancario classico, la rottura del vecchio equilibrio tra rischio e responsabilità. Una parte delle banche (non tutte) si è in specie liberata dal proprio rischio sui prestiti, trasferendolo a terzi. Lo ha fatto impacchettando i propri crediti in «prodotti finanziari» collocati sul mercato presso acquirenti attratti dagli alti rendimenti, confusi dalla complessità degli strumenti, spesso inconsapevoli del rischio «spazzatura » che assumevano.
Tutto si è in specie sviluppato dentro la meccanica perversa del «meno rischi più guadagni». I cosiddetti «subprime », i prestiti a rischio concessi negli USA e poi impacchettati e fatti circolare in giro per il mondo con i rischi connessi, sono stati solo un piccolo anello di una lunghissima catena di fuga dal rischio e di corsa ai profitti, fatta con tanti altri strumenti: vehicle, conduit, asset-backed commercial paper, derivatives, hedge funds, etc.
Gli hedge funds – ad esempio – sono in sé una centrale di rischio. Sono infatti niente altro che banche irregolari. Le banche sono sottoposte ad una giurisdizione statale, a regole, a standard, a limiti e criteri prudenziali di azione. Gli hedge funds sono l’opposto: la loro regola è infatti quella di non avere regole. Sono l’opposto del loro stesso nome ( hedge = copertura anti-rischio).
Dal principio di questo secolo gli hedge funds si sono moltiplicati per numero e volumi di attività. Ed hanno interfacciato sullo stesso piano con le banche, con i fondi, con i fondi pensione, in una elevata confusione di ruoli. Nell’insieme la nuova «tecnofinanza» ha magicamente moltiplicato la liquidità (con valori inventati e finanziati a debito), ha tra l’altro indirettamente finanziato il «miracolo » quasi istantaneo della globalizzazione.
 così che il contromodello è diventato il modello, l’eccezione la regola. Solo adesso si denunzia l’altissimo «livello di complessità» dei nuovi strumenti configurati come indecifrabili geroglifici finanziari.
 per tutto questo che, alla fine, la cattiva prassi di alcuni è diventata la paura di tutti. così che i banchieri non si fidano più dei banchieri. Per questo si è rarefatto il circuito «interbancario» (che funziona come in un corpo il sistema circolatorio). Con effetti concatenati. Il primo effetto è stato (potrà essere) la crisi da incrocio tra finanziamenti a lungo e raccolta a breve termine. Questa per esempio è stata la causa del panico bancario in Inghilterra.
3. l’opacità che ha generato la sfiducia ed è la sfiducia che ha generato una crisi che continua. Si può continuare così, nella speranza che prima o poi la fiducia ritorni. O si può provare, contro l’opacità, una cura nuova: la cura della trasparenza. meglio continuare a temere che la tua controparte (chi ti deve pagare un prezzo o rimborsare un prestito) non abbia più patrimonio sufficiente. O è meglio sapere con chiarezza chi ha cosa e chi non ha niente?
Come è diventata globale la finanza, così sono diventati globali anche la contabilità ed il diritto. Coordinando gli organismi sovranazionali ed internazionali di «sorveglianza » si può scrivere in pochi giorni e subito dopo imporre agli operatori un unico «codice» delle attività di rating ed un nuovo schema di bilancio, così facendo emergere tanto quello che c’è quanto quello che finora non c’è nei libri degli operatori. Perché no?

LA STAMPA, SABATO 22/9/2007
CARLO BASTASIN
Rendere onore alla stabilità dei prezzi nella città della Bundesbank è naturale quanto togliersi le scarpe prima di entrare in moschea. Non ci sarebbe nulla di rivelatorio nelle parole di Mario Draghi ieri a Francoforte se non fosse per alcune implicazioni involontarie ma suggestive: la crisi finanziaria in corso non verrà affrontata in Europa con riduzioni dei tassi d’interesse sul tipo di quelle americane e le sue conseguenze negative sulla crescita quindi dovranno trovare risposta nelle politiche strutturali delle nostre economie. Per un Paese come l’Italia in condizioni di governo instabile significa da un lato poter beneficiare della stabilità «europea», ma dall’altro doversi impegnare politicamente nelle riforme più di quanto consiglierebbe la fragilità del governo.
Anche un Paese che non è in grado di prevedere a chi faranno capo le responsabilità pubbliche nemmeno tra poche settimane, può far conto sulla delega all’Europa di parte della propria sovranità: grazie alla Bce, l’inflazione sarà stabile, i risparmi saranno tutelati e il ciclo degli investimenti potrà continuare. Inoltre i vincoli fiscali di Bruxelles limitano i rischi che il debito pubblico aumenti. Quello che ci dice il linguaggio di Francoforte è che, nonostante se stessa, l’Italia, questa strana macchina senza volante, non finirà fuori strada.

Tuttavia potrebbe fermarsi in mezzo alla via. La crisi del credito si sta trasferendo sull’economia reale. In modo più vistoso negli Stati Uniti e in modo più graduale in Europa. Le previsioni di crescita negli Usa per il 2008 sono state abbassate di un punto di pil.
In passato, secondo stime della Bce, in presenza di un forte apprezzamento dell’euro, ciò si traduceva in una minore crescita anche in Europa di oltre lo 0,5%. Ma questa volta le conseguenze dovrebbero essere meno gravi. L’export verso gli Usa conta ormai solo per un settimo del totale europeo, contro un quarto di dieci anni fa. Negli ultimi quattro anni l’Europa ha aumentato invece del 60% l’export verso Paesi emergenti che non sono per ora colpiti dalla crisi americana. Secondo stime tedesche, nel 2007 l’export verso gli Usa calerà del 5% in valore, in parte compensato dalle importazioni di altri Paesi. ragionevole stimare per l’economia europea una riduzione del tasso di crescita dello 0,3% nel 2008, più sensibile in Spagna (il cui mercato immobiliare è a rischio) e in Germania e Italia (più esposti all’export).
Per l’Italia una battuta d’arresto delle esportazioni lascerebbe esposta la fragilità interna del Paese, col reddito delle famiglie logorato dalle posizioni di rendita che impediscono ai prezzi di scendere e alla crescita di aumentare. Le implicazioni dovrebbero riguardare le politiche di apertura dei mercati e di ristrutturazione microeconomica già avviata, più che il livello assoluto dell’euro e dei tassi d’interesse che in questo momento riflettono gli squilibri strutturali americani e le incertezze finanziarie globali.
Entro poche settimane la Bce diffonderà le informazioni sul credito bancario e solo allora sarà possibile valutare il rischio di una crisi di sistema di dimensioni simili a quella americana in cui una larga fetta dei mercati dei capitali non sta più funzionando.
Ma, secondo stime di mercato, se anche l’intero volume dei commercial paper strutturati dovesse scaricarsi sui bilanci delle banche europee, il loro capitale primario ne sarebbe toccato in parte irrilevante. Vi saranno casi critici in singoli istituti, ma non dovrebbe esserci una crisi di sistema se si salvaguarda la fiducia. A questo fine il comportamento del Sistema europeo di banche centrali dovrebbe essere quello seguito finora: intervenire con prestiti interbancari per risolvere le crisi di liquidità, ma conservando un orizzonte stabile sul medio termine, cioè rispettare l’obiettivo della stabilità dei prezzi compatibile con il livello della crescita potenziale e le condizioni di liquidità.
Anche tra i banchieri centrali di Francoforte c’è però un abuso di pedagogia quando pretendono di poter trasmettere fiducia ai mercati con la sola propria «stabile» condotta. Alcuni governatori europei sembrano addirittura considerare un rialzo dei tassi solo rinviato, così come rialzi sono stati approvati nei giorni scorsi da banche centrali europee esterne all’euro.
Tutti sanno che perfino la Bce oggi non è in grado di fare previsioni consapevoli sulla crisi in corso, né sui rischi di un crollo del dollaro. Un eccesso di ideologia muscolare sarebbe un errore sconcertante dopo che quasi dieci anni di sapiente pragmatismo francofortese hanno dimostrato la loro superiorità sulle astuzie della Fed e della Banca d’Inghilterra.

CORRIERE DELLA SERA, MARTEDì 25/9/2007
BILL EMMOTT
Antonio Fazio è stato costretto a dimettersi da governatore di Bankitalia per la sua eccessiva ingerenza. Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, oggi rischia di perdere il posto. Rischia per essersi rifiutato di intervenire, e per aver cambiato idea subito dopo. Ben Bernanke, presidente della Fed americana, è invece intervenuto audacemente tagliando i tassi di interesse, eppure il mercato obbligazionario sembra pensare che così facendo voglia attizzare l’inflazione. Certo, reggere il timone di una banca centrale è un lavoro duro, ma è destinato a diventarlo ancora di più, con il perdurare di queste crisi finanziarie, sia per le banche centrali che per i politici di riferimento.
La tempesta che ha investito banche come la Northern Rock in Gran Bretagna, o il mercato delle private equity che dipende da ingenti prestiti sottoprezzo, oppure i finanziatori americani del mercato immobiliare, dove gli acquirenti esigono facilitazioni assurde, è necessaria e salutare per l’economia. Tuttavia, le sue conseguenze non colpiranno soltanto le aziende più temerarie. Con il crollo dei prezzi immobiliari in America, si prospetta una progressiva stagnazione economica, man mano che l’occupazione e i consumi si riducono. Il timore dell’inflazione, da parte del mercato obbligazionario, la rende ancor più probabile, poiché fa crescere i costi dei prestiti a lungo termine per le aziende. La recessione potrebbe essere di breve durata, se l’America sarà fortunata, ma sarà comunque difficile evitarla. Lo stesso vale per la Gran Bretagna, dove le banche imporranno una stretta creditizia e i consumatori avranno meno liquidità da spendere. L’Europa sarà colpita nelle esportazioni, con la rivalutazione dell’euro contro il dollaro. L’export Usa calerà. Il mondo, nel suo complesso, ha beneficiato fino ad oggi di quattro anni di crescita rapida, ma per il futuro si prospetta un periodo di raffreddamento. In America, la buona notizia è che questo accadrà durante la campagna elettorale, così i politici avranno un’occasione d’oro per tuonare contro la recessione e le pratiche commerciali sleali della Cina, ma non riusciranno a far nulla per contrastarle fino al 2009, quando l’economia è destinata a riprendersi. In Gran Bretagna, le notizie sono meno buone per il partito laburista e il suo nuovo premier, Gordon Brown, il quale vorrebbe indire le elezioni politiche nel 2008 o nei primi mesi del 2009, ma se il Paese è in recessione, con ogni probabilità uscirà perdente.
I governatori delle banche centrali devono affrontare le scelte più difficili. Vorrebbero tagliare i tassi di interesse a sostegno dell’economia, ma l’inflazione resta alta e di conseguenza non possono imporre tagli troppo rapidi e netti. Le spiacevoli sorprese della Northern Rock significano che il governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, si trova davanti a una scelta personale assai difficile. Dovrebbe rassegnare le dimissioni, perché ha perso ogni credibilità. Ma se lo farà, sembrerà che la banca centrale ha perso la sua preziosa indipendenza ed è ormai un semplice strumento della politica. Forse la risposta sta nell’adozione dell’euro da parte della Gran Bretagna e nel collegamento alla Bce? Spiacente, no, stavo solo sognando.
Le traversie della Northern Rock hanno rivelato una grande debolezza nelle leggi e disposizioni di controllo finanziario del Paese. Le piccole banche che prestano denaro e raccolgono i risparmi hanno bisogno di controlli più accurati, rispetto ai grandi istituti, proprio perché i loro clienti sono gente comune. Ma il controllore, ovvero l’Autorità dei servizi finanziari insediata dai laburisti nel 1997, ha consentito alla Northern Rock di agire con molta imprudenza, con il risultato che oggi il governo deve garantire la copertura di tutti i depositi dei risparmiatori. Se la Banca d’Inghilterra ha gestito male il tentativo di salvataggio, non le si può tuttavia imputare il comportamento della Northern Rock, finita in cattive acque. Un mercato libero nel settore bancario, come per tutti gli altri beni e servizi, è ottimo per promuovere l’innovazione, ma se il governo dovrà intervenire per salvare la situazione, quando le cose si mettono male, questo non farà altro che incoraggiare i comportamenti irresponsabili delle banche. Pertanto, ora che ha messo in atto il salvataggio, la Gran Bretagna dovrà introdurre nuove leggi per rafforzare il controllo sulle banche. Gordon Brown, che ha ideato il sistema di controllo finanziario quando era ministro delle Finanze, sarà costretto a modificare la sua normativa. Lo farà, ma non potrà fare a meno di chiedersi se la recessione gli costerà il nuovo incarico, che aspettava da dieci anni.
Traduzione di Rita Baldassarre




IL SOLE 24 ORE 25/09/2007
Alessandro Merli
L’Fmi avverte: la crisi del credito non è finita. «La normalizzazione dei mercati può non essere vicina». I rischi per la stabilità finanziaria globale sono aumentati e le condizioni finanziarie sono diventate più restrittive dopo le turbolenze delle ultime settimane, «il primo test importante per i nuovi strumenti finanziari», un test che non è ancora finito. Il processo di aggiustamento «richiederà tempo» e può avere un impatto sull’economia reale, che pure attraversa un fase di crescita robusta. «Se le condizioni finanziarie resteranno difficili, l’espansione globale rallenterà ulteriormente». Così il Fondo monetario nel suo semestrale rapporto sulla stabilità finanziaria globale, il primo dopo la scoppio delle turbolenze di quest’estate.
A Madrid, il direttore del Fondo Monetario, Rodrigo Rato, ha affermato che la crescita subirà le conseguenze della situazione di mercato anche nel 2008, con le ripercussioni più severe per gli Stati Uniti. «Mesi problematici attendono i mercati finanziari», ha detto ieri il capo del dipartimento mercati dei capitali dell’Fmi, Jaime Caruana, ex governatore della Banca di Spagna nel presentare il rapporto. La situazione dei mercati può influenzare non solo i prezzi, ma anche la disponibilità di credito, ha aggiunto.
L’analisi del Fondo individua naturalmente la scintilla della crisi nel settore dei mutui subprime negli Stati Uniti, dove avanza una stima («altamente incerta», ammette) che le perdite potenziali siano fino a questo momento di circa 200 miliardi di dollari (una trentina in più di quanto calcolato finora), di cui 40 circa a carico delle banche e il resto degli investitori in prodotti strutturati basati su questi mutui. L’Fmi rileva peraltro che di per sé non si tratta di cifre in grado di mettere a repentaglio la solidità del sistema finanziario, il quale si è affacciato a questa fase di turbolenza con capitali adeguati per assorbire eventuali perdite: le perdite finora riconosciute rappresentano soltanto lo 0,04% del capitale primario (tier 1) delle banche. Il sistema che contribuisce a distribuire il rischio finisce anche per diffondere le perdite, anzi la rapidità con cui si sono diffuse le turbolenze ha colto di sorpresa sia i mercati, sia le autorità: il Fondo rileva fra l’altro l’esposizione di investitori asiatici e di alcune banche europee.
Caruana ha notato peraltro l’azione delle banche centrali per fornire liquidità ai mercati e dato un giudizio positivo sul taglio dei tassi d’interesse decretato dalla Federal Reserve e lo stop ai rialzi da parte della Banca centrale europea. Il comportamento futuro delle banche centrali dipenderà molto dall’andamento dell’inflazione e dai prossimi dati sull’economia, ha sottolineato il dirigente del Fondo, rilevando che l’impatto delle turbolenze finanziarie «sarà deflazionistico e quindi creerà qualche spazio di manovra per le banche centrali».
Nel documento, il Fondo avanza cinque raccomandazioni per migliorare il quadro regolatorio dei mercati, pur ricordando, ha detto Caruana, che è importante non perdere l’equilibrio fra la necessità di migliorare gli standard di credito e rafforzare la gestione del rischio e il mantenimento dei benefici derivanti dall’innovazione finanziaria. Nessuna reolamentazione draconiana, quindi, ma una serie di aggiustamenti: 1) maggiore trasparenza (tra l’altro nei rapporti fra le banche e i loro veicoli fuori bilancio); 2) miglior monitoraggio del rischio soprattutto sulle cartolarizzazioni, dove la struttura degli incentivi in un modello che «origina e distribuisce» il rischio ha allentato la disciplina di credito; 3) miglioramenti delle agenzie di rating, con una più ampia differenziazione dei "voti" che consenta di percepire più rapidamente ogni deterioramento. L’Fmi peraltro sollecita gli investitori a non affidarsi unicamente ai rating, senza applicare la due diligence; 4) miglior valutazione dei prodotti complessi, tenendo conto del rischio di liquidità; 5) un perimetro più ampio per il consolidamento del rischio da parte delle banche, soprattutto in riferimento a quelle strutture che sono formalmente fuori bilancio ma che le banche devono poi sostenere per evitare rischi alla reputazione.

LE RICHIESTE DEL FMI
Le raccomandazioni
Il Fondo Monetario non chiede una revisione drastiche della regolamentazione ma suggerisce una serie di aggiustamenti:
1) maggiore trasparenza in particolare nei rapporti fra le banche e i loro veicoli fuori bilancio
2) migliore monitoraggio del rischio soprattutto sulle cartolarizzazioni
3) miglioramenti delle agenzie di rating con una più ampia differenziazione dei voti che consenta di percepire più rapidamente ogni deterioramento
4) migliore valutazione dei prodotti complessi tenendo conto del rischio liquidità
5) un perimetro più ampio per il consolidamento del rischio da parte delle banche soprattutto in riferimento a quelle strutture che sono formalmente fuori bilancio ma che le banche devono poi sostenere per evitare rischi alla reputazione






IL SOLE 24 ORE 25/09/2007
Morya Longo
A Wall Street i debiti diventano profitti. Bear Stearns, una delle più grandi banche al mondo, si è sempre vantata di non avere mai chiuso un anno in perdita. E il terzo trimestre 2007 non ha fatto eccezione. Questa volta, però, l’utile netto di 171 milioni di dollari è stato realizzato anche grazie a un "aiutino" arrivato da un principio contabile americano. Lo stesso che ha dato una mano alle trimestrali di tutti i big del credito americani, da Goldman Sachs a Morgan Stanley. Si tratta del «Financial Accounting Statement n. 159»: un principio contabile che, a dispetto di un nome freddo e poco accattivante, ha permesso ai big del credito di sfruttare il ribasso dei mercati obbligazionari per "rimpolpare" un po’ i conti trimestrali. Come? Sostanzialmente trasformando le perdite che hanno subìto i loro bond in ricavi.
Questo principio contabile funziona più o meno così: se una banca iscrive nel bilancio le sue attività (per esempio gli investimenti) al loro valore di mercato, allora può iscrivere anche le passività (cioè i debiti) al valore di mercato. E ovviamente se i suoi debiti e i suoi prestiti obbligazionari perdono valore, la banca realizza un guadagno potenziale: potrebbe infatti riacquistare i suoi bond sul mercato a un prezzo più basso di quello a cui li ha emessi. Morale: dato che negli ultimi mesi la crisi dei mutui subprime ha fatto scendere i prezzi dei bond emessi dalle banche, queste ultime hanno potuto iscrivere in bilancio le loro passività a un valore un po’ più basso. Dunque hanno realizzato un ricavo contabile. I minori debiti, insomma, sono diventati guadagni. Ma solo sulla carta.
Sembra un gioco di parole, ma l’impatto sui bilanci è stato enorme. Secondo i calcoli del «Wall Street Journal», Morgan Stanley ha guadagnato 390 milioni di dollari, pari al 26% dei profitti trimestrali totali. Goldman Sachs, invece, ha aumentato i ricavi di circa 300 milioni di dollari: non tanto rispetto a 2,9 miliardi di utile netto totale, ma comunque abbastanza per cancellare gli effetti negativi della crisi dei mercati. La banca che ha più beneficiato di questo principio contabile è però stata Bear Stearns: se non avesse aggiunto 225 milioni di dollari, avrebbe chiuso il trimestre in rosso. Goldman Sachs, interpellata dal «Sole-24 Ore», ha però voluto precisare: «Abbiamo applicato i principi contabili Usa perché era obbligatorio farlo. Non avevamo scelta. Precisiamo però che i guadagni da 300 milioni non sono utili, ma ricavi. Bisogna aggiustare questa cifra con costi, per cui il guadagno in termini contabili alla fine è molto minore di 300 milioni di dollari».
Bene inteso: tutto questo è perfettamente lecito, e anzi previsto dalla normativa americana. Appunto, al principio 159. Ma, ugualmente, appare paradossale. Per assurdo, infatti, una banca sull’orlo del fallimento chiuderebbe il bilancio con un’utile spaventoso: il crollo dei suoi bond si trasformerebbe, infatti, in ricavi e poi profitti extra. per questo che in Europa questo principio non è stato applicato. «Quando nel 2005 bisognava tradurre in legge i principi contabili Ias – spiega un revisore dei conti – la versione originale prevedeva che potessero essere iscritti in bilancio al valore di mercato anche i debiti, lasciando la libera scelta alle società. Questo principio non è stato però tradotto in legge, perché era considerato in contrasto con alcune direttive comunitarie relative alla prudenza». Anche l’agenzia di rating Moody’s, venerdì, ha diramato una nota affermando che non considererà questi utili come effettivamente derivati dall’attività delle banche. «In effetti – spiega un esperto di contabilità – questi guadagni sono solo sulla carta, e dunque non sono associati a un flusso di cassa». Intanto, però, hanno ingrassato i bilanci delle banche Usa proprio quando la crisi dei mutui subprime avrebbe potuto farli dimagrire.





IL SOLE 24 ORE 25/09/2007
Stefano Carrer
La crisi dei mutui subprime americani scuote il sistema bancario tedesco. E non solo sul breve termine, ma promettendo conseguenze di lungo periodo. Mentre emerge l’ipotesi della creazione di una "Superbanca" della Germania meridionale attraverso la fusione tra la Lbbw del Baden-Württemberg e la BayernLb, Deutsche Bank soffre per le indiscrezioni secondo cui sarà costretta a svalutazioni fino a 1,7 miliardi di euro sul suo portafoglio di crediti «leveraged». Il titolo della principale banca tedesca ha perso ieri l’1,8% , in una Borsa di Francoforte sostanzialmente stabile, trascinando in ribasso la rivale Commerz (che ha ceduto oltre il 4,3%), anch’essa a sospetto di prossime svalutazioni superiori a quanto preannunciato. L’intero settore bancario europeo è andato sotto pressione, per il timore degli investitori che altri grandi istituti possano riservare in futuro sorprese sgradite, tanto più alla luce dei commenti di tenore pessimista del Fondo Monetario Internazionale e all’anticipazione di altre svalutazioni altrove (un annuncio in questo senso è arrivato dalla Mitsubishi Ufj, la principale banca giapponese). stata l’agenzia di stampa «Reuters» a lanciare la notizia che Deutsche Bank potrebbe svalutare fino al 6% del suo portafoglio di impegni, a causa delle difficoltà a rivendere i crediti sul mercato nella situazione generalizzata di stallo determinata dalla crisi dei subprime. Non ci sono state reazioni ufficiali da parte dell’istituto, e la stessa agenzia – che non ha identificato le sue fonti – ha chiarito che se la situazione sul mercato del credito dovesse migliorare, l’entità delle svalutazioni potrebbe essere più contenuta. Il numero uno Josef Ackermann aveva dichiarato la settimana scorsa che la banca sta "correggendo" le valutazioni di bilancio in proposito, sottolineando che l’istituto è "prudente" nelle sue politiche di bilancio. La prossima trimestrale è attesa per il 31 ottobre, ma a questo punto la banca dovrebbe offrire chiarimenti in modo più tempestivo. Vari analisti ritengono che Deutsche Bank riuscirà a contenere il buco, anche cercando di utilizzare i suoi "muscoli" per convincere alcuni grandi clienti a rinegoziare accordi in corso, se non a soprassedere.
La crisi dei mutui tiene banco anche per la sempre più precisa sensazione che servirà ad accelerare il processo di consolidamento del ramo bancario, che finora in Germania ha fatto meno progressi che altrove. Nel loro incontro di settimana scorsa, gli stessi premier dei Land del Baden-Württemberg e della Baviera hanno discusso sui cambiamento del settore bancario pubblico e concordato nuovi colloqui, che potrebbero spianare la strada a una megafusione da cui nascerebbe il secondo gruppo del Paese. Non ci sono ancora concrete trattative per una combinazione, ma sono chiari i segnali di un allentamento delle rivalità regionali e delle pressioni sulle stesse autorità politiche territoriali per un consolidamento dell’ancora frammentato sistema. Del resto, la stessa Lbbw è intervenuta per salvare la SachsenLb, finita in crisi per l’esposizione verso i subprime Usa, e la acquisirà formalmente all’inizio dell’anno prossimo. L’altro istituto tedesco che ha avuto bisogno di un’ancora pubblica di salvezza, Ikb, dovrebbe confluire anch’esso in un gruppo dalle spalle più robuste. E lo stato della Renania settentrionale si è già rivolto agli uffici di Citigroup per cercare di vendere la sua quota in WestLb, alla quale è interessata la stessa Lbbw. Il paradosso è che vari istituti a controllo pubblico, dopo aver perso le garanzie statali del passato, si sono trovati in una situazione che li ha incoraggiati a diversificare l’attività in direzioni rischiose, in presenza di un mercato interno stagnante e poco redditizio, di cui la scarsa evoluzione del sistema è in parte responsabile.





IL SOLE 24 ORE 25/09/2007
Balduino Ceppetelli
Ipotesi break up per Northern Rock. sempre bufera su Northern Rock, al centro di voci e notizie quali piani per un possibile spezzatino e di distribuzione di dividendi. Così ieri a Londra i titoli dell’istituto di credito – in una giornata moderatamente positiva per il listino (+0,14% l’Ftse) – hanno registrato l’ennesimo tracollo, chiudendo a quota 171,6 pence, l’11,48% in meno rispetto a venerdì. Da ricordare che le azioni della banca inglese hanno perso il 73% del loro valore dall’annuncio del prestito d’emergenza della Bank of England, accordato per consentire alla banca di superare la crisi di liquidità originata dalla bufera Usa dei mutui suprime. La seduta di ieri si era aperta con uno scivolone di oltre il 10% per poi risalire vistosamente (superata la soglia dei 221 pence); successivamente però hanno invertito nuovamente tendenza per cadere rovinosamente. A favorire il tentativo di ripresa avevano contribuito le voci riportate ieri dal «Financial Times», circa l’intenzione di distribuire il dividendo interinale da 119 milioni di dollari. Il pagamento della cedola da 14,2 pence – che però Northern Rock non è obbligata a fare come ricorda il quotidiano – dovrebbe avvenire il 26 ottobre prossimo per tutti quegli azionisti che avranno registrato il possesso delle azioni entro il 28 settembre. Entro questa data la banca dovrà, invece, annunciare l’eventuale decisione di annullare il pagamento evitando la corsa all’acquisto del titolo per incassare il dividendo.
Queste notizie avevano inizialmente frenato l’ondata di ribassi che stava travolgendo il titolo causata dalle voci riportate domenica dal «Daily Telegraph» secondo cui tre dei più importanti hedge fund del mondo si stavano accordando per procedere con il break-up della Northern. L’operazione potrebbe portare nelle casse degli hedge fund centinaia di migliaia di sterline, ma lascerebbe gli azionisti a bocca asciutta. Secondo il giornale britannico, in corsa per lo "spezzatino" della banca figurerebbero un ex banchiere di Goldman Sachs, Cerberus, Citadel.
La situazione che sta travolgendo Northern Rock preoccupa chiaramente i clienti della banca, gli investitori, le istituzione finanziarie. Ieri qualche analista ha tentato di rassicurare il mercato. Sanford C. Bernstein ha ricordato che Hbo s, Lloyds Tsb e Barclays corrono «un rischio minimo» di subire una crisi simile grazie alle loro dimensioni e all’accesso più ampio alle forme di finanziamento. Northern Rock – ha scritto in un rapporto Antony Broadbent – dipendeva dai titoli obbligazionari per il 66% delle proprie fonti, rispetto, per esempio, al 38% di Hbos; clienti e depositi erano il 29% dell’indebitamento netto di Northern Rock, rispetto al 45% di Barclays, scrive l’analista.

CORRIERE DELLA SERA, 29/9/2207
MARIKA DE FEO
FRANCOFORTE – «Se proseguono l’incertezza e la mancanza di fiducia nei mercati, a breve termine le autorità di vigilanza dovrebbero chiedere alle banche di dichiarare le perdite riportate nei titoli cartolarizzati seguendo metodi e scadenza coerenti per tutte le istituzioni finanziarie». Da Venezia è Lorenzo Bini Smaghi, membro dell’esecutivo della Bce, a esortare banche e authority a cooperare urgentemente per chiarire le posizioni di bilancio e restaurare la fiducia mancante nei mercati. Da Bruxelles è invece il Commissario al Mercato interno, Charlie McCreevy, ad ammettere che «ancora non si conosce a quanto ammontano le perdite e quale sia l’attuale esposizione dei vari "giocatori" dei mercati » in conseguenza della crisi subprime. La crisi delle ultime settimane, confessa, «è stata una doccia fredda per tutti noi», e quindi anche per i regolatori dei mercati.
Ma si tratta di due facce della stessa medaglia. Perché a settimane dallo scoppio della crisi dei prestiti immobiliari il fatto che gli istituti finanziari non rivelino le perdite eventualmente subite con le turbolenze mina la fiducia nei mercati e crea incertezza soprattutto in quello interbancario, ancora molto debole.
La conseguenza è che i tassi del mercato monetario sono molto elevati. E se non dovessero ridiscendere, può svilupparsi il rischio di un «credit crunch» e di un ulteriore freno all’economia reale. La preoccupazione della Bce si legge anche nell’intervento effettuato giorni fa, quando ha prestato per un giorno, a un istituto bancario non identificato, 4 miliardi di euro a un tasso di interesse del 5%.
Anche per questo motivo Bini Smaghi ha puntato il dito sulle autorità di vigilanza, esortandole in pratica a seguire in modo coordinato, e con uguale procedura soprattutto a livello europeo, quanto richiesto, per esempio, da Bankitalia agli istituti italiani: comunicare entro il 19 ottobre l’esposizione al rischio subprime. Del resto, accenti non differenti sulla necessità di un maggior coordinamento delle autorità di vigilanza sono state espressi di recente dall’ex-ministro del Tesoro Giulio Tremonti in un intervento sul «Corriere». Una linea auspicata anche dall’attuale ministro del Tesoro Tommaso Padoa-Schioppa, sin da quando era nel board Bce. Se dovesse risultare che in fase di crisi le autorità non riescono a coordinarsi, dice in sostanza Bini Smaghi, si potrebbe rimettere in discussione l’architettura europea di vigilanza.

CORRIERE DELLA SERA, 30/9/2007
F.FUB.
MILANO – Dopo le tedesche IKB e Sachsen LB e l’inglese Northern Rock, arriva dagli Stati Uniti l’ultimo crac legato ai mutui americani cartolarizzati i («subprime»). NetBank, un istituto di credito della Georgia che opera attraverso Internet, ha chiuso venerdì sera dopo l’intervento delle autorità di vigilanza. Per gli Stati Uniti, si tratta del crac bancario di maggiori dimensioni dalla crisi creditizia dell’inizio degli anni 90.
Come già durante il caso Countrywide Financial in agosto, la reazione del sistema bancario è stata immediata.
Countrywide, il più grande istituto di credito immobiliare degli Usa, fu salvato da Bank of America. NetBank beneficerà ora del sostegno di Ing Direct, la sussidiaria del colosso assicurativo olandese che in Italia distribuisce «conto arancio». Ing ha comunicato ieri che acquisirà la clientela di NetBank e depositi assicurati per 1,5 miliardi di dollari. Per acquisire i depositi pagherà 15 milioni, più altri 724 per altri attivi di NetBank, che ha presentato richiesta di protezione dei creditori.
Ing Direct ha accelerato le operazioni di svantaggio di NetBank per varie ragioni, ha spiegato ieri al «Financial Times» il suo numero uno Arkadi Kuhlmann. La priorità non sembra essere stata il recupero del portafoglio clienti della banca americana. «Si tratta di salvaguardare la fiducia nel mercato – ha spiegato Kuhlmann ”. Dal momento che siamo la più grande banca diretta, siamo felici di aiutare».
Ad affossare l’istituto «online » sono state soprattutto le perdite sui mutui a rischio emessi, rivenduti ma finiti in insolvenza prematuramente. Le insolvenze rapide chiamano infatti in causa la responsabilità finanziaria dell’emittente, ma anche quelle di autorità di vigilanza che non sembrano aver sorvegliato efficacemente. La Federal Reserve del presidente Ben Bernanke è stata criticata per questi aspetti nelle ultime settimane, ma è l’intero sistema prudenziale statunitense che appare colto di sorpresa.

CORRIERE DELLA SERA, 30/9/2007
GIULIO TREMONTI
Caro direttore, finalmente un banchiere centrale che si rivela nello stesso tempo intelligente e coraggioso. Ho letto con molto interesse le dichiarazioni di Lorenzo Bini Smaghi sintetizzate ieri dal Corriere sotto il titolo «Mutui, le banche dichiarino le perdite. Serve un’ azione comune dell’Authority». Da una parte si rileva la «tendenza degli ultimi anni allo spostamento del rischio di credito al di fuori del mondo bancario». Dall’altra parte si formula l’ipotesi di «mettere in atto con urgenza una azione comune a livello internazionale, mirata ad indurre le principali istituzioni finanziarie a rivelare pubblicamente, entro una certa data, le rispettive esposizioni, secondo calcoli e metodi contabili trasparenti». Diversamente «il contagio difficilmente può essere evitato, soprattutto se si manifesta attraverso una perdita di fiducia degli intermediari stessi».
A partire da agosto nel mercato finanziario manca la fiducia. C’è la liquidità, ma non c’è la fiducia. Dire che c’è un mercato finanziario, ma senza fiducia, è come dire che c’è una Chiesa, ma senza fede.
Perché è scomparsa la fiducia? E come può essere ristabilita? Per quanto mi riguarda: a) la scissione tra «responsabilità» e «rischio» di banca, scissione che può essere operata incorporando il rischio in titoli girabili sul mercato, l’ho evidenziata per la prima volta come ministro dell’Economia e delle Finanze nell’audizione fatta in Parlamento nel gennaio 2004. Audizione che evidenziava i rischi di esplosione in Italia di crisi da
bond, titoli che incorporavano i rischi originari delle banche. Ho ancora avuto modo di evidenziare subito dopo, (inutilmente), interrogato nelle sedi internazionali sul caso Parmalat, che quello che era successo in modo domestico e folcloristico in Italia, poteva comunque succedere su scala sistemica e globale anche all’interno del mercato internazionale; b) il rischio di irradiazione dagli Usa di una crisi prima finanziaria e poi economica – crisi rispetto alla quale i cosiddetti
subprime sono stati solo una parte e non la maggiore – l’ho segnalata in una intervista sul Corriere del 12 novembre 2006; c) la proposta di un intervento rapido, mirato a ristabilire la fiducia tra gli operatori attraverso l’introduzione di regole contabili nuove, l’ho fatta da ultimo sul Corriere dell’11 agosto 2007.
Per seguire l’immagine fatta sopra, se si vuole ristabilire la fiducia come forma di fede reciproca, serve una «confessione » da parte degli operatori. La mia idea è che tanto le profonde trasformazioni intervenute negli ultimi anni all’interno del sistema finanziario, quanto l’arrivo conseguente di una crisi siano sfuggiti – e stiano sfuggendo – alla comprensione dei soggetti che avevano e hanno responsabilità istituzionali – individuali e collettive – in materia. Tanto di quelli in servizio, quanto di quelli in pensione. Una classe di soggetti che per inerzie o limiti culturali si è fatta e si sta facendo sorprendere passivamente da una «imprevista» cascata di fenomeni. E’ per queste ragioni che (forse mettendolo temporaneamente in imbarazzo) considero intelligente e coraggioso l’intervento fatto da ultimo da Lorenzo Bini Smaghi.


CORRIERE DELLA SERA 02/10/2007
Giancarlo Radice
Mutui, tremano Ubs e Citi Ma Wall Street festeggia. MILANO – Dalle grandi banche internazionali cominciano a uscire i dati sulle perdite accumulate per effetto della crisi finanziaria legata ai mutui subprime americani. Un’«operazione trasparenza» che contribuisce a mitigare i timori dei mercati. Tanto che Wall Street vola al record storico, con l’indice Dow Jones ampiamente sopra i 14 mila punti.
A segnare la giornata di ieri sono stati due colossi come Ubs e Citigroup. Il gruppo elvetico ha infatti annunciato di aver «ripulito» i suoi conti, accollandosi una perdita di 4 miliardi di franchi (circa 2,4 miliardi di euro) proprio a causa dei titoli legati ai mutui immobiliari. Ed ha accompagnato la decisione con un riassetto dei suoi livelli manageriali e l’avvio di un piano di riduzione di 1500 posti di lavoro. Quasi contemporaneamente anche l’altro big della finanza elvetica, il Crédit Suisse, ha reso noto che i suoi conti del terzo trimestre 2007 saranno molto al di sotto delle aspettative.
Poco dopo, in vista dell’apertura dei mercati Usa, è poi toccato a Citigroup, il maggior gruppo bancario mondiale per capitalizzazione, che ha annunciato una riduzione dei suoi utili netti trimestrali pari al 60%, dovuta a 1,3 miliardi di dollari persi sul fronte dei mutui e altri 1,4 miliardi di dollari svaniti nei prestiti concessi a società di private equity esposte con i titoli ad alto rischio dello stesso settore.
Una sequenza di segnali, insomma, che sui mercati finanziari è servita a rasserenare il clima: il fatto che emerga finalmente l’entità delle perdite viene infatti interpretato dagli investitori come il sintomo che la crisi innescata dai
subprime sia in via di esaurimento. Così, dopo aver aperto in territorio negativo sulla scia dell’annuncio di Ubs, le Borse europee poi cambiato rotta. A fine seduta Piazza Affari ha chiuso con l’indice S&P Mib in rialzo dell’1,32%, mentre a Parigi il Cac40 ha guadagnato l’1,01%, a Francoforte il Dax30 lo 0,77%, a Zurigo lo Smi l’1% e a Londra l’Ftse100 lo 0,6%. Altrettanto consistenti i rialzi sulle piazze americane, dove un forte impatto lo hanno avuto le parole del numero uno di Citigroup, Charles Prince, secondo il quale le perdite del terzo trimestre rappresentano sì un «impatto severo» (che accentuerà le pressioni degli azionisti perché lasci la guida del gruppo bancario) ma consentono di ripartire verso un’ultima parte dell’anno in cui «si dovrebbe tornare a un normale livello di redditività». A Wall Street l’indice Dow Jones dei titoli industriali ha così terminato la giornata con un più 1,38%, a quota 14.087 punti, mentre per il Nasdaq il progresso è stato dell’1,46%.
A contribuire alla performance delle Borse Usa è servita anche l’opinione dell’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, secondo cui la crisi di liquidità innescata dai mutui ad alto rischio potrebbe essere agli sgoccioli. E in questi senso vanno anche visti i nuovi report con cui proprio Citigroup ha alzato il giudizio di alcune grandi società di costruzioni immobiliari, da Pulte Homes a Countrywide Financial.



CORRIERE DELLA SERA 02/10/2007
Federico Fubini
E prima del crac i subprime erano oro. Per le banche. MILANO – Settimane fa, Henry Paulson si teneva accanto a George W. Bush mentre il presidente parlava al Congresso degli «eccessi del settore del credito». Poi è stato lo stesso ministro americano del Tesoro ad annunciare un’inchiesta sui derivati: «In particolare per prodotti complessi e poco scambiati, difficili da prezzare in tempi di stress».
Chissà che anche Paulson non possa contribuire all’indagine. Quando guidava Goldman Sachs, la prima banca d’affari di Wall Street è stata protagonista di una singolare progressione: più il boom dei prezzi immobiliari e delle rivendite dei mutui a rischio somigliava a una bolla, più Goldman scalava le classifiche di categoria. Nel 2004 era 12esima al mondo nella graduatoria dei protagonisti su un mercato che ora non si muove più, quello della cessione di obbligazioni basate su mutui immobiliari. Nel 2005 poi, l’anno su cui si registra il numero più alto di insolvenze, Goldman è salita al settimo posto: da 73 a 91 emissioni, da 24,8 miliardi a 46,7 miliardi di dollari di crediti legati a mutui per la casa cartolarizzati, cioè trasferiti dall’emittente al mercato.
Va detto che i dati dell’Investment Banking Group di Thomson Financial non distinguono fra mutui «buoni» e «cattivi », fra cartolarizzazioni con alla base debitori solidi o «subprime ». Questi ultimi pesano in generale per circa un quarto. Ma orientarsi non è un esercizio facile, perché proprio gli istituti spesso impacchettavano le varie categorie insieme in prodotti derivati come i Cdo («Collateralized debt obligations»). Un’industria enorme, con commissioni commisurate: le prime 25 banche al mondo hanno confezionato e scaricato fuori bordo, cioè sul mercato, mutui per 599,2 miliardi di dollari nel solo 2004. Nel 2005 la somma ha sfiorato i mille miliardi (959,7), poi la frenata del prezzo delle case e i primi scricchiolii nel 2006 (897 miliardi), infine il relativo calo nei primi nove mesi di quest’anno (619 miliardi). C’è una spia di come tutti sottovalutassero il rischio: la lista dei grandi rivenditori di crediti immobiliari coincide in buona parte con quella delle banche che hanno sofferto di più per i «subprime » nei loro stessi bilanci. Il campione mondiale di emissioni nel 2004 è Bear Stearns (73,3 miliardi), lo stesso istituto che ha perso due fondi troppo esposti su quella carta. Quarta e quinta poi le due banche che ieri hanno fatto chiarezza sui danni di stagione, Citi e Ubs. Nel 2005 invece vince con cento miliardi Countrywide (altra vittima illustre della crisi d’agosto), seconda Lehman Brothers, terza Royal Bank of Scotland. Sempre Lehman e Rbs si contendono il primo posto nel 2006 e nel 2007, con Deutsche Bank, Barclays e Crédit Suisse sempre nelle parti alte della classifica.
Se l’Europa è ben rappresentata, al pari delle banche di Wall Street, l’Italia non compare in graduatoria fino al 2006. Da allora, dopo la fusione con Hypovereinsbank, c’è Unicredit ma agli ultimi posti: 22esimo nel 2006, 25esimo nel 2007.



IL FOGLIO 03/10/2007
Sregolatezze. Citigroup, Unione di Banche Svizzere (Ubs) e Crédit Suisse denunciano forti perdite sui loro investimenti in subprime loans immobiliari Usa e altre perdite da ”finanza derivata”. Si tratta di cifre imponenti: 1,3 miliardi di dollari di perdite per Citigroup, per garanzie sui prestiti fatti per l’acquisto del controllo di imprese, cioè ”leveraged buy outs” di 600 milioni di franchi svizzeri (circa mezzo miliardo di dollari) per Ubs e di circa la metà per Crédit Suisse per i subprime Usa. E’ noto che il precedente presidente della Federal Reserve Alan Greenspan si rifiutò di adottare regolamentazioni delle nuove forme di credito effettuate dalle banche statunitensi, in nome di un liberismo anomalo: dato che tutte le banche dovrebbero sottostare ai parametri di Basilea per il rapporto fra i loro mezzi e i loro prestiti. Sembra di capire che una parte degli investimenti in subprime delle due grandi banche svizzere è stata effettuata con fondi di investimento, o altre ”società veicolo” formalmente separate, ma di fatto controllate. Ora la Banca d’Italia ha inviato alle banche una circolare per ricordare loro che le ”società veicolo”, che nella sostanza economica rientrano nel loro controllo, dovrebbero essere consolidate con la banca, per il calcolo del rispetto dei parametri di Basilea (quelli che Gianpiero Fiorani oltrepassò per raccoglier i mezzi per scalare Antonveneta senza che il governatore della Banca di Italia Antonio Fazio lo volesse rilevare, fatto che gli costò la destituzione). Se la Banca di Italia invia questa circolare è perché ci sono dubbi sul fatto che il consolidamento sia sempre avvenuto. La nozione di controllo di fatto di un veicolo finanziario da parte di una banca, si presta a interpretazioni diverse. E solo una accurata vigilanza permette di verificare se è avvenuto. E si presenta la questione dell’informazione pubblica sul rapporto fra la banca e il veicolo finanziario. Anche in Germania ci sono state lacune nella vigilanza per gli investimenti in subprime. Dunque questa crisi finanziaria non dipende da un eccesso di liquidità dovuta a tassi troppo bassi, ma dal fatto che non si sono applicate le normali regole alle spericolate operazioni in questione.

CORRIERE DELLA SERA, 5/10/2007
FEDERICO FUBINI
FRANCOFORTE – La Banca centrale europea ha lasciato invariati al 4% i tassi di interesse di Eurolandia, segnalando che la posizione «attendista » imboccata nel settembre scorso durerà ancora per alcuni mesi. Perché, ha spiegato il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, il quadro economico tracciato finora comprende ancora una «crescita sostenuta, intorno al potenziale» (pari al 2-2,5%), grazie anche alla crescita «robusta» proveniente dai Paesi emergenti. Tuttavia, questo scenario ora è circondato da «cautela» e, soprattutto, da «un aumento dell’incertezza» dovuto alla «volatilità dei mercati e al riapprezzamento dei rischi». Quasi a confermare le sue parole, ieri Deutsche Bank ha annunciato che «azzererà» attivi per 3,1 miliardi di euro, svaniti per le perdite sul mercato dei mutui Usa e dei titoli derivati. Gli utili trimestrali saranno comunque pari a 1,4 miliardi di euro, più degli 1,25 dello stesso trimestre 2006. Negli Usa, invece, cominciano a cadere le prime teste: Merrill Lynch ha infatti licenziato due alti dirigenti, Osman Semerci e Dale Lattanzio, con responsabilità sul fronte dei prestiti ipotecari ad alto rischio.
Proprio i timori dei mercati, secondo Trichet, rafforzano i «rischi sulla crescita», anche se per ora l’impatto sull’economia reale non è quantificabile. Quindi, ormai, per i banchieri centrali i tassi di interesse non sono più «accomodanti » (vale a dire espansivi), come invece avevano segnalato ogni mese degli ultimi due anni. In pratica, ha avvertito Trichet, abbiamo bisogno di «più informazioni e dati», sul «se e quando sarà appropriato contrastare i rischi alla stabilità dei prezzi». Questa frase segnala che la Bce per ora congela l’idea di aumentare i tassi. Ma che rimane «pronta ad agire in ogni momento» se dovessero aumentare i «rischi di inflazione».
Nel complesso Trichet quindi, secondo gli operatori, sembra più concentrato sui rischi sulla crescita che su quelli del caro-prezzi. E le preoccupazioni di Trichet sull’economia troveranno riscontro oggi, quando la Bce pubblicherà il rapporto sulla concessione dei crediti in Eurolandia. Lo studio mostra, come conseguenza delle turbolenze nei mercati, una restrizione dei prestiti alle famiglie e alle imprese, e soprattutto di quelli relativi a grandi transazioni di acquisto e vendita di società.
L’euro, dopo aver raggiunto un massimo di 1,4149 dollari, ha chiuso ieri in ribasso a quota 1,4109. Ma la situazione rimane delicata. E Trichet ha esortato i governi europei a mantenere nei commenti sulla forza dell’euro una posizione unica e disciplina verbale – altrimenti «c’è disordine» e incertezza sull’operato della Bce. Trichet ha anche rassicurato che «il tasso di cambio è uno dei parametri che influenzano i rischi sulla stabilità dei prezzi» nelle decisioni della Bce. E che comunque per i banchieri centrali «la volatilità eccessiva è molto controproducente per la crescita».
Quanto all’elevato livello dei tassi di interesse del mercato monetario, Trichet ha sottolineato che la causa non è di «giurisdizione» della Bce, bensì è imputabile al mercato degli Abcp («asset-backed securities ») e dei nuovi prodotti del mercato monetario. Il presidente della Bce si è detto «fiducioso » che le tensioni col tempo «saranno superate».

CORRIERE DELLA SERA, 7/10/2007
SERGIO BOCCONI
COURMAYEUR (Aosta) – La finanza globale, con gli eccessi e i carnevali del profitto, oggi è un’ombra. Lo hanno sostenuto ieri l’avvocato Franzo Grande Stevens e l’ex presidente della Consob Luigi Spaventa al convegno di studio «Adolfo Beria di Argentine» su «Proprietà e controllo dell’impresa: il modello italiano. Stabilità o contendibilità?». Convegno che nella seconda giornata si è occupato soprattutto della crisi che attraversa i mercati avviata dai mutui subprime.
Spaventa l’ha definita come un «deragliamento per eccesso di velocità di un impetuoso sviluppo della finanza che, in sé, non aveva nulla di patologico ». Sviluppo che dalla seconda metà degli anni Novanta ha visto l’affermazione di un «nuovo modello di trasferimento del rischio di credito: le banche concedono il credito, poi lo frammentano e lo distribuiscono con i rischi connessi a una miriade di prenditori non bancari di prodotti strutturati ». E’ il primo passo che porta ai «titoli salsiccia» che hanno dentro di tutto. Come ha detto il Governatore Mario Draghi, «il credito si compra e si vende sui mercati invece di essere tenuto sui bilanci degli intermediari finanziari». Il modello ha benefici iniziali (diversifica il rischio e dà l’accesso ai mutui a molti «svantaggiati»), ma quando viene meno una delle condizioni sottostanti favorevoli, i tassi bassi, dalla fisiologia si passa alla patologia, i modelli delle agenzie di rating si rivelano inadeguati (quando non ambigui, viziati da conflitto d’interessi), e le banche che avevano creato entità separate (i conduits) ed extrabilancio per l’attività su questo tipo di finanza devono far emergere i problemi tenuti fino allora «sotto la linea dei conti d’ordine». Crollano i valori e la liquidità si blocca perché nessuno più si fida delle controparti. Intervengono le banche centrali, colte di sorpresa.
Secondo Spaventa tre devono essere le linee di intervento: «Gli Usa devono regolamentare meglio i mutui; le agenzie di rating (che hanno invocato il "primo emendamento della Costituzione americana sostenendo che i loro giudizi rappresentano libera espressione del pensiero") devono accettare che i loro modelli siano sottoposti a esame pubblico, in vista di una loro revisione; gli organi di vigilanza devono essere in grado di valutare l’effettiva esposizione degli intermediari a specifici rischi e l’adeguatezza dei modelli di valutazione impiegati ». Il mercato intanto ha cominciato una cura drastica. E’ passato alla quaresima. Ma, dice Spaventa, «a lungo termine la memoria si fa corta e ci si avvia di nuovo al carnevale».
Il mercato globale colpito da eccessiva finanziarizzazione ha poi bisogno, sottolinea Grande Stevens, di «un’Autorità mondiale regolatrice o giurisdizionale, legittimata a irrogare sanzioni e a farle eseguire ». Anche perché i conflitti d’interessi diventano mondiali e si manifestano anche fra Stati. L’ambasciatore Renato Ruggiero ha parlato a proposito dei «fondi sovrani» che appartengono a stati di Paesi emergenti o produttori di petrolio. Fondi pubblici oggi dotati di risorse per 2.500 miliardi di dollari, destinati a diventare 12 mila miliardi nel 2012. Uno sviluppo gigantesco che può portare con sé giganteschi conflitti d’interessi.

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L’espresso 12/10/2007
VITTORIO MALAGUTTI
Le gravi distorsioni sul mercato del credito sono la vera questione su cui dobbiamo confrontarci... Giudizio netto. Parole dure. Chi le ha pronunciate? Un attivista no global? Un sindacalista? Un’autorità di controllo sulle Borse, preoccupata per la stabilità a breve termine dei mercati? Risposte sbagliate. A sorpresa, il pulpito da cui è arrivata questa severa presa di posizione sui guasti del sistema è quello del più potente banchiere d’affari del mondo. Lloyd Blankfein, numero uno della statunitense Goldman Sachs, marchio vincente della finanza internazionale, ha pensato bene di esternare le sue valutazioni sulla crisi di queste settimane. Lo ha fatto in una lunga intervista pubblicata giovedì 27 settembre dal ’Sole 24 Ore’. "Abbiamo sottovalutato i rischi", ha detto in sostanza Blankfein. E questo errore, ammette il banchiere, ha finito per alimentare quella bolla speculativa che secondo molti osservatori minaccia ancora di provocare disastri a catena sui mercati dopo gli scossoni della scorsa estate.

Errore? A ben guardare, quello che Blankfein, con il senno di poi, definisce un errore ha funzionato per anni come un gigantesco moltiplicatore di profitti per Goldman Sachs e anche per le sue dirette concorrenti. Nomi altisonanti: Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman, per citare solo le principali tra le banche d’investimento internazionali. Questi colossi della finanza globale sono riusciti a cavalcare alla grande il boom dei cosiddetti prodotti derivati. In sostanza, hanno costruito e venduto a peso d’oro strumenti finanziari tanto complessi che diventa praticamente impossibile valutarne la rischiosità e, di conseguenza, anche il prezzo. Morale: le banche hanno fatto soldi a palate scaricando sul mercato bombe finanziarie a orologeria.

Esemplare il caso di Italease. A fine luglio la Banca d’Italia, con una serie di telefonate informali, ha richiamato all’ordine alcuni istituti, tra cui Deutsche Bank e Bnp-Paribas, che a partire dal 2005 avevano contribuito ad allestire l’arsenale di prodotti derivati poi girati da Italease ai propri clienti. Nasce da qui il buco di quasi 500 milioni di euro nei conti semestrali della banca milanese. Solo che nella primavera scorsa, quando la crisi è esplosa, Deutsche Bank e gli altri erano già passati alla cassa, con guadagni complessivi per centinaia di milioni di euro. Un comportamento legittimo, ma giudicato probabilmente un po’ troppo disinvolto dal governatore Mario Draghi. Corsi e ricorsi storici: Italease si appoggiava alla filiale londinese della Deutsche Bank. La stessa che a suo tempo fece ponti d’oro ai furbetti del quartierino, da Stefano Ricucci a Gianpiero Fiorani.

Per fare un altro esempio tutto italiano, anche gli enti locali si sono trasformati in una miniera di profitti per i grandi marchi della finanza internazionale. Le obbligazioni emesse da Regioni e Comuni hanno garantito percentuali di guadagno enormi (a volte addirittura a doppia cifra) per gli istituti che, oltre a fare da advisor per il collocamento dei titoli, hanno anche allestito l’impalcatura di prodotti derivati costruita attorno a queste emissioni. Per contendersi questo redditizio (a dir poco) mercato sono scesi in campo operatori come l’americana Merrill Lynch e la giapponese Nomura, ma anche molti altri.

Per dare un’idea delle dimensioni dell’affare, basta dire che l’anno scorso il valore complessivo di questo tipo di operazioni ha superato i 10 miliardi di euro. "Ma quasi mai", sottolinea Marco Bigelli, ordinario di finanza aziendale all’università di Bologna, "gli enti locali possiedono le competenze necessarie a valutare le proposte dei loro consulenti". Come dire: campo libero alle banche tra sospetti e dubbi di ogni tipo, che, in qualche caso, hanno dato il via anche a indagini amministrative.

L’intervento di Draghi nel caso Italease viene interpretato dagli addetti ai lavori come un segnale chiaro che le autorità di controllo hanno finalmente alzato la guardia. Spiega Marco Onado, ex commissario Consob e professore all’università Bocconi: "Le grandi investment bank hanno preferito limitarsi a facilitare l’emissione di strumenti sempre più sofisticati trasferendo il rischio agli investitori finali". Per un po’ il gioco ha funzionato. Con i mercati finanziari inondati di liquidità grazie ai tassi d’interesse ai minimi storici, gli investitori erano convinti di guadagnare mettendosi al riparo dai rischi, mentre le banche gonfiavano il conto economico.

Poi, la scorsa estate, ai primi segnali della crisi innescata dai cosiddetti mutui subprime, il castello di carte ha cominciato a oscillare pericolosamente. E le banche d’affari, accusano molti operatori, sono state le prime a tirare i remi in barca, abbandonando al loro destino i clienti. Un esempio concreto. A cavallo tra agosto e settembre, su molti titoli strutturati è di fatto venuta a mancare la domanda. Non c’erano compratori. Eppure, sostengono numerosi addetti ai lavori, alcune banche avevano venduto questi prodotti impegnandosi, in caso di necessità, a fare mercato, cioè a intervenire in prima persona come acquirenti. Questo però non è avvenuto. Altrimenti non si spiegherebbe il crollo delle quotazioni.

Finite loro malgrado sul banco degli imputati, le grandi case d’investimento hanno avviato un’operazione trasparenza. E la sorprendente esternazione di Blankfein dalle pagine del ’Sole’ rientrerebbe in questa strategia. Del resto parlare non costa niente e i conti delle banche, grazie anche all’enorme dote di liquidità incamerata negli anni precedenti, quelli del boom, hanno fin qui retto senza grandi problemi l’impatto della crisi estiva.

Goldman Sachs ha addirittura annunciato un aumento dei profitti nel terzo trimestre. Morgan Stanley e Lehman se la sono cavata con cali marginali degli utili. Finora solo Citigroup e la svizzera Ubs sono state costrette a svalutazioni per miliardi di euro, ma entrambe, a ben guardare, sono anche banche commerciali e non fanno parte del club ristretto delle investment bank tradizionali.

I bilanci, però, non sono l’unico problema. A rischio c’è anche la reputazione, il più importante tra gli asset di una banca d’affari. Essere dipinti come speculatori che hanno alimentato i guasti del sistema non contribuisce certo a migliorare l’immagine di questi pesi massimi della finanza. D’altra parte, fare marcia indietro significherebbe mettere in discussione un modello di business che ha garantito enormi profitti e anche compensi stratosferici ai banchieri.

Blankfein, tra compensi e bonus vari, nel 2006 ha guadagnato circa 54 milioni di dollari (38 milioni di euro). John Mack, gran capo di Morgan Stanley, ha ricevuto l’anno scorso un premio di circa 40 milioni di dollari in azioni della banca. La media delle retribuzioni del 24 mila dipendenti di Goldman Sachs (segretarie e impiegati compresi) si aggira intorno ai 500 mila dollari l’anno.

Nate come semplici intermediari (broker) tra compratori e venditori di titoli, Goldman Sachs e le sue cugine hanno progressivamente invaso tutti i campi d’attività. Hanno investito prendendo posizioni in proprio su azioni e obbligazioni. Hanno finanziato acquisizioni aziendali in cui intervenivano anche come consulenti del compratore. Si sono trasformate in gestori di giganteschi fondi d’investimento. Tutto questo, come dimostrano i dati pubblicati in queste pagine, ha fatto aumentare ricavi e profitti a un ritmo senza precedenti. Allo stesso tempo, però, si sono moltiplicati anche i potenziali conflitti d’interesse.

In poche parole, i manager delle investment bank si sono trovati a fare concorrenza ai loro clienti. Per esempio, Goldman Sachs, Merrill Lynch e Lehman non hanno esitato a lanciare propri veicoli d’investimento per partecipare al boom delle acquisizioni aziendali che dagli Stati Uniti si è esteso al mondo intero a partire dal 2005. Questi fondi nuovi di zecca, però, sono diventati una minaccia per i tradizionali operatori del settore come Blackstone e il Texas Pacific group. I quali, a loro volta, sono da sempre clienti importanti delle banche d’affari.

Il conflitto è evidente, ma il mercato del private equity, alimentato dai bassi tassi d’interesse, garantiva affari d’oro. E Blankfein, così come i suoi colleghi, non ha voluto lasciarsi sfuggire neppure questa occasione. Lo stesso discorso vale per i prodotti derivati. Le investment bank sono diventate grandi operatori in proprio. Hanno aumentato i profitti, ma si sono prese anche rischi maggiori. Quanti esattamente? Difficile rispondere con precisione. Nell’aprile del 2006 una minuziosa inchiesta del settimanale britannico ’The Economist’ aveva segnalato l’opacità dei bilanci della Goldman Sachs. "Non si capisce da dove vengano i profitti", recitava testualmente l’articolo. La crisi dei derivati e della finanza strutturata era ancora lontana. Difficile che da allora i rischi siano diminuiti.

CORRIERE DELLA SERA, 9/10/2007
MILANO – Giorno dopo giorno la nebbia si dirada e il mercato sembra apprezzare anche le rovine, per il fatto stesso che ora sono più visibili. Nella lunga lista di annunci di perdite sui crediti, dovrebbe arrivare nei prossimi giorni il turno di JpMorgan Chase e Bank of America: se si sommano i passivi a bilancio dei due grandi istituti, secondo le stime di Howard Mason della Sanford Bernstein dovrebbe emergere quella che eufemisticamente viene chiamata un’«operazione pulizia» da circa tre miliardi di dollari.
Wall Street ha accolto le indiscrezioni lasciando il titolo di JpMorgan sostanzialmente invariato e limitando le perdite di Bank of America in linea con quelle dei principali listini newyorkesi di ieri. Giorni fa, Crédit Suisse e Citigroup avevano addirittura guadagnato terreno in Borsa per aver emesso entrambe allarmi sugli utili del terzo trimestre legati alla crisi d’agosto. Dopo mesi d’incertezza sull’entità del contagio da «subprime», i mutui americani a rischio, gli operatori reagiscono senza panico alla catena di rivelazioni dei protagonisti di Wall Street. Ma con il concatenarsi delle dichiarazioni, risulta sempre più chiaro che la correzione al ribasso dei valori non riguarda solo i «subprime» e il collasso del mercato immobiliare. Somme forse anche più elevate sono legate al finanziamento dell’ultima generazione di scalate del equity», l’industria dei fondi specializzati nell’acquisto di imprese a debito. Le offerte dei fondi erano sempre garantite dalle banche d’affari di Wall Street, che fornivano al «private equity» la consulenza e i crediti che poi cartolarizzavano sui mercati. Ma come nell’immobiliare americano, anche qui si è sviluppata una bolla di valutazioni sballate e poi un ingorgo nel tentativo delle banche di scaricare sugli investitori i loro crediti verso il «private equity».
Secondo Mason di Sanford Bernstein – come riportato dal «Financial Times» – l’aggiustamento di JpMorgan a valori di mercato per queste operazioni a leva arriverebbe a circa 1,4 miliardi di dollari solo sul terzo trimestre (pari a quelle di Citigroup). Le perdite sul reddito fisso garantito dall’immobiliare americano sarebbe invece solo la metà, a 700 milioni. Anche per Bank of America le cancellazioni di valore deriverebbero soprattutto da crediti offerti ai fondi-locusta: 700 milioni di «rosso », contro 300 milioni da «subprime».
Con queste cifre in gioco, per ora i grandi istituti di Wall Street avrebbero già cancellato dai bilanci in tutto circa una ventina di miliardi di dollari a causa della crisi nel mercato del credito: 5 miliardi solo per Merrill Lynch, 3,7 per Ubs, 3,1 per Deutsche Bank, 2,7 per Citigroup. Cifre alte in assoluto, ma minime se paragonate alle centinaia di miliardi di «subprime» cartolarizzati da 2004 in poi e all’ingorgo di operazioni del «private equity» bloccate presso le banche. Secondo le stime più diffuse, gli istituti sono da mesi fermi in coda per disfarsi di 300 miliardi di dollari di crediti da scalate a leva. «In un modo o nell’altro, alla fine troveranno anche loro un mercato – ha previsto ieri a Handelsblatt in capo di Goldman Sachs Lloyd Blankfein ”. In certi casi cambieranno le condizioni, falliranno le scalate: ma i problemi saranno risolti anche se non tutti ne usciranno contenti». Perché anche per il «private equity» che ha spinto le Borse e gli utili delle banche per gli ultimi anni, una pausa di riflessione non può più attendere.

IL FOGLIO, 9/10/2007
Sembrava a molti catastrofisti che l’economia americana colpita dalla bolla dei mutui immobiliari facesse rotta verso una catastrofe, tipo 1929, o fosse destinata a traccheggiare fra inflazione e stagnazione. Dopo la riduzione di mezzo punto del tasso di interesse del presidente della Fed, Ben Bernanke, giudicato come una sorta di omuncolo della corte di Bush, una nullità rispetto al mago Alan Greenspan, l’ipotesi catastrofista – che qui da noi aveva suggestionato da Eugenio Scalfari (’Il sisma nasce lì, nel cuore della Grande Mela”), all’antimercatista Giulio Tremonti, il quale non ama la finanziarizzazione dell’economia, passando per vari altri avversari dell’era Bush del capitalismo americano – aveva trovato gran credito. La mossa della Fed era apparsa come una decisone contraria alla linea di prudenza precedentemente dichiarata. Ora, però, i dati di agosto e di settembre dell’economia americana smentiscono queste valutazioni. L’occupazione negli Stati Uniti è aumentata di 80 mila unità in agosto (periodo per cui si prevedeva una diminuzione netta). Ed è cresciuta ancora di 100 mila in settembre, mese che sarebbe dovuto essere quello d’incubazione del crollo. I profeti di sventura, però, stavano per rialzare il capo venerdì sera quando è stato reso noto il dato della crescita dei salari americani: che è stata del 4,1 per cento anno su anno. Stavano per argomentare che l’annuncio della politica permissiva della Fed – generando la discesa continua del dollaro rispetto alle altre valute – avrebbe scatenato pressioni inflazionistiche nel costo del lavoro. Ma ora si apprende che in agosto il tasso d’inflazione degli Stati Uniti è risultato dell’1,8 per cento sia per l’inflazione ”core” depurata dai prezzi del petrolio e degli alimentari (condizionati da fattori esogeni internazionali e climatici) sia per quella generale. E’ un tasso minore di quello dell’Europa dell’euro, che si spiega con la maggior competitività e flessibilità del lavoro e del sistema di mercato statunitense, che ora si manifesta nella discesa dei fitti delle case. Ciò dà un margine di sicurezza alla riflazione monetaria attuata da Bernanke. E adesso l’economia americana naviga verso la ripresa.

CORRIERE DELLA SERA, 16/10/2007
ENNIO CARETTO
WASHINGTON – A vent’anni dal crac di Wall Street, quando il Dow Jones perse il 22%, le tre più grandi banche americane hanno formato un consorzio per prevenire un altro crollo di Borsa.
Confermando le anticipazioni del Wall Street Journal, il Citigroup, Bank of America e Jp Morgan Chase hanno ieri annunciato il varo di un superfondo di 80-100 miliardi di dollari, a cui parteciperanno anche altre banche e che entrerà in funzione entro 90 giorni. Il superfondo, chiamato M-Lec, da «Master liquidity enhancement conduit», acquisterà titoli garantiti dai mutui subprime, il ground zero della crisi immobiliare. Le obbligazioni, per un totale di oltre 400 miliardi, sono gestite dai Siv, società veicolo per investimenti strutturati collegate alle banche ma indipendenti da esse. Il solo Citigroup ha investito oltre 100 miliardi di dollari in uno dei Siv, e spera in un atterraggio morbido grazie al nuovo paracadute.
L’obiettivo dell’operazione è di finanziare i deficit che i Siv e le banche registreranno a causa della crisi, e di impedire quindi la caduta dei prezzi immobiliari e un’ulteriore restrizione del credito con grave danno alle economie oltre che alle borse. Il ministro del Tesoro Henry Paulson, che ha promosso il consorzio, si è detto «soddisfatto dalla risposta del settore privato» definendola «complementare alle altre misure adottate per rendere più efficiente il mercato». Per il ministro, col M-Lec «il mercato del credito a breve termine si consoliderà».
Ma Wall Street non ha condiviso l’ottimismo e il Dow Jones è sceso. Hanno pesato un calo del 57% degli utili trimestrali del Citigroup, e l’aumento del petrolio a 86 dollari.
«Le insolvenze continueranno » ha ammonito Charles Prince, presidente di Citi.
L’iniziativa del Tesoro è analoga a quella del ’98 per il salvataggio della Long Term Capital Management, un fondo sull’orlo del dissesto. Ma questa volta il consorzio sarà globale perché, ha ammonito l’analista Richard Bove, «i subprime sono una minaccia globale»: non a caso Citi, la Bank of America e la Jp Morgan hanno invitato ad aderirvi anche banche asiatiche ed europee quali la Hsbc. A parere di Bove, tuttavia, il superfondo non basterà a superare la crisi: «Limiterà le perdite, ma il governo sarà costretto a intervenire». Bove prevede che il Congresso dovrà riesumare la legge sul finanziamento d’emergenza dei mutui del ’70, quando i subprime non erano ancora così diffusi: «Troppe banche sono esposte come e più di Citi». A rabbuiare l’orizzonte, l’Economist ha ieri scritto che nel 2008 l’economia americana rallenterà bruscamente: la sua crescita sarà dell’1,2%, non del previsto 2,1%, farà meglio l’Ue con una crescita del 2%. L’euro, ha aggiunto la rivista, arriverà a 1,45 dollari. La Federal Reserve ribasserà però i tassi d’interesse, e nel 2009 l’America si riprenderà. Lo scenario appare realistico: negli Usa il deficit pubblico risale e le imprese riprendono i licenziamenti, preludio alla diminuzione di consumi e investimenti.
E in serata il presidente della Fed Ben Bernanke ha detto che l’intensificarsi della crisi immobiliare potrebbe diventare un «significativo » freno alla crescita dell’economia.

CORRIERE DELLA SERA, 16/10/2007
MASSIMO GAGGI
« NUOVO » SPITZER DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK – Lo «sceriffo dei mutui» è un omone di 45 anni scelto dagli elettori dell’Ohio come nuovo «Attorney General», il capo della magistratura dello Stato. Ex giocatore di football americano nei tornei dei college, noto per l’irruenza che lo faceva spesso finire al pronto soccorso, Marc Dann è stato eletto nel novembre scorso e, ad appena nove mesi dal suo insediamento, ha già lanciato una raffica di campagne giudiziarie: da un’offensiva contro la pedofilia nella quale ha chiamato in causa perfino la News Corp di Rupert Murdoch perché una sua società - MySpace - ha lasciato che persone già condannate per reati sessuali contro minori penetrassero nella sua «rete di socializzazione» via Internet, all’attacco alle «charter school»: questi istituti, gestiti da privati ma all’interno del sistema scolastico pubblico, sono stati introdotti per stimolare la concorrenza, ma in Ohio funzionano abbastanza male. Vista l’incapacità della politica di affrontare il problema, Dann ha pensato di risolverlo a modo suo: chiudendo queste scuole.
Ma è sulla crisi dei mutui «subprime» che il procuratore sta dando il meglio di sé, candidandosi a diventare il "nuovo Spitzer", emulo dell’ex «Attorney General» di New York (ora divenuto governatore dello Stato), soprannominato lo «sceriffo di Wall Street» per la durezza con la quale ha perseguito per anni i reati finanziari.
Dal lontano Ohio ora è Dann a mettere sotto tiro Wall Street con un’iniziativa che fa tremare la grande finanza e può avere un rilevante impatto politico su uno Stato-chiave nelle elezioni presidenziali del prossimo anno. Dilaniato dai contrasti interni e travolto dagli scandali, il partito repubblicano sta cercando di riorganizzarsi, ma a tenerlo in scacco è proprio Dann, dal quale dipende la sorte di una consistente schiera di politici indagati. Il fronte conservatore cerca di delegittimarlo sostenendo che la sua è «giustizia politica» e che anche il procuratore democratico non è «senza macchia», visto che in più di un caso ha dato la sensazione di «chiudere un occhio» davanti ai comportamenti poco corretti di società che hanno partecipato al finanziamento della sua campagna elettorale.
Ma Dann in questo momento ha una popolarità difficile da scalfire. Una popolarità conquistata proprio grazie all’inchiesta sui mutui. Alla quale l’ex giocatore di football è arrivato quasi per caso. A metà dello scorso anno, quando i sondaggi lo davano ancora indietro rispetto al procuratore (repubblicano) in carica, il tesoriere di Cleveland, una città devastata dalla ritirata delle industrie e dalla crisi degli alloggi, gli suggerì di centrare la sua campagna sui mutui. Questo, infatti, è un nervo scoperto soprattutto in Ohio, Stato che nel 2005 e nel 2006 ha registrato il più alto numero di «default»: i cittadini, cioè, che hanno perso la casa non riuscendo più a pagare le rate dei loro prestiti. Dann ha dato retta all’alto funzionario e il suo indice di gradimento si è immediatamente impennato. A novembre ha vinto col 53% dei voti e, poco dopo, ha lanciato la sua campagna giudiziaria.
Sotto tiro, ora, sono soprattutto le tre grandi società di "rating" - Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch - indagate dal capo della procura perché sospettate di aver dato una valutazione troppo «generosa » delle emissioni obbligazionarie legate ai mutui immobiliari. Una generosità, nello stabilire l’affidabilità degli investimenti esaminati, che deriverebbe non da un errore materiale, ma dall’ interesse di queste stesse società che dovrebbero essere arbitri non influenzabili, ma hanno un interesse oggettivo a che gli affari sottoposti al loro esame si concludano positivamente: le società di «rating», infatti, ottengono un guadagno per le loro analisi solo quando viene emesso il «bond». Se il loro giudizio severo spinge gli investitori a non rischiare e l’affare tramonta, non incassano nulla. Dann sta poi perseguendo anche una dozzina di società finanziarie accusate di aver emesso mutui a condizioni «predatorie».
Fino a qualche tempo fa l’opinione prevalente era che all’origine di quella che è forse la più grave crisi finanziaria dell’ultimo mezzo secolo ci fossero errori di valutazione, affari spregiudicati, ma non vere e proprie truffe. Pian piano, però, per banche e «arbitri» delle operazioni finanziarie il cielo ha cominciato a farsi cupo: l’Fbi sta verificando se, almeno nel caso dei mutui emessi con la garanzia dello Stato, tutte le regole e le salvaguardie sono state rispettate, mentre Andrew Cuomo, figlio dell’ex governatore Mario e attuale procuratore capo dello Stato di New York, ha iniziato a perseguire gli abusi commessi nelle perizie che fissano il valore degli immobili. A quanto pare, molte società hanno sistematicamente spinto i loro analisti a fornire stime "gonfiate". Le banche hanno così potuto emettere prestiti più consistenti, ma le famiglie si sono dovute assumere oneri più elevati e, al momento della crisi, chi ha investito i suoi soldi in titoli basati su "pacchetti" di mutui, ha subito perdite enormi: la vendita degli immobili ha, infatti, consentito di recuperare somme molto inferiori rispetto a quelle indicate dai periti nelle valutazioni iniziali.
Ma il vero rullo compressione di questa campagna giudiziaria è proprio lui, Marc Dann. Finanziarie e società di "rating" lo temono e fanno la fila davanti al suo ufficio anche perché, per legge, oltre che penalmente, il superprocuratore può perseguirle anche civilmente, reclamando danni miliardari per conto dei grandi fondi pensione dell’Ohio. Accusato dal "Wall Street Journal" di essere un "giustiziere" ammalato di protagonismo, lui non si nasconde: «Dite che esagero? Il mio mestiere è quello del poliziotto cattivo e in questi panni mi sento molto a mio agio, visto il mestiere che faccio e la gravità dei crimini che sono stati commessi».

DAGOSPIA 16/10/2007
8 - BANCA CINESE CITIC PENSA DI RILEVARE QUOTA IN BEARS STREARNS…
(Agi/Reuters) - La banca pubblica cinese Citic sta pensando di avanzare un’offerta per rilevare una quota della statunitense Bear Stearns. La conferma arriva da Jiang Dingzhi, vicepresidente della commissione sul controllo delle attivita’ bancarie cinesi. Bear Stearns e’ la piu’ piccola dei 5 grandi broker indipendenti di Wall Street ed e’ stata duramente colpita dalla crisi dei mutui. Il suo amministratore delegato, James Cayne aveva detto all’inizio del mese che la societa’ avrebbe preso in considerazione la possibilita’ di vendere una quota azionaria a un grosso investitore cinese o del medioriente. Tra gli altri possibili acquirenti di una quota di Bear Stearns ci sono Bank of America Corp, Wachovia Corp, China Construction Bank e il miliardario Warren Buffett. Citic e il settimo piu’ grosso istituto di credito cinese. Nell’aprile scorso ha debuttato in borsa a Hong Kong e Shanghai, raccogliendo 5,4 miliardi di dollari.
• Leo Longanesi ha scritto molti libri, ma ciascuno di essi è in realtà una variante o continuazione del precedente. Tutti appartengono a un genere letterario ibrido: diario, romanzo picaresco, raccolta di schizzi e bozzetti, massimario, collezione di aforismi. Il loro dato comune è rappresentato dalla presenza dell’autore come protagonista o spettatore. Anche quando Longanesi non scrive in prima persona e non descrive avventure o vicende a cui ha personalmente partecipato, il libro è sempre «autobiografico». Ed è anche, inevitabilmente, politico; come sono politici, del resto, i molti giornali che ha fondato a diretto nel corso della sua vita. Paradossalmente, tuttavia, niente è così poco afferrabile e descrivibile quanto la «politica» di Longanesi, vale a dire quell’insieme di concetti, teorie, dottrine che formano le convinzioni di uno scrittore, soprattutto quando è totalmente immerso nella vita pubblica del suo Paese. Conosciamo le sue letture giovanili. Sappiamo che ha letto Salgari con passione e che ha scoperto, subito dopo, Kipling. Sappiamo che è stato molto attratto da d’Annunzio e dalla lettura di Rubé, il romanzo di Giuseppe Antonio Borgese in cui è descritta la crisi morale di un giovane uomo deluso dai «miti eroici» della Grande guerra. Non ama De Amicis, non apprezza la retorica nazionalista e sociale di Enrico Corradini. Non mi sembra che in anni giovanili sia stato attratto dalla letteratura meridionale del primo Novecento (Verga, Capuana, De Roberto) o che abbia nutrito una particolare ammirazione per la grande letteratura italiana dell’Ottocento, da Manzoni a Nievo. evidente invece che ha una grande familiarità con Stendhal, Balzac, Flaubert, Maupassant, e con memorialisti, viaggiatori, autori di diari e cronache, soprattutto francesi: libri dove la politica è trattata generalmente in termini letterari e in cui la parola e la frase sono sempre più importanti della teoria. Fra le letture più propriamente politiche vi è certamente quella di Georges Sorel, teorico dei miti e dell’azione. Ma non sappiamo se e quanto abbia conosciuto e studiato il grande dibattito sul marxismo provocato, verso la fine dell’Ottocento, dal saggio di Eduard Bernstein sul revisionismo socialdemocratico. Se ha già letto, all’inizio degli anni Venti, Benedetto Croce o Giovanni Gentile, non sembra esserne stato sedotto. Conosce i movimenti letterari e le avanguardie, ma l’unico grande movimento che abbia lasciato qualche segno sul suo stile, pittorico, grafico e narrativo, è il surrealismo. questa probabilmente la ragione per cui nel 1926, dopo avere fondato L’Italiano, propose uno scambio di riviste alla redazione della Révolution surréaliste. Ma la risposta di Louis Aragon è sferzante: «Fateci il piacere di lasciarci in pace con il vostro letamaio fascista». I surrealisti si erano convinti che la loro «rivoluzione» fosse perfettamente in sintonia con quella dell’Ottobre bolscevico, e non intendevano avere rapporti di cuginanza con un foglio fascista. Avevano commesso un errore. Credevano di essere comunisti, ma erano fondamentalmente anarchici e avrebbero dovuto capire che Longanesi, anche se con caratteristiche alquanto diverse dalle loro, era un lontano cugino italiano. Come i surrealisti e molti dei suoi autori francesi preferiti (Charles Péguy, ad esempio), Longanesi è figlio di quella corrente delusa dalla democrazia e antiparlamentare che ha distinto una larga parte della cultura europea agli inizi del Novecento. Non ha una formazione teorica, non è un pensatore politico, non è un agitatore rivoluzionario. Ma prova una forte antipatia per la democrazia borghese e per i suoi vizi: il chiacchiericcio dei parlamenti, le clientele, la compravendita dei voti, l’ipocrisia dei nobili sentimenti umanitari e l’affarismo, l’abissale divario fra la retorica dei grandi principi universali e il tran tran dei compromessi quotidiani. Mussolini gli piace perché è energico e risoluto. Si iscrive al partito fascista perché gli sembra essere l’unico movimento capace di spalancare le finestre del Paese e di lasciare entrare una ventata di aria fresca. Quando appare nella vita culturale italiana verso la metà degli anni Venti, tuttavia, Longanesi è già un fascista anomalo. Conosce l’Italia che non gli piace molto più di quanto non riesca a immaginare quella che dovrebbe sostituirla. Ha una penna corrosiva e pungente che può tagliare a pezzi le vittime della sua derisione. Sa già quali siano i personaggi della società e i tipi umani che desidera esporre al pubblico ridicolo. disegnatore, pittore, grafico e ha già impaginato nella sua mente un gran numero di riviste, libri, copertine, fregi e risvolti. I suoi caratteri tipografici preferiti sono i Bodoni, vale a dire i più classici, austeri ed eleganti della tradizione italiana. Ma non resiste alla tentazione di impreziosirli con un «ornato» che appartiene al gusto tipografico della seconda metà dell’Ottocento: una combinazione che produrrà più tardi una specie di classicismo rococò. Ha insomma una straordinaria somma di talenti, ma deve metterli al servizio di una idea. Si potrebbe sostenere che Longanesi, sin dall’inizio della sua carriera, è uno Stile alla ricerca di una Ideologia. Quella dell’Italiano, la sua prima rivista importante, è «Strapaese», il movimento anti-internazionalista, nazional-popolare e orgogliosamente provinciale che pretende di riportare alla luce i caratteri originali dell’identità nazionale italiana. Per i suoi partigiani, l’italiano è naturalmente sobrio, austero, rurale, inventore di forme semplici ed essenziali, impregnato da una religiosità che è stata modellata dalla tradizione cattolica. L’ideologia di Strapaese è una classica «invenzione della tradizione», la fabbricazione di un passato fittizio da cui è stato espunto tutto ciò che contraddice la teoria. Ed è soprattutto l’ennesima espressione di un motto – «l’Italia farà da sé» – con cui la classe dirigente italiana ha spesso cercato di esorcizzare l’arretratezza e la fragilità dell’Italia nel contesto internazionale. Grazie a Papini, Soffici, Malaparte, Maccari e Longanesi, tuttavia, Strapaese sarà per alcuni anni l’equivalente italiano del Sonderweg tedesco, la formula esclusivamente nazionale, ricavata dal proprio passato, con cui l’Italia dovrebbe «marciare» verso il futuro e divenire grande potenza, senza dover necessariamente percorrere le grandi tappe della rivoluzione borghese in Inghilterra e in Francia. Nella foto tonda: un disegno dal libro di Longanesi «Il Generale Stivalone». Nella foto rettangolare: il suo quadro «Ufficio informazioni» dal catalogo della mostra milanese del 1996-97
• Non era certo facile imbastire un qualsiasi discorso dopo lo scontro epico fra Giuliano Ferrara e Tariq Ramadan (se mai avessimo avuto qualche dubbio sulla doppiezza di Ramadan, il suo intervento ha fatto capire quanto sia difficile dialogare con una cultura che pur non accettando le altre pretende di essere accettata); no, non era facile e perciò l’investitura a nuovo segretario del Pd di Walter Veltroni da parte di Daria Bignardi ci ha riportato nel piccolo orto della nostra politica: Le invasioni barbariche (La7, venerdì, ore 21.47). Ma qui si parla di tv, non di massimi sistemi, e l’aspetto più interessante della trasmissione è stato lo scontro a distanza fra Mauro Corona e Stefano Ricucci, fra l’uomo che parla alle piante, il rude montanaro, il non riconciliato con la civiltà e il «furbetto del quartierino», l’ex marito di Anna Falchi, l’«odontotecnico di Zagarolo». Ebbene, la batracomiomachia, la controversia futile, perché di questo si tratta, è stata vinta alla grande da Ricucci. La tv t’inganna una volta, non la seconda. Corona era insopportabile, come il fotografo suo quasi omonimo. Era lì a impersonare la parte del montagnolo scarpe grosse e cervello fino, del selvatico che rifugge l’uomo per rifugiarsi nel seno materno della natura e concede alle virtù della società tecnologica solo la motosega, e basta. Ma intanto, da autore bestselling, sfoggiava di continuo citazioni, era al corrente dell’audience ottenuta con la sua prima apparizione alle Invasioni e della vendita dei suoi libri. Ho persino letto da qualche parte che si serve di un agente letterario. La recita era così evidente che persino Daria Bignardi gli ha posto con gentilezza la fatidica domanda: ma lei ci è o ci fa? Meglio, molto meglio Stefano Ricucci: magari nasconde segreti aberranti ma almeno non se la tira: è gentile nei confronti della sua ex signora, non si atteggia a vittima, ha la battuta pronta, non studiata. Mettiamo pure che reciti, ma almeno recita con più garbo di Corona. Tutti fingono in tv, da Ramadan a Corona. Vi è grande disinvoltura fra i fantasmi, un gioco perfido da ombra a ombra, nostri fratelli di nebbia. www.corriere.it/grasso
• «Gli uragani, violenti e distruttivi, sono ancora un enigma per la scienza». Kerry Emanuel del Massachusetts Institute of Technology, grande specialista di questi fenomeni che con tragica puntualità si abbattono ogni anno su vaste regioni del pianeta, non fa mistero dei tanti punti oscuri che li caratterizzano. E li spiegherà con dovizia di dettagli sabato 13 ottobre a BergamoScienza. «Anzi – dice con pragmatismo da scienziato – fino a quando non sono arrivati i satelliti eravamo disarmati, non riuscivamo quasi nemmeno a contarli, e inseguirli con gli aerei o le navi era un’impresa ardua. Poi, grazie agli occhi elettronici dei robot cosmici dagli anni Settanta abbiamo incominciato seriamente le indagini; ma la scienza degli uragani è ancora giovane». Intanto sarà utile far chiarezza sui nomi. E bisogna ricordare che stiamo parlando di cicloni tropicali chiamati uragani nell’Atlantico settentrionale e nel Pacifico settentrionale a est della linea del cambiamento di data, mentre ad ovest di questa sono detti tifoni. Altrove sono cicloni con l’aggiunta di qualche aggettivo come ad esempio tropicale. La loro potenza è classificata a cinque livelli secondo la scala Saffir-Simpson che fa riferimento soprattutto alla velocità del vento per cui abbiamo una categoria uno con una velocità tra i 118 e i 152 chilometri orari arrivando alla categoria cinque con raffiche superiori ai 248 chilometri orari. Comunque, dopo oltre trent’anni di ricerche anche dallo spazio, gli uragani conservano sempre quattro grandi misteri. PERCH COS INTENSI – Il primo enigma riguarda l’intensità. «A partire dagli anni Settanta l’energia media rilasciata – dice Kerry Emanuel – è aumentata del 70 per cento riferendomi sia alla velocità del vento sia alla loro durata, cresciuta del 60 per cento. Si tratta di valori ben superiori alle previsioni dei modelli teorici. Di certo sappiamo che questi record sono correlati all’aumento della temperatura superficiale degli oceani nelle zone tropicali le quali sono la culla dei terribili fenomeni». Ma la diversità rispetto al passato rimane da spiegare con la necessaria precisione. PERCH QUESTO NUMERO – Ogni anno il numero degli uragani è intorno a 80-90. Ma perché non sono 20 oppure 200? «Se riuscissimo a rispondere a questa domanda – dice Guido Visconti dell’Università de L’aquila – sapremmo predire il futuro. Nel periodo 1995-2004 si sono avuti in media per l’Atlantico 14 tempeste tropicali otto delle quali sono diventate uragani raggiungendo, per la metà, il massimo della categoria. A livello globale non ci sono grandi variazioni. Il minimo si è avuto negli anni Settanta e un picco tra il 1990 e il 1994». PERCH NON SI SPIEGA L’ORIGINE’ La genesi e l’evoluzione di un uragano dipende da una serie di fattori sui quali si sono raccolti finora ancora pochi dati sperimentali. Perciò la loro origine non è ben spiegata, ma anche la previsione del tragitto è difficile soggetta com’è a fenomeni caotici. «In questi anni abbiamo compiuto alcuni progressi – nota Kerry Emanuel – ma ancora non siamo riusciti a capire come si formino esattamente. Questo può dipendere dal fatto che ci siamo concentrati molto sulla dinamica del fenomeno e poco sulla termodinamica, vale a dire sul bilancio energetico che sta alla base dell’evento. Quando avremo decifrato questi aspetti fondamentali potremo formulare previsioni più attendibili sul loro comportamento. Di certo i nuovi satelliti ci danno una mano significativa e già si sono ridotte di molto le vittime negli ultimi anni». PERCH NIENTE URAGANI NEL MEDITERRANEO – «Nel Mediterraneo non si sono mai osservati uragani – spiega Guido Visconti – anche se formazioni simili si sono verificate in passato; nel gennaio del 1995 e del 1982 ma anche nel settembre del 1947, del 1969 e del 1973. Le condizioni climatiche del Mediterraneo sono molto marginali rispetto alla formazione degli uragani e un ostacolo al loro sviluppo è anche rappresentato dalla limitata estensione del mare». «Ma al di là dei problemi scientifici – conclude Kerry Emanuel – bisogna occuparsi di quelli sociali inevitabilmente legati. E ciò indipendentemente dal riscaldamento globale del pianeta. Quanto sia indispensabile ce lo ha insegnato l’uragano Katrina che si è abbattuto sul sud degli Stati Uniti nel 2005 con la forza devastante di una guerra». Giovanni Caprara
• MOSCA – Tre ore di fila in tv a rispondere alle domande del Paese, paragonandosi al Roosevelt che rilanciò l’America dopo la Grande Crisi del 1929 e insistendo sul tasto del nazionalismo e della Grandezza Russa. Con l’annuncio di nuovi missili e sottomarini nucleari per rendere il Paese sempre più forte di fronte a qualsiasi minaccia esterna. «Per fortuna la Russia non è l’Iraq! E’ in grado di difendere i propri interessi». Vladimir Putin ha usato per questa esibizione di muscoli e di capacità politiche l’ormai tradizionale appuntamento annuale con gli ascoltatori che pongono domande da ogni parte del Paese. E in quello che può apparire come un ritorno a vecchi espedienti propagandistici, la tv ha brevemente interrotto il collegamento con il Cremlino per mostrare l’avvenuto lancio di un missile intercontinentale. Da un poligono nel nord della Russia europea alle 9.10 è partito un Topol (naturalmente senza testata nucleare) che in 20 minuti ha raggiunto la penisola di Kamchatka, in Estremo Oriente, a settemila chilometri di distanza.
Poi il presidente ha risposto alla domanda dei militari della base. Gli Stati Uniti ultimamente stanno mostrando una certa buona volontà nel tener conto delle rimostranze russe sulla difesa missilistica che vogliono installare in Europa. Ma se non si arriverà ad un accordo, «allora noi sicuramente prenderemo misure adatte », ha assicurato Putin. «Svilupperemo la tecnologia missilistica, inclusi sistemi strategici completamente nuovi... Non ci concentreremo solo sulla classica triade nucleare – forze missilistiche strategiche, aerei e sottomarini – ma anche su altri tipi di armi». Si parla di missili a testata nucleare multipla Rs 24, di sistemi tattici (a breve gittata) da installare nella regione di Kaliningrad, incastonata tra Polonia e Lituania e di nuovi vettori intercontinentali più potenti e precisi dei Topol.
Agli Stati Uniti Putin ha anche ripetuto che dovranno fissare una data per il ritiro dall’Iraq («altrimenti gli amministratori iracheni non si assumeranno mai le loro responsabilità ») e che è sbagliato minacciare l’Iran: «Il dialogo è sempre più promettente ». Il presidente russo ha fatto capire di ritenere che in fin dei conti gli Usa siano in Iraq «anche per stabilire il controllo sulle riserve di petrolio ». E a un ascoltatore che ricordava un’affermazione dell’ex segretario di Stato Albright sulla Siberia «troppo grande e ricca per un Paese solo», ha risposto senza esitazione «si tratta di erotismo politico che non porta da nessuna parte».
Buona parte delle tre ore di colloquio sono state dedicate a problemi interni, dal prossimo aumento delle pensioni (in vista delle elezioni) ai risultati ottenuti nel Paese sotto la sua guida, col paragone al New Deal americano. Putin ha parlato anche del futuro, quando «al Cremlino ci sarà un’altra persona». Il presidente ha detto che non devono essere aumentati i poteri del primo ministro, facendo così vacillare le certezze sull’idea che lui stesso possa occupare quel posto dopo aver lasciato il Cremlino. Putin ha affermato che al centro del potere russo debbano esserci la presidenza e il parlamento. E ha manifestato il timore che il prossimo presidente possa far deragliare il treno da lui messo in moto.
Alle elezioni politiche di dicembre Putin sarà in testa alla lista del partito Russia Unita. Così adesso si ipotizza anche che il suo prossimo ruolo possa essere quello di guidare il Paese da capo della maggiore fazione parlamentare, probabilmente con un presidente debole.
• Nella dichiarazione finale di Teheran i cinque presidenti dei Paesi che si affacciano sul Caspio hanno dedicato un paragrafo allo storione. Va protetto dalla pesca di frodo e dall’inquinamento. Giusto. Su questo punto i leader di Iran, Russia, Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan si sono trovati d’accordo. Poche righe più avanti hanno sostenuto la necessità che i futuri accordi sul Caspio rispettino le sovranità dei cinque Stati. E anche su questo si sono trovati d’accordo. A parole. Perché il controllo delle acque – come delle risorse energetiche della regione – è al centro di un’aspra contesa. Rivalità locali complicate dall’aggressiva campagna di società occidentali decise a ottenere buoni contratti e dalla nuova competizione Usa-Russia.
La scontro tra i «pescatori» parte – come ricorda l’Herald Tribune ”
da una diatriba: il Caspio è un mare o è un lago? Nel primo caso va diviso in cinque parti tenendo conto della lunghezza di costa di ogni Paese che disporrà come crede delle risorse contenute. Nel secondo caso gli Stati dovrebbero affidarsi a intese ad hoc. Difficile però trovare l’intesa quando c’è di mezzo il petrolio. Iran e Urss avevano stabilito che il Caspio dovesse essere considerato un lago e quindi potevano dividersi equamente lo sfruttamento. Ma con il disfacimento dell’Unione Sovietica attorno al tavolo si sono presentati altri tre commensali, pronti a reclamare la propria fetta di torta. All’inizio, Azerbaigian, Turkmenistan e Kazakistan hanno accettato di rispettare le vecchie regole. Un assenso poi messo in discussione – ricorda ancora l’Herald Tribune – dal governo di Baku nel 1998. L’Azerbaigian definì il Caspio un «mare», quindi serviva una nuova divisione. Prospettiva che ha allarmato Mosca e Teheran, entrambe penalizzate dalla possibile ripartizione. Ai sospetti di natura economica si sono aggiunti quelli politici. L’Azerbaigian mantiene ottimi rapporti con Israele – si racconta che il Mossad garantisca la protezione del presidente Aliev – e con gli Stati Uniti, visti da russi e iraniani come degli intrusi.
Nell’impossibilità di trovare una mediazione e preoccupata di contrastare il passo agli americani, Mosca ha cercato la via degli accordi separati. Putin ne ha firmato uno con l’Azerbaigian e un altro con il Kazakistan, lasciando fuori dalla porta gli ayatollah. La mossa ha accresciuto la diffidenza del-l’Iran, già isolato per la sua politica in Medio Oriente e i programmi di riarmo. I mullah hanno puntato le loro antenne verso il confine nord in cerca di segnali. La comunità azera in Iran e lo stesso Azerbaigian nell’interpretazione di alcuni analisti potrebbero fare da sponda a manovre straniere (americane). Inquietudini condivise dai russi dopo un paio di ceffoni dati dal vicepresidente Dick Cheney in visita nella regione. Pesanti attacchi verbali nei confronti di Vladimir Putin lanciati usando come podio le capitali di Kazakistan e Azerbaigian.
Agli occhi del Cremlino, gli americani stanno perseguendo un’agenda precisa nell’area del Caspio mirata a ridurre l’influenza russa e ad ottenere vantaggi per le loro compagnie. Non è un mistero che gli Stati Uniti si sono pronunciati a favore dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, la pipeline che permette di trasferire il greggio dalla Georgia alla Turchia senza passare per il territorio russo. Ancora più ambizioso il progetto di una condotta per il gas naturale sull’asse Turkmenistan-Azerbaigian- Europa occidentale passando sul fondo del Caspio.
Un intreccio di relazioni circondato da un gioco di ombre, baratti e allusioni. Tra i cinque del Caspio, russi e iraniani sono lesti nel segnalare gli intrighi dei nemici esterni, presunti perturbatori e soprattutto pericolosi concorrenti commerciali. Ricevendo il presidente azero Aliev, l’ayatollah Khamenei «si è detto sicuro che l’Azerbaigian sarà forte abbastanza per resistere a quanti si oppongono a migliori relazioni tra i due Paesi». Vladimir Putin si è fatto precedere dalla voce di un complotto per ucciderlo e seguire dall’annuncio che il programma nucleare iraniano non è pericoloso. Per questo non ha alcuna intenzione di sospendere l’assistenza tecnica agli iraniani determinati a dotarsi della Bomba. Chissà che il dossier atomico non diventi una preziosa moneta di scambio insieme al petrolio e, perché no, allo storione del Caspio.
• BERLINO – Ci sono storie che, come i peggiori fantasmi, restano nell’aria per decenni. Poi, all’improvviso, si materializzano e lasciano senza fiato. Questa è una di quelle. La notte tra il 24 e il 25 marzo 1945, le truppe dell’Armata Rossa erano a 15 chilometri dal castello di Rechnitz, sul confine tra Austria e Ungheria, residenza di Margit Thyssen-Bornemisza, maritata al conte Ivan Batthyany. Che il Terzo Reich fosse al crollo era chiaro, ma gli dei caduti erano più sprezzanti e mostruosi che mai. Margit organizzò l’ultima festa: 40 persone, tra Gestapo, SS e giovani nazisti.
Fino a mezzanotte, balli, vino, liquori. A quel punto, però, serviva qualcosa di speciale che potesse fare ricordare quei momenti cruciali. Franz Podezin, un amministratore della Gestapo che aveva anche una relazione sessuale con la Thyssen-Bornemisza, prese l’amante e una quindicina di ospiti, li armò e li accompagnò a una vicina stalla. In alcuni locali del castello, erano ospitati (in condizioni tremende) circa 600 ebrei che avevano il compito di rafforzare le difese della zona e Podezin ne aveva presi 200, non più in grado di lavorare, e li aveva portati in quella stalla. Raggiuntala assieme agli ospiti li invitò a sparare «a qualche ebreo».
Cosa che i pazzi ubriachi fecero dopo avere fatto denudare le vittime. Un massacro. Un certo Stefan Beiglboeck, la mattina dopo, ancora si vantava di averne massacrati sei o sette a mani nude. Tutti morti, tranne 15 che dovettero scavare le fosse e che il giorno successivo furono ammazzati a loro volta. I sovietici arrivarono pochi giorni dopo, il 29 marzo, e il 5 aprile compilarono un rapporto nel quale dicevano che «in tutto sono state trovate 21 tombe» ciascuna delle quali conteneva dai dieci ai dodici corpi. «Apparentemente – aggiungeva – sono stati colpiti con bastoni prima di essere uccisi» con armi da fuoco. Il documento fu ritenuto propaganda comunista e dimenticato. Poi, negli Anni Sessanta, alcuni processi per stabilire i fatti finirono in nulla dopo l’omicidio di due testimoni chiave. Un giornalista austriaco, negli Anni Ottanta, abbandonò un’inchiesta dopo avere ricevuto minacce. E una registrazione inviata alla tv viennese Orf, nella quale una vecchia testimone oculare raccontava la sua storia, andò perduta.
Margit Thyssen-Bornemisza scappò in Svizzera, dove il padre Heinrich aveva vissuto durante la guerra – a villa La Favorita di Lugano – e da dove aveva diretto le forniture di acciaio e munizioni che le sue fabbriche garantivano al Terzo Reich. Morì nel 1989, mai perseguita, dopo essere tornata sul luogo del massacro, per una battuta di caccia.
Questo è il terribile segreto dei Thyssen-Bornemisza così come lo ha ricostruito e raccontato David Litchfield, un autore inglese, qualche giorno fa sull’Independent di Londra e, ieri, sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, probabilmente il giornale tedesco più autorevole. E qui sta la parte interessante dello sviluppo che potrebbe avere la storia: per la prima volta, in Germania si parla apertamente di una vicenda che tocca il cuore della famiglia Thyssen, una delle più famose e ricche d’Europa, industriali, collezionisti d’arte e jet-set di prima fila. Che la dinastia si fosse arricchita con le forniture militari durante la prima guerra mondiale e poi durante il nazismo è cosa nota anche se poco raccontata. Ora, però, le accuse arrivano direttamente in casa, in Germania. Ed è quella notte del marzo 1945 che può diventare il tragico fantasma dei Thyssen-Bornemisza.


IL FOGLIO 19/10/2007
Henry Paulson, dopo avere escogitato una soluzione conforme al mercato per i Siv (Special Investment Vehicles) delle grandi banche in crisi di liquidità, consistente nel Fondo privato di 75 miliardi che ne comprerà i titoli e si finanzierà a breve con la garanzia delle banche madri, senza che queste debbano disporre di parametri patrimoniali aggiuntivi, ora si preoccupa di un altro aspetto della crisi: le insolvenze di proprietari che hanno contratto i mutui. In caso di carenza di mezzi per pagare le rate dei mutui, ci saranno famiglie assoggettate al sequestro degli immobili. Accanto al problema economico e sociale che così si può determinare per le famiglie coinvolte – destinate a crescere – ci sarebbe anche una caduta dei corsi degli immobili, dovuta alla loro vendita massiccia da parte delle banche. Peraltro esse si rifarebbero solo parzialmente data la probabile diminuzione dei valori delle case. Secondo Paulson, le banche dovrebbero convertire gli attuali mutui in altri a più lunga scadenza con rate, di conseguenza, minori. Avrebbero convenienza a farlo, perché hanno interesse a evitare che gli immobili, che costituiscono la loro garanzia, perdano di valore. Dovrebbero, pertanto, unirsi in pool con gli operatori che hanno comperato i loro debiti, imitando il fondo privato costituito come ombrello per le Siv. In tutti i casi di doppia o anche tripla cartolarizzazione dei debiti, il pool di banche può risolvere il problema della collaborazione fra operatori che hanno acceso i mutui e operatori che li hanno acquistati.
Paulson, con la competenza acquisita quando era ai vertici di Golsman Sachs, saprà trovare gli incentivi alla formazione di questi pool, mantenendo la sua linea per cui il Tesoro non deve impiegare denaro del contribuente per risolvere problemi del mercato. Tuttavia questo tipo di rimedi può incontrare alcune difficoltà logistiche. Ma il governo federale degli Stati Uniti ha una banca pubblica, la Home Depot, competente per il credito alla casa, che può effettuare i rifinanziamenti a lungo termine suggeriti da Paulson. Si tratta di fare in modo che abbia i mezzi adeguati all’ordine di grandezza del problema.

LA REPUBBLICA 19/10/2007
HUGO DIXON
I problemi che affliggono i mercati finanziari saranno al primo punto dell´ordine del giorno del prossimo vertice G7 a Washington. Sono due le cose che i ministri capitanati dallo statunitense Hank Paulson e le banche centrali dovrebbero fare per evitare il ripetersi della crisi. Così come sono due le tentazioni a cui non dovrebbero cedere. Riguardo alle prime, sarebbe bene ammettere che a innescare la bolla creditizia è stato l´allentamento monetario che ha caratterizzato gli ultimi anni, giacché senza la bolla non ci sarebbe stato alcun collasso. Chiedersi come questo particolare possa essere sfuggito alle banche centrali è più che lecito. La risposta sta nel fatto che, presi per mano dall´ex numero uno della Federal Reserve, Alan Greenspan, gli istituti centrali erano troppo intenti a controllare i prezzi al consumo, che però rappresentano solo uno degli aspetti dell´inflazione. chiaro quindi che, in futuro, le banche centrali dovranno controllare anche i prezzi degli asset. In secondo luogo, il G7 è chiamato ad approfondire anche le modalità con cui le banche vengono regolamentate. L´attuale sistema incoraggia le banche a fare affidamento sul prestito a breve scadenza e ad investire in attività illiquide a lungo termine, come i mutui. Un modus operandi che dà i suoi frutti, almeno fino a quando la liquidità sgorga nel circuito, giacché il denaro a breve termine è più a buon mercato rispetto a quello a lungo termine. Questo modo di procedere rende però l´intero sistema finanziario vulnerabile a una crisi di fiducia, come quella registrata lo scorso agosto. La soluzione sta quindi nel rielaborare le regole internazionali sui capitali bancari: più le banche fanno affidamento sui fondi a breve termine, maggiore sarà il cuscinetto finanziario di cui dovranno disporre.
Capitolo tentazioni. I membri del G7 dovrebbe resistere e non regolamentare gli hedge fund. Un´idea che piace a Francia e Germania. Va considerato il ruolo marginale rivestito dagli hedge fund nell´ambito della crisi creditizia, senza contare che un´eventuale regolamentazione delle loro attività si rivelerebbe con tutta probabilità un´azione inefficace oltre che tirannica. Meglio regolamentare come si deve le banche, anche perché evitando loro di avventurarsi in finanziamenti rischiosi si corre meno il rischio che esse offrano denaro facile a società-veicolo non regolamentate come i «conduit», che di danni ne hanno causati tanti nell´ambito della crisi. Mentre agli hedge fund dovrebbe essere consentito di autodisciplinarsi.
La seconda tentazione da cui il G7 deve guardarsi è la regolamentazione delle agenzie di rating. Dopo tutto, società del calibro di Moody´s e S&P´s avevano appioppato rating AAA ai mutui sub-prime statunitensi, il cui valore è poi crollato. Anzi, il G7 dovrebbe cercare di deregolamentare anziché regolamentare le agenzie. Il fatto che i loro rating abbiano tanta influenza sui mercati è dovuto alla semiufficialità ad essi attribuita secondo la legge statunitense e al modo in cui essi vengono recepiti nei regolamenti internazionali sui capitali bancari. Tolta la semiufficialità, le valutazioni di queste agenzie diventerebbero comuni opinioni alla stregua di quelle fornite da altri. Se Paulson e colleghi riusciranno a marciare in questa direzione renderanno il sistema finanziario mondiale molto più sicuro in futuro, senza peraltro pregiudicarne la vivacità.
e Edward Hadas
(Traduzione a cura di Mtc)

DAGOSPIA, 19/10
5 – DERIVATI E AVARIATI
Quando tornerà da Washington, Mario Draghi dovrà precipitarsi in Parlamento. La commissione finanze della Camera lo sta aspettando per dare spiegazioni sul tema dei derivati che le banche italiane hanno venduto ai clienti e agli enti locali. L’effetto Gabanelli (la conduttrice del programma "Report" di domenica scorsa), è stato devastante. Si calcola che Unicredit abbia perso dopo la trasmissione 5 miliardi di euro di capitalizzazione. Ma non è finita qui perchè il faro di "Report" ha acceso la lampadina di Paolo Del Mese, il risorto-deputato salernitano che presiede la Commissione finanze della Camera.

Paolo Del Mese (cugino di Emilio Del Mese, ex-responsabile del Sisde) ha un’aria tranquilla e fuma sigari da quando è nato. Molti lo ricordano nel 1992 quando Giulio Andreotti lo nominò sottosegretario alle Partecipazioni Statali. Dopo alcune disavventure giudiziarie è ritornato improvvisamente alla ribalta e ieri in modo perentorio ha chiesto a Draghi e a Lamberto Cardia di spiegare che cosa è veramente successo per i risparmiatori italiani.

CORRIERE DELLA SERA, 23/10/2007
GIACOMO FERRARI
MILANO – Le avvisaglie si erano già manifestate venerdì scorso, quando sul finale di seduta gli indici di Wall Street avevano subìto una forte accelerazione al ribasso. Era il ventennale del secondo crollo più pesante della storia, superiore in percentuale a quello del ’29. Ma non è certo soltanto il valore simbolico di questa infausta ricorrenza la causa del malessere che ha investito le Borse mondiali. Ieri la discesa è proseguita. Anche perché in mattinata dall’Asia sono arrivati nuovi segnali negativi, con Tokio in calo del 2,2%. Per fortuna a metà seduta l’allarme si è attenuato. Il listino americano ha aperto in calo sì, ma senza i picchi temuti. E, in seguito, i due indici principali, il Dow Jones e il Nasdaq, hanno virato al rialzo, grazie anche al balzo del titolo Apple in cont rotendenza (+1,88%) sulle attese di una buona trimestrale.
A risollevare il morale degli operatori ha contribuito inoltre la previsione di un nuovo taglio dei tassi d’interesse da parte della Fed nella riunione del prossimo 31 ottobre. L’Europa ha recepito solo in parte il miglioramento della Borsa Usa, riuscendo così a limitare i danni, con perdite di poco superiori al punto percentuale (-1,38% Parigi, -1,13% Francoforte, -1,05% Londra). Quanto a Piazza Affari, S&P-Mib e Mibtel hanno subìto flessioni di dimensioni quasi identiche (-1,62% e -1,63% rispettivamente).
Una giornata difficile, dunque, non un crollo, come in un primo momento si era temuto. Ma i timori non sono affatto superati. L’economia Usa è in frenata e le tensioni politiche nelle aree «calde», a cominciare dalla Turchia, inducono al pessimismo. Preoccupazioni di cui si sono fatti carico i ministri dell’economia e i governatori riuniti nel fine settimana all’assemblea del Fondo Monetario. A margine del summit, il direttore generale della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni è tornato a parlare della crisi dei mutui subprime, alla quale viene fatta risalire la responsabilità delle turbolenze borsistiche da agosto a oggi.
Ricordato che sul sistema bancario italiano la bufera ha avuto un «impatto limitato», Saccomanni ha invitato a «non demonizzare» gli strumenti finanziari più sofisticati, come derivati e prodotti strutturati. L’innovazione finanziaria, ha detto, «nulla ha a che fare con la situazione attuale, che invece si ricollega a un problema di valutazione del rischio». Infine, citando le parole dell’ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, ha concluso affermando che l’innovazione in finanza porta inevitabilmente a una fase di «distruzione creativa ». I subprime, per esempio, sono già scomparsi dal mercato.

DAGOSPIA, 24/10/2007
9 - MERRILL LYNCH IN ROSSO DI 2,3 MLD DLR PER SVALUTAZIONI…
(Agi/Reuters) - Il colosso finanziario Usa Merrill Lynch annuncia che nel terzo trimestre effettuera’ svalutazioni per 7,9 miliardi dollari, una cifra nettamente superiore ai 5 miliardi di dollari inizialmente stimati. La conferma arriva dopo le anticipazioni del New York Times e del Wall Street Journal. Le svalutazioni sono legate alle perdite subite nei mutui subprime, negli asset-backed securities e nei prestiti al leverage e costringono Merrill Lynch a denunciare il suo primo bilancio in rosso da sei anni a questa parte. Le perdite nel terzo trimestre ammontano a 2,3 miliardi di dollari (2,85 dollari ad azione), contro gli utili di 2,2 miliardi di dollari di una anno fa. Sulla scia di questa notizia il titolo di Merrill Lynch perde il 4% nel prelistino di Wall Street.

10 - MERRILL LYNCH: POSSIBILI ULTERIORI SCOMPIGLI SU MERCATO CREDITO…
(Agi/Reuters) - Merrill Lynch ritiene possibili ulteriori scompigli nel mercato del credito. Lo ha detto il numero uno della societa’ Stan O’Neal precisando che le svalutazioni cui il colosso finanziario e’ stato costretto (7,9 miliardi dollari, una cifra nettamente superiore ai 5 miliardi di dollari inizialmente stimati) sono frutto di errori di valutazione nella gestione del rischio.

LA REPUBBLICA, 25/10/2007
ARTURO ZAMPAGLIONE
NEW YORK - Un altro brusco cedimento del mercato immobiliare americano e le maxi-perdite della Merrill Lynch (2,24 miliardi di dollari nel trimestre, dopo 7,9 miliardi di svalutazioni) legate ai mutui subprime, hanno portato ieri a flessioni significative in Borsa. A un´ora dalla chiusura il Dow Jones perdeva oltre l´1%, il Nasdaq quasi il 3%: tra le più colpite, le società assicurative, anche per effetto della "palla di fuoco" californiana che ha già distrutto 1300 case e determinerà la richiesta di miliardi di dollari di risarcimenti. Il Nasdaq ha risentito del crollo della Amazon, l´immensa libreria on-line di Jeff Bezos che ha perso quasi il 15 per cento a causa di risultati meno brillanti delle aspettative degli analisti.
Dietro a questo malessere finanziario c´è ancora e soprattutto la crisi del mattone. Nel mese di settembre, secondo i dati pubblicati ieri dalla National association of realtors, l´organizzazione degli agenti immobiliari, le vendite di appartamenti e villini già esistenti (cioè non di nuova costruzione) hanno avuto uno scivolone dell´8 per cento, il doppio delle previsioni, toccando il livello più basso degli ultimi otto anni. La ragione? La difficoltà di trovare mutui per finanziare gli acquisti e il pessimismo sulle prospettive a medio termine. Al tempo stesso i prezzi mediani delle case sono scesi del 4,2 per cento rispetto al settembre del 2006 (211mila dollari rispetto a 224mila). E in attesa che il governo rilasci giovedì le cifre di settembre sulle case di nuova costruzione (gli economisti si aspettano un -4,7 per cento), aumenta la quantità di immobili in cerca di acquirente: quelle sul mercato saranno smaltite, al ritmo attuale degli scambi, non prima di 10 mesi e mezzo. Queste cifre non solo confermano che la crisi non si è arginata, ma arrivano a una settimana dalla riunione della Federal Reserve sui tassi di interesse. Gli analisti ritengono che il presidente Ben Bernanke e i suoi colleghi siano pronti a ridurre ulteriormente il costo del denaro. Ma di quanto? Fino a qualche giorno fa si dava per certa una riduzione di un quarto di punto, dopo quella di mezzo punto varata a settembre. Ma ora, di fronte a questa persistenza del malessere immobiliare, ci si chiede se 25 punti base in meno nel tasso saranno sufficienti a evitare un ulteriore tracollo.
Ed è proprio questo il dilemma in cui si dibattono membri del Fomc, il comitato del credito della Fed: optando la settimana prossima per un quarto di punto, rischiano di deludere i mercati azionari e provocare un vero e proprio crollo a Wall Street; d´altra parte mezzo punto in meno può essere visto come il segnale di allarme di una recessione imminente e portare, tra l´altro, a una vampata inflazionistica e a un tracollo del dollaro. Le cifre fornite ieri dalla Merrill Lynch, il gigante di Wall Street che è il maggiore sottoscrittore di Cdo, cioè delle obbligazioni garantite da altri strumenti, a cominciare dai mutui, dimostrano la profondità e persistenza dei problemi del credito. La società finanziaria guidata di Stanley O´Neal ha annunciato svalutazioni per 7,9 miliardi di dollari nel business del reddito fisso: molto di più dei 5 miliardi di cui aveva parlato all´inizio del mese. L´annuncio della Merrill Lynch ha fatto ipotizzare un avvicendamento del chief executive dallo stipendio d´oro: l´anno scorso, compreso il bonus, aveva guadagnato 51 milioni di dollari.

CORRIERE DELLA SERA, 27/10/2007
GIANCARLO RADICE
MILANO – Salvare Merrill Lynch. E salvare se stesso. Per Stanley O’Neal, presidente e amministratore delegato della banca d’affari newyorkese, sembra cominciata una corsa contro il tempo. Nelle scorse settimane ha ripreso i contatti con Wachovia, gruppo bancario con base a Charlottesville, nella prospettiva di un avvicinamento che potrebbe portare alla fusione fra i due istituti. E contemporaneamente sta valutando la possibilità di cedere la partecipazione, pari al 20%, nel capitale dell’agenzia d’informazione finanziaria Bloomberg. A rivelarlo, citando fonti di mercato, è il
New York Times, dando il via a una corsa agli acquisti che ieri ha portato il titolo Merrill Lynch a un rialzo vicino al 7% Alla base di tanto movimento c’è la difficile situazione finanziaria del gruppo, molto esposto sulle obbligazioni collaterali garantite da titoli immobiliari, in particolare i subprime.
Due giorni fa Merrill Lynch ha infatti reso noto i dati del terzo trimestre 2007, che si è chiuso in rosso per 2,31 miliardi di dollari, la maggiore perdita nei suoi 93 anni di storia, dovuta alla svalutazione per 8,4 miliardi di dollari di titoli collaterali ai prestiti immobiliari per 8,4 miliardi di dollari. Un’operazione che ha accentuato le pressioni degli azionisti e degli investitori perché O’Neal si faccia da parte.
Le avances verso Wachovia, condotte dal presidente senza informarne preventivamente il
board, vanno dunque inserite in questo scenario. E che Merrill Lynch possa diventare bersaglio di un takeover da parte dell’istituto della Virginia sembrano pensarlo anche alcuni analisti molto ascoltati. Come, per esempio, Mike Mayo, di Deutsche Bank, che è arrivato anche a indicare un prezzo compreso fra i 100 e i 120 dollari per azione. Altri analisti appaiono invece più propensi a liquidare la questione come semplici speculazioni di mercato. Tantopiù che Merrill Lynch, nonostante che il titolo sia ancora del 30% sotto rispetto a inizio anno, ha una capitalizzazione di oltre 52 miliardi di dollari. E secondo Richard Bove, un analista di Punk Ziegel interpellato dall’agenzia Ap, si stima che per mandare in porto un takeover
sarebbero necessari quasi 100 miliardi di dollari. «Wachovia non potrebbe acquistare Merrill Lynch senza distruggere completamente se stessa» taglia corto Bove.
Sia i vertici della banca di Charlottesville sia di quella newyorkese hanno per ora opposto un «no comment» alle ipotesi di una loro aggregazione. O’Neal avrebbe spiegato i contatti come un modo per offrire agli azionisti di Merrill Lynch «il maggior numero di opzioni possibili su cui basare le loro scelte ».
Ma per il presidente il tempo a disposizione sembra vicino alla scadenza. A Wall Street si dà ormai per certa la sua uscita. E circolano già i nomi dei possibili successori. Due soprattutto: Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, e John Thain, l’amministratore delegato della società che gestisce la borsa newyorkese, il New York Stock Exchange Euronext.

LA STAMPA, 30/10/2007
FRANCESCO SEMPRINI
Anche un record può chiudere bruscamente una carriera a Wall Street, soprattutto se è un record negativo. Stanley O’Neal, amministratore delegato di Merrill Lynch, lo ha imparato a sue spese rassegnando le dimissioni dopo che la terza banca d’investimento americana ha denunciato tra luglio e settembre la perdita trimestrale più alta in 93 anni di vita. O’Neal è un’altra vittima eccellente della crisi dei mutui ad alto rischio e del conseguente deterioramento del mercato del credito: la perdita di 2,24 miliardi di dollari registrata è da ricondurre infatti ai 7,9 miliardi di dollari di svalutazioni su attività legate ai mutui «subprime». A queste si aggiungono svalutazioni per 463 milioni di dollari legate a obbligazioni invendute al servizio di operazioni di leveraged buyout. I conti in rosso del terzo trimestre hanno spinto gli undici membri del consiglio di amministrazione, nove dei quali nominati su indicazione dello stesso O’Neal, a raccomandare le dimissioni del top manager.
Per la banca - che in quasi un secolo di storia ha basato il suo prestigio tessendo rapporti di grande lealtà e stima con dipendenti e manager, tanto da guadagnare l’appellativo di «Mamma Merrill» - l’allontanamento forzato dell’amministratore delegato rappresenta uno strappo rispetto alla tradizione interna. Nonostante la sua gestione brillante che ha permesso al titolo della banca di guadagnare in cinque anni il 52% in termini di valore, le dimissioni di O’Neal sono state tuttavia una scelta quasi obbligata anche se sofferta. «Merrill rischiava di diventare una tana di serpenti dilaniata dalle lotte intestine - spiega Richard Bove, analista di Punk Ziegel - con le dimissioni di O’Neil si è evitato che accadesse».
Con la partenza dell’amministratore delegato la società chiude uno dei capitoli più delicati della sua storia, quello successivo allo scoppio della bolla speculativa di inizi decennio. Fu proprio l’abilità di O’Neal a traghettare Merrill oltre le acque degli scandali finanziari che inquinarono il mondo imprenditoriale e bancario americano degli anni Novanta.
Discendente di uno schiavo deportato dall’Africa nel Diciottesimo secolo, Stanley nasce nell’ottobre del 1951 a Roanoke, in Alabama. Si trasferisce a 11 anni a Doraville non lontano da Atlanta, dopo che il padre viene assunto in una catena di montaggio di General Motors. Lo raggiungerà dopo il diploma liceale, ma da subito capisce che il mestiere di operaio gli va stretto e grazie a una borsa di studio di Gm frequenta il college continuando a lavorare metà giornata. Dopo la laurea alla Kettering University ottiene il Master in business administration ad Harvard sempre grazie agli incentivi allo studio offerti dal colosso di Detroit di una cui controllata, la Hughes Electronics and Data System, diventa presto responsabile. Lì sviluppa la passione per la finanza e gli investimenti, grazie alla quale approda come manager in Merrill Lynch a soli 35 anni.
La sua carriera nella banca d’affari è un’inarrestabile scalata verso i piani alti, così nel 1997 entra nelle grazie del nuovo amministratore delegato David Komansky che lo mette a capo delle principali divisioni, sino al 2002 quando lo vuole come successore.
Il dopo O’Neal è ancora incerto per Merrill Lynch, la rosa dei candidati è piuttosto ampia ma Daniel Tully, ex a.d. negli anni Novanta e attuale azionista della banca non esclude una gestione provvisoria che permetta alla società di guadagnare tempo «non solo per individuare le persona giusta ma per dimostrare che Mamma Merrill gode ancora di buona salute».

CORRIERE DELLA SERA, 1/11/2007
GIANCARLO RADICE
MILANO – Ubs conferma il primo bilancio trimestrale in rosso degli ultimi cinque anni e avverte che le sue attività nel reddito fisso «sono esposte a un ulteriore deterioramento del mercato immobiliare Usa». E’ un momento nero per il gigante bancario elvetico, colpito come nessun altro grande istituto europeo dalla crisi dei mutui subprime.
Ieri il gruppo di Zurigo, considerato in genere molto prudente negli investimenti, ha reso noto di aver chiuso il terzo trimestre 2007 in passivo di 830 milioni di franchi, poco meno di 500 milioni di euro, a causa di 3,68 miliardi di franchi di perdite della sua divisione specializzata in titoli collaterali legati ai crediti ipotecari sul mercato americano. Un «buco nero» che ha cancellato di colpo i buoni risultati registrati negli altri settori. Lo stesso Marcel Rohner, amministratore delegato da appena 4 mesi, ha ammesso tutta la sua delusione. Ha però assicurato che «i conti torneranno in utile nel quarto trimestre dell’anno». Ma quanto a cosa accadrà più avanti, non ha potuto escludere, appunto, un «deterioramento della situazione ». La stessa sensazione sembra piuttosto diffusa sul mercato. Molti analisti si aspettano altre cattive notizie a breve: «Non credo che i conti siano stati completamente ripuliti - ha dichiarato al
New York Times Christopher Wheeler, economista della Bear Stearns a Londra - . Penso anzi che Ubs avrà un brutto colpo anche nel quarto trimestre». Dal canto suo Rohner, interpellato durante la conference call di ieri, non ha voluto specificare se ci saranno altre svalutazioni sulle attività legate ai prestiti immobiliari americani. «Il campo delle possibilità si sta ampliando», si è limitato a dire. Ufficialmente Ubs ammette di avere investito il corrispondente di 16,8 miliardi di dollari in titoli collaterali ai prestiti ipotecari, e altri 20,2 miliardi di dollari nelle obbligazioni «supersenior », che vengono ripagate prima di altri titoli in caso di default. «Larga parte dei profitti attesi per il quarto trimestre verranno spazzati via da svalutazioni comprese fra 1,5 e 2 miliardi di dollari», prevede Wheeler. Nel complesso, comunque, la maggior parte degli analisti è concorde nel sostenere che Ubs si è mossa con maggiore incisività, rispetto a istituti americani come Merrill Lynch, nell’affrontare il problema dei mutui.

CORRIERE DELLA SERA, 2/11/2007
GIACOMO FERRARI
MILANO – L’effetto Fed è durato lo spazio di 24 ore. Wall Street, che mercoledì aveva reagito con un deciso rialzo alla decisione della Banca centrale Usa di tagliare il costo del denaro, ieri ha cambiato repentinamente rotta. Non è stata tanto la modesta entità della riduzione dei tassi (soltanto un quarto di punto, misura peraltro largamente attesa) a frenare gli entusiasmi, quanto le valutazioni che hanno accompagnato questa decisione. Ben Bernanke, il presidente della Fed, ha infatti lasciato intendere che questo sarà l’ultimo ribasso. E il mercato, abituato a scontare eventi futuri anche molto lontani, non ha gradito. Nemmeno i dati statistici sulla crescita Usa – +3,9% su base annua nel terzo trimestre 2007 – sono bastati a mitigare la delusione degli operatori. Il Dow Jones ha così imboccato, nel corso della seduta di ieri, il tunnel del ribasso. Per chiudere poi con una flessione del 2,60%. Giù anche il Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici, che ha ceduto a sua volta il 2,25%. E a poco è valsa la decisione della Federal Reserve di immettere nel sistema nuova liquidità per 41 miliardi di dollari, in quella che appare, quanto a dimensioni, la manovra monetaria più consistente dopo l’11 settembre 2001.
Dagli Usa l’onda ribassista
si è rapidamente estesa all’Europa, dove gli arretramenti sono stati altrettanto significativi: i più elevati delle ultime otto settimane. A perdere di più sono state le Borse di Londra (-1,87%), Parigi (-2%), Francoforte (-1,73%) e Milano (-1,97% sull’indice S&P-Mib). Si stima che, in termini di capitalizzazione complessiva, siano andati in fumo almeno 137 miliardi di euro. Tanto in America quanto in Europa sono stati i titoli bancari a trascinare i listini al ribasso. A Wall Street la scintilla è partita da Citigroup (poi calata del 6,89%) sull’ipotesi di un nuovo aumento di capitale necessario per migliorare i coefficienti patrimoniali erosi dalla crisi dei mutui subprime. Nel Vecchio Continente, invece, la bufera ha coinvolto Crédit Suisse, che stima in 1,1 miliardi di franchi svizzeri la perdita legata all’attività sui prodotti strutturati (il titolo ha ceduto il 3,7%). Ma non è finita. Anche Piazza Affari ha avuto la sua maglia nera nel comparto bancario. Si tratta di Unicredito, la cui quotazione di riferimento ha subìto una flessione del 4,68%. La capitalizzazione dell’istituto guidato da Alessandro Profumo è scesa così agli stessi livelli di maggio, prima della fusione con Capitalia. Come dire che è stato azzerato l’intero valore della banca aggregata. E non a caso proprio Unicredito è uno dei pochi gruppi creditizi italiani coinvolti (sia pure marginalmente) nella bufera dei subprime e in quella dei derivati valutari.
Ma, se le banche hanno subito i danni maggiori, ieri Wall Street ha dovuto fare i conti con le frenate di alcuni titoli industriali, in particolare automobilistici. Ford, per esempio, le cui vendite di auto in ottobre sono crollate del 9,5%, ha ceduto il 4,17%. E Chrysler, alle prese con il problema del taglio di 12 mila posti di lavoro, è scesa del 2,59%.

CORRIERE DELLA SERA, 2/11/2007
M.MAR.
C’è chi perde il posto a causa di una donna (come il recente caso di Todd Thomson, responsabile delle gestioni di Citigroup, accusato di aver fatto favori e rivelazioni alla giornalista Maria Bartiromo) e chi per un torneo di Bridge. Warren Spector, 49 anni, era fino a quest’estate vicepresidente della banca d’investimento americana Bear Sterns. Con circa 37 milioni di dollari guadagnati nel 2006 tra salario e bonus, Spector era anche uno degli uomini più pagati e più stimati a Wall Street. Il suo punto di forza, i mutui subprime, sui quali aveva puntato decisamente e che, grazie al boom immobiliare avevano contribuito negli ultimi a far crescere gli utili della banca (2,1 miliardi di dollari di profitti nel bilancio 2006). Spector figura inoltre al 225˚ posto della classifica mondiale dei giocatori di bridge. Una passione, quella per le carte, che il manager condivideva con il suo principale, il ceo, James Cayne (611˚in classifica).
Ma, a quanto ha rivelato nei giorni scorsi l’agenzia Bloomberg, a metà luglio, quando la banca cominciava ad accusare gravi perdite nei mutui subprime, che la avrebbero portata a chiudere due fondi, contabilizzare un passivo di oltre un miliardo, perdere il 25% in Borsa e licenziare 350 persone, Spector non era nel suo ufficio. Per quasi due settimane il capo del settore mutui e reddito fisso si era infatti trattenuto a un importante torneo di bridge a Nashville, in Tennessee, avendo cura, per non perdere la concentrazione, di staccare il telefonini e non guardare l’e-mail. A suo ritorno, la lettera di licenziamento da Cayne, anche lui partecipante al torneo di Nashville, ma per solo due giorni .
Nel torneo Spector si è piazzato 95˚ posto tra 4.822 giocatori.

LA REPUBBLICA 2/11/2007
ETTORE LIVINI
ETTORE LIVINI
MILANO - L´onda lunga della crisi dei subprime ha già spazzato via 30 miliardi di dollari dai conti delle banche mondiali. Malgrado le rassicurazioni di Bush, le ciambelle di salvataggio del Tesoro Usa e i tagli ai tassi della Fed, infatti, gli americani che non riescono a pagare le rate dei mutui sono sempre di più. E i loro problemi finanziari, moltiplicati dalle alchimie dei derivati e trasferiti nei portafogli di banche e risparmiatori in tutto il mondo, sono diventati una valanga di proporzioni inattese.
«La crisi potrebbe costare 150-200 milioni di dollari», aveva buttato lì il Governatore della Fed Ben Bernanke nello scetticismo generale (tutti pensavano a cifre molto inferiori) a inizio settembre. Quella stima, invece, a giudicare dai primi conti del sistema creditizio, rischia di essere approssimata per difetto. Da qualche settimana a questa parte, infatti, il numero delle banche costrette a mettere a bilancio perdite miliardarie legati ai mutui a rischio sta crescendo vertiginosamente. E, come si temeva, lo tsunami non è rimasto confinato al mondo dorato della finanza Usa.
L´ultimo campanello d´allarme, ad esempio, è suonato a Zurigo, sede del Credit Suisse, a migliaia di miglia dall´epicentro della crisi. Nell´era della finanza globale, però, le distanze non contano. I traballanti mutui americani viaggiano per conto loro, nascosti dai maghi della finanza strutturata nel calderone di bond esotici e cartolarizzazioni miliardarie. Per poi esplodere – com´è successo ieri – in piena Svizzera, in una città dove a memoria d´uomo si fatica a ricordare una rata immobiliare in sofferenza. Il conto per la banca elvetica è stato altissimo: nel bilancio del terzo trimestre sono stati contabilizzati in perdita 1,9 miliardi di dollari. Una misura necessaria per far fronte «alle condizioni estreme dei mercati», come ha detto ieri senza andar troppo per il sottile il numero uno del gruppo Brady Dougan.
Il Credit Suisse è solo l´ultimo esempio di una catena di Sant´Antonio planetaria di perdite. Se la Fed riesce con accanimento terapeutico a tenere a galla i mercati, Bernanke & C. possono far ben poco per salvare i conti del credito. E in qualche caso le voragini aperte dai subprime sono da capogiro. L´Oscar del rosso spetta a Merrill Lynch, costretta a sobbarcarsi 8,4 miliardi di passivo, costati la poltrona al numero uno Stanley O´Neal, uscito di scena senza puntare troppo i piedi grazie a una buonuscita (malgrado tutto) di 161 milioni. Tra le banche d´affari – che pure continuano a essere macchine da soldi – piangono anche Morgan Stanley (1 miliardo) e Bear Stearns (0,4) mentre nel mondo del credito pagano un pedaggio salato Citigroup (3,5 miliardi) e Bank of America (3,5 pure lei).
Al di qua dell´Atlantico, Northern Rock a parte, la svizzera Ubs ha già contabilizzato una perdita di 4,4 miliardi («non basterà, rischia di arrivare a 8», ha detto ieri Merrill Lynch) mentre in Germania, dove il Governo ha salvato dal collasso SachsenLb e Ikb, la gloriosa Deutsche Bank ha perso sui mutui 3,1 miliardi.
Dove arriverà il conto finale del buco in banca? Per ora siamo a quota 30 miliardi. Ma – avvertono gli esperti – è solo all´inizio. Le autorità monetarie, anche in Italia, hanno abbandonato gli slogan ottimistici dei primi giorni e iniziano ad ammettere che qualche problema, anche se limitato, potrebbe spuntare. Il contagio subprime, del resto, ha già attraversato anche il Pacifico con la giapponese Nomura che ha bruciato 1,2 miliardi.

LA STAMPA, 2/11/2007
Ha vissuto le turbolenze finanziarie di Wall Street trincerandosi nelle 18 buche dei campi da golf, o rifugiandosi fra i tavoli da bridge dei club del jet set americano. Ha pilotato solo a distanza la sua banca d’investimento nei mari in burrasca della crisi dei mutui facili preferendo le partite di poker su Internet, e, nei momenti di maggiore tensione, trovando un po’ di pace in svaghi al limite della legalità. E’ James Cayne, amministratore delegato di Bear Stearns, finito sotto accusa per essere stato il grande assente nella cabina di regia di Wall Street durante il momento più difficile degli 84 anni di vita della quinta banca d’investimento americana.
Cayne, uno dei manager di Wall Street più pagati nel 2006 con 34 milioni di dollari intascati e una partecipazione nel capitale della società superiore al miliardo, è noto per stravaganza, ma mai prima d’ora era stata mossa una critica così severa alla sua gestione degli affari e che potrebbe costargli il posto.
L’imprevisto arriva all’inizio di giugno: l’avvio della fase più acuta della crisi coincide con l’inizio del rituale estivo del dirigente, spiega la ricostruzione compiuta dal Wall Street Journal. Cayne parte giovedì pomeriggio con l’elicottero alla volta dei campi da golf di Deal, in New Jersey (1.700 dollari per 17 minuti di volo), e alterna per tutto il fine settimana le 18 buche del «green» con partite di poker online, bridge e incontri con i nipoti nella villa al mare. E’ in quel periodo che una grande banca creditrice ritira le attività poste a garanzia di un prestito da 400 milioni di dollari: sono le prime avvisaglie di cedimento di uno dei due hedge fund gestiti da Bear Stearns. Quel giorno Cayne è irrintracciabile, sta giocando a golf e non ha il cellulare.
La crisi si allarga e molti tremano a Wall Street. Non il numero uno di Bear Stearns che il 18 di luglio, insieme alla moglie Patricia, una neuropsichiatra avida giocatrice, vola a Nashville per partecipare allo Spingold Ko, famoso torneo di bridge della durata di dieci giorni. Lo raggiunge Warren Spector, condirettore generale della banca e responsabile della gestione degli hedge fund. A parte la conferenza telefonica mattutina, i due sono irrintracciabili: i coniugi Cayne terminano la gare tra le prime tre posizioni, ma a Wall Street le cose precipitano. Il 27 luglio, al ritorno dell’amministratore delegato, Bear Stearns è costretta a mettere a disposizione di uno dei due fondi un finanziamento straordinario di 1,6 miliardi di dollari. Per Cayne è colpa di Spector «perché è stato lontano durante la crisi»: lo chiama e lo invita a dimettersi. Spector lascia il 3 agosto mentre il numero uno è impegnato in una conferenza telefonica con gli analisti: saputa la notizia l’a.d. si alza e abbandona l’incontro lasciando cadere nel vuoto le domande dei partecipanti. Ci pensa il direttore finanziario Samuel Molinaro a rispondere agli esperti: «Le condizioni del mercato obbligazionario sono le peggiori mai viste» dice. Wall Street crolla e il Dow Jones perde sino a 300 punti.
E’ in momenti come questi, di particolare tensione, così come al termine di stancanti partite a bridge, che Cayne troverebbe un po’ di serenità in una canna di marijuana, dicono alcune fonti al Wsj che chiede conferme al diretto interessato: «Ha mai fumato erba durante un torneo di bridge o in altre occasioni?».
«Mi spiace - replica Cayne - non rispondo ad accuse generiche».



CORRIERE DELLA SERA, 7/11/2007
STEFANIA TAMBURELLO
ROMA – La Banca d’Italia non allenta la presa sui derivati, i prodotti che scommettono su tassi e cambi. Anzi, intensifica la vigilanza sulle banche che operano nel settore avviando un «ulteriore programma di verifiche» presso «quattro gruppi bancari». Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia, comunica l’iniziativa nel corso di un’audizione alla Camera, ma non fa nomi. Anche perché, fa sapere, si tratta di accertamenti svolti nell’ambito della «normale attività di vigilanza » per verificare l’operatività nel settore finanziario degli intermediari e per fare anche una sorta di ricognizione nel sistema. Così da sapere meglio come stanno le cose, anche in vista del persistere delle tensioni sui mercati provocate dalla crisi dei mutui statunitensi. Niente nomi, dunque, ma solo l’accenno all’ «importanza» dei gruppi finiti sotto osservazione che ricalca l’annuncio di un’indagine presso le banche «più attive» nel settore dei derivati fatto dal governatore alla Giornata mondiale del risparmio, il 31 ottobre. Fatto sta che la Borsa, dopo l’intervento di Saccomanni, ha preso di mira, penalizzandoli, i titoli di Unicredit, che ha già nei giorni scorsi chiarito la posizione e il valore di mercato dei derivati del gruppo, nonché di Mps, in discesa rispettivamente dello 0,93% a 5,55 euro e dello 0,30% a 4,25 euro. Ha tenuto invece Intesa Sanpaolo (+0,26% a 5,29 euro) il cui amministratore delegato Corrado Passera ai primi echi dell’intervento di Saccomanni ha precisato come il suo gruppo abbia dato già «tutte le risposte e i chiarimenti: sui derivati siamo sereni» .
Palazzo Koch ha cercato comunque di sdrammatizzare l’annuncio dell’avvio del programma di accertamenti che si aggiungono a quelli presso tre gruppi bancari già in corso dal 2005-6. Dopo quelle annunciate ieri, le indagini toccheranno altre 4 banche, fanno sapere dall’istituto di via Nazionale. Il fatto è che a muovere l’azione della Vigilanza non sarebbe tanto il sospetto dell’esistenza di problemi e perdite quanto, viene fatto sapere, l’entità dei volumi di derivati venduti e contrattati. Le cifre le illustra lo stesso Saccomanni: al momento il valore nozionale dei derivati in possesso delle banche italiane ha raggiunto 10 mila miliardi, mentre il valore lordo di mercato è pari a 270 miliardi. L’esposizione del sistema è pari a circa 150 miliardi di euro.
«La dimensione dei rischi a fronte dell’operatività in derivati appare contenuta » dice tuttavia il direttore generale di Bankitalia. Il quale sottolinea come nel biennio 2005-2006 l’attività in derivati a livello mondiale abbia registrato un’impennata del 66% del valore nozionale (cioè quello del bene sottostante al derivato stesso), salito da 189 mila miliardi di fine 2004 a 315 mila miliardi di dicembre 2006 contro l’aumento del 16% di quello dei derivati italiani passati da 6.700 a 7.800 miliardi di euro.
I problemi maggiori riguardano comunque l’indebitamento in derivati degli enti locali che, ha detto Saccomanni, «è pressoché raddoppiato tra dicembre 2005 e dicembre 2006, passando da 500 milioni a quasi 1 miliardo di euro; ad agosto 2007 era pari a 1,054 miliardi di euro». Tale importo, che rappresenta il 2,9% dell’indebitamento per cassa, «costituisce peraltro una sottostima», considerato che gli enti di maggiori dimensioni ricorrono spesso a intermediari esteri, per i quali non si dispone di informazioni.


CORRIERE DELLA SERA, 7/11/2007
STEFANIA TAMBURELLO
ROMA – La Banca d’Italia non allenta la presa sui derivati, i prodotti che scommettono su tassi e cambi. Anzi, intensifica la vigilanza sulle banche che operano nel settore avviando un «ulteriore programma di verifiche» presso «quattro gruppi bancari». Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia, comunica l’iniziativa nel corso di un’audizione alla Camera, ma non fa nomi. Anche perché, fa sapere, si tratta di accertamenti svolti nell’ambito della «normale attività di vigilanza » per verificare l’operatività nel settore finanziario degli intermediari e per fare anche una sorta di ricognizione nel sistema. Così da sapere meglio come stanno le cose, anche in vista del persistere delle tensioni sui mercati provocate dalla crisi dei mutui statunitensi. Niente nomi, dunque, ma solo l’accenno all’ «importanza» dei gruppi finiti sotto osservazione che ricalca l’annuncio di un’indagine presso le banche «più attive» nel settore dei derivati fatto dal governatore alla Giornata mondiale del risparmio, il 31 ottobre. Fatto sta che la Borsa, dopo l’intervento di Saccomanni, ha preso di mira, penalizzandoli, i titoli di Unicredit, che ha già nei giorni scorsi chiarito la posizione e il valore di mercato dei derivati del gruppo, nonché di Mps, in discesa rispettivamente dello 0,93% a 5,55 euro e dello 0,30% a 4,25 euro. Ha tenuto invece Intesa Sanpaolo (+0,26% a 5,29 euro) il cui amministratore delegato Corrado Passera ai primi echi dell’intervento di Saccomanni ha precisato come il suo gruppo abbia dato già «tutte le risposte e i chiarimenti: sui derivati siamo sereni» .
Palazzo Koch ha cercato comunque di sdrammatizzare l’annuncio dell’avvio del programma di accertamenti che si aggiungono a quelli presso tre gruppi bancari già in corso dal 2005-6. Dopo quelle annunciate ieri, le indagini toccheranno altre 4 banche, fanno sapere dall’istituto di via Nazionale. Il fatto è che a muovere l’azione della Vigilanza non sarebbe tanto il sospetto dell’esistenza di problemi e perdite quanto, viene fatto sapere, l’entità dei volumi di derivati venduti e contrattati. Le cifre le illustra lo stesso Saccomanni: al momento il valore nozionale dei derivati in possesso delle banche italiane ha raggiunto 10 mila miliardi, mentre il valore lordo di mercato è pari a 270 miliardi. L’esposizione del sistema è pari a circa 150 miliardi di euro.
«La dimensione dei rischi a fronte dell’operatività in derivati appare contenuta » dice tuttavia il direttore generale di Bankitalia. Il quale sottolinea come nel biennio 2005-2006 l’attività in derivati a livello mondiale abbia registrato un’impennata del 66% del valore nozionale (cioè quello del bene sottostante al derivato stesso), salito da 189 mila miliardi di fine 2004 a 315 mila miliardi di dicembre 2006 contro l’aumento del 16% di quello dei derivati italiani passati da 6.700 a 7.800 miliardi di euro.
I problemi maggiori riguardano comunque l’indebitamento in derivati degli enti locali che, ha detto Saccomanni, «è pressoché raddoppiato tra dicembre 2005 e dicembre 2006, passando da 500 milioni a quasi 1 miliardo di euro; ad agosto 2007 era pari a 1,054 miliardi di euro». Tale importo, che rappresenta il 2,9% dell’indebitamento per cassa, «costituisce peraltro una sottostima», considerato che gli enti di maggiori dimensioni ricorrono spesso a intermediari esteri, per i quali non si dispone di informazioni.

CORRIERE DELLA SERA, 9/11/2007
GIANCARLO RADICE
MILANO – Anche l’ultima linea di resistenza è crollata. Dopo aver retto meglio di altri listini all’ondata di vendite che in queste settimane hanno colpito le Borse, ieri è toccato al Nasdaq affrontare la tempesta. Il listino che raggruppa i maggiori titoli tecnologici Usa, è precipitato fino al 4,30%, recuperando solo nel finale fino a chiudere a meno 1,98%. Il colpo fatale alle quotazioni di aziende considerate ancora ad alta redditività è venuto dal presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che di fronte al Congresso ha ammesso che l’economia Usa, per effetto della crisi finanziaria e della paura che domina sui mercati, è sempre più esposta al rischio di inflazione e di un rallentamento della crescita, che s’annuncia «consistente » da qui alla prima parte del 2008.
Un’analisi che si rispecchia anche nelle parole di Jean-Claude Trichet. Ieri infatti il governatore della Banca centrale europea ha commentato la decisione di lasciare invariati i tassi d’interesse (al 4% quelli di rifinanziamento del sistema) con l’instabilità che ancora domina sui mercati, ma ha anche sottolineato i pericoli del caro-greggio e della inarrestabile discesa del dollaro (o, all’opposto, il forte rialzo dell’euro).
Lo spettro numero uno è, naturalmente, l’inflazione, che a ottobre ha toccato in Eurolandia il 2,6%, ben oltre i target fissati dalla Bce. «Il nostro mandato è quello di garantire la stabilità del prezzi e di farlo in modo credibile », ha ricordato il governatore.
Del resto, sia l’intervento di Bernanke sia quello di Trichet sono andati a inserirsi in uno scenario più che esplicito. Le Borse, tanto per cominciare, anche ieri hanno vissuto una giornata nera: dall’Asia (meno 2% Tokio, meno 3,2% Hong Kong) all’Europa (meno 0,9% Parigi, meno 1,87% Milano), fino a Wall Street (con il Dow Jones in rosso dello 0,25%). E dal fronte della crisi del credito legata ai mutui Usa è emersa un’altra vittima eccellente: Morgan Stanley, che ha denunciato perdite per 3,7 miliardi di dollari.
Quanto al dollaro, resta ancora a livelli minimi verso l’euro (oscillando ieri fra 1,4638 e 1,4704) e le altre maggiori valute, mentre il petrolio continua a viaggiare a quote elevatissime (con il West Texas Intermediate americano a 95,55 dollari per barile).
Gli effetti della crisi innescata dai mutui è evidente anche nelle valutazioni espresse da un leader dell’industria hi-tech come Cisco Systems, che ieri ha annunciato ottimi risultati per il suo primo trimestre dell’anno (utili netti in aumento del 37% a 2,21 miliardi di dollari e ricavi in rialzo del 17%, a 9,55 miliardi), ma ha ammesso che la stretta del credito sta riducendo notevolmente la domanda, soprattutto da parte dei grandi clienti, a partire dalle banche.
E proprio le previsioni di Cisco, sommate all’intervento del presidente della Federal Reserve, hanno contribuito alla «gelata» del Nasdaq, dove molti titoli viaggiano ancora su valori che scontano promesse di performance ormai illusorie. Così, a cadere ieri sono state anche aziende che da settimane sembravano benedette da un inarrestabile rialzo. Un esempio su tutti, quello di Google, che ha perso il 5,3%, tornando abbondantemente sotto i 700 dollari. Lo stesso vale per Apple, in discesa del 5,8%.
Ma ribassi consistenti hanno interessato un po’ tutti i leader delle tecnologie made in Usa: meno 4,5% Ibm, meno 7,9% Oracle, meno 3,6% Intel, meno 3,7% Hewlett Packard, meno 2,20% Microsoft .

CORRIERE DELLA SERA, 9/11/2007
MASSIMO GAGGI
A New York il sindaco Michael Bloomberg ha ordinato a tutte le agenzie e le amministrazioni municipali di tagliare la spesa in vista di una «gelata» dell’economia destinata a far calare le entrate tributarie della città. Sulla Fifth Avenue tira già aria di Natale. Non perché la gente abbia voglia di festeggiare, ma perché i negozianti, temendo un calo degli acquisti da parte dei residenti, puntano sulle spese dei turisti – a cominciare da quelli venuti per la maratona – attratti da prezzi in dollari assai convenienti.
Mentre gli economisti restano divisi sull’ipotesi di una recessione e a Washington il capo della Federal Reserve, Ben Bernanke, spiega al Congresso che la crisi del credito è seria e rallenterà l’economia, ma non fino al punto di mandarla in retromarcia, a New York la parola magica sulla bocca di tutti è «bonus»: con le banche in crisi, che ne sarà delle pingui gratifiche corrisposte ogni anno a dicembre a decine di migliaia di professionisti della finanza? I beneficiari di questo fiume di denaro sono relativamente pochi, è vero, ma il fenomeno in un modo o nell’altro interessa quasi tutti perché i «bonus» incidono sui prezzi delle case, dei beni di lusso, delle vacanze, delle opere d’arte e di molto altro: quando Wall Street «gira», tutti, dall’imbianchino al dentista, alzano il conto. E tutto lascia prevedere che quest’anno gli assegni «natalizi» subiranno consistenti limature.
La stretta del credito innescata dallo scoppio della «bolla » dei mutui «subprime» avrà conseguenze pesanti per tutta l’economia americana. Due giorni fa, ad esempio, anche il governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha deciso di tagliare il bilancio dello Stato (addirittura del 10 per cento) in previsione di un rallentamento delle entrate. Ma New York stavolta rischia più del resto del Paese: la crisi finanziaria, che all’inizio sembrava limitata alle società che emettono mutui e a pochi istituti di credito (Bear Stearns e Merrill Lynch), ha ormai investito anche la maggiore banca e la più grossa delle compagnie assicurative (Citigroup e AIG), mentre Morgan Stanley, che ha perso un quarto del suo valore in una settimana, denuncia una perdita di 3,7 miliardi di dollari. E gli analisti si attendono che nell’ultimo trimestre dell’anno emerga un altro buco ancora maggiore.
Le società di Wall Street non solo hanno già perso diverse decine di miliardi di dollari, ma stanno anche eliminando parecchie migliaia di addetti. Brutte notizie per una metropoli nella quale dal 2003 ad oggi il 41 per cento dei nuovi posti di lavoro e il 52 per cento dei profitti sono venuti proprio dall’industria dei servizi finanziari. Anche il dollaro debolissimo contribuisce a spingere la città sull’orlo di una crisi di nervi: nell’immediato sembra un vantaggio, visto che spinge gli stranieri a comprare di tutto a prezzi stracciati, dalle tutine per neonati agli appartamenti nei grattacieli. Ma un calo eccessivo rischia di creare sfiducia e di innescare una fuga degli investitori dal dollaro.
L’America non perde la sua voglia di fare e Bloomberg assicura che la città – che ha messo molto fieno in cascina negli anni del «boom» – supererà la crisi senza grossi traumi, ma l’ottimismo di sempre stavolta è messo a dura prova. Anche chi fino a ieri negava che il Paese vivesse al di sopra delle sue possibilità e biasimava i critici, rei di non capire i meccanismi di un mercato moderno, oggi se la prende con le famiglie che hanno ottenuto liquidità attraverso il rifinanziamento del loro mutuo, accusandole di aver «scambiato la propria casa per un bancomat».
Quello che attende l’America sarà un inverno rigido, anche se l’effetto-serra non farà scendere più di tanto la colonnina di mercurio.
massimo.gaggi@rcsnewyork.com

LA REPUBBLICA, 9/11/2007
HUGO DIXON
La società di finanziamenti ipotecari Fannie Mae ha ricevuto dal Procuratore di New York Andrew Cuomo (per intenderci, il successore di quell´Eliot Spitzer denominato "il terrore di Wall Street" all´inizio del secolo) una citazione a deporre sulle perizie dei mutui ipotecari venduti a Fannie Mae e alla consorella Freddie Mac dalla banca Washington Mutual. La stessa che è accusata da Cuomo di collusione con i periti per gonfiare i valori degli immobili. Fannie Mae e Freddie Mac si sono impegnate a collaborare, facendo presente che non era nel loro interesse comprare titoli ipotecari gonfiati e aggiungendo che Washington Mutual dovrà riprendersi tutti i titoli che era riuscita a vendere in base a perizie distorte. Da ora in poi tutti i mutui potrebbero essere passati al microscopio, rallentando la concessione di prestiti anche ai clienti affidabili e creando così una complicazione di cui il settore immobiliare statunitense non ha certo bisogno in questo momento. Come se non bastasse, Merrill Lynch ha confermato l´avvio di un´inchiesta dell´organo di controllo sui titoli e sulla Borsa proprio nel giorno in cui la banca annunciava la scioccante svalutazione contabile di 7,9 miliardi di dollari di mutui ipotecari e titoli strutturati. Le due notizie possono solo rafforzare il clima di pessimismo, anche perché queste inchieste non saranno certo le ultime. Se siamo ancora lontani da poter dire che gli investitori non considerano più i mutui subprime e i titoli strutturati una massa illiquida, figuriamoci cosa accadrà ora che l´intensificazione dei controlli minaccia di esporre i panni sporchi alla vista di tutti.
Richard Beales

SEGNALO CHE LA SCHEDA 146329 RACCONTA DI UN VAN GOGH INVENDUTO A CAUSA DELLA CRISI SUBPRIME E CHE LA SCHEDA 146331 RACCONTA DEL CROLLO DI PIAZZA AFFARI MISCHIANDO IL CATTIVO GIUDIZIO DELLA BORSA SULL’ACQUISTO DI ANTONVENETA DA PARTE DI MPS E LE ATTESE DI SVALUTAZIONI IMPORTANTI PER VIA DEI SUBPRIME E DELLE SPECULAZIONI SUI DERIVATI DA PARTE DI UNICREDIT

DAGOSPIA, 12/11/2007
6 - CRISI MUTUI: PERDITE SUBPRIME FINO A 400 MLD DLR…
(Agi/Reuters) - Le perdite legate alla crisi dei mutui Usa e collegate al settore dei subprme potrebbero arrivare fino a 400 miliardi di dollari. Lo rivela uno studio di Mike Mayo, analista della Deutsche Bank Securities, secondo il quale le perdite sui presititi collegati ai mutui subprime potrebbero oscillare tra 150 e 250 miliardi di dollari e quelle sui derivati legati all’indebitamento dei subprime potrebbero essere di altri 150 miliardi di dollari. Anche david Hider, analista di bear Stearns stima le perdite legare ai mutui subprime tra i 150 e i 250 miliardi di dollari. "Le svalutazioni - scrive - stanno peggiorando".

CORRIERE DELLA SERA, 14/11/2007
STRASBURGO – «L’Europa ha fatto la sua scelta, per l’economia di mercato e il capitalismo. Ma questa scelta non implica né l’assoluto lassismo né l’accettazione delle derive di un capitalismo finanziario dove la facciano da padroni gli speculatori e i ricconi, piuttosto che gli imprenditori e i lavoratori. Quello europeo è sempre stato un capitalismo di imprenditori, un capitalismo di produzione più che un capitalismo di speculazione e di rendite».
Applausi fra i banchi del Parlamento europeo, riunito in seduta solenne. Applaudono inglesi, tedeschi, italiani, quasi tutti. Ma Nicolas Sarkozy, presidente di questa Francia che parole sue - «ridarà dinamismo all’Europa» - non ha finito: «L’Europa ha un ruolo da giocare nella necessaria moralizzazione di quel capitalismo finanziario di cui i cittadini di tutto il mondo non sopportano più gli eccessi». Si è visto con la crisi dei subprime, «l’Europa non può accettare che qualche speculatore metta in crisi il mercato, la concorrenza ». E basta, dunque, «molti di coloro che nel mondo hanno riposto le loro speranze sull’Europa, attendono che questa si metta alla testa della battaglia ».
Battaglia, speculatori, eccessi: mancano ancora 8 mesi al giorno in cui toccherà a Parigi la presidenza della Commissione europea, e già Sarkozy tiene fede alla sua immagine decisionista. Fa capire che la sua non sarà una presidenza sbiadita. Poco più tardi, tornerà nella capitale, agitata dalla febbre degli scioperi generali. Ma ora, qui a Strasburgo, i toni sono forti e chiari: «Nella democrazia europea che vogliamo costruire, la parola protezione non deve essere bandita. Se non vogliamo che un giorno i popoli, esasperati dal fatto di essere vittime della concorrenza sleale e del dumping, reclamino di nuovo il protezionismo e la chiusura, dobbiamo essere capaci di discutere di una possibile ’preferenza comunitaria’; dobbiamo essere capaci, per proteggerci, di fare tanto quanto fanno gli altri. Se le altre regioni del mondo hanno il diritto di difendersi contro il dumping, perché non l’Europa?». E ancora: «Se tutti i Paesi hanno una politica di cambio, perché non l’Europa? Se le altre nazioni possono riservare una parte dei loro appalti pubblici alle Pmi, perché non l’Europa? Se altre nazioni attuano delle politiche industriali, perché non l’Europa?... L’Europa non vuole il protezionismo, ma deve esigere la reciprocità ». Ce n’è anche per la Bce, mai citata ma presente come un convitato di pietra: «L’Europa ha scelto la democrazia e nessuna indipendenza si può confondere con l’irresponsabilità totale, nessuno può ripararsi dietro l’indipendenza del suo statuto per dispensarsi dal dovere di rendere dei conti...In una democrazia la responsabilità politica è essenziale».

CORRIERE DELLA SERA 21/11/2007
MASSIMO SIDERI
MILANO – Quando indebitarsi era economico, era facile fare affari e scovare buoni investimenti. Per anni, con i tassi ai minimi dal dopoguerra, questo semplice principio ha governato l’agenda del private equity, il nuovo capitalismo dei buyouts miliardari, che solo pochi mesi fa sembrava in piena attività eruttiva e che ora sta facendo marcia indietro su molte operazioni. Va da sé che ora indebitarsi non è affatto a buon mercato. Le prospettive non sono affatto buone. E chi può corre ai ripari. Non solo i private equity – i superfondi che lavorano rilevando quote importanti di aziende e affiancando il management nel rilancio del gruppo – non occupano più le cronache finanziarie quotidiane. Ma negli Usa le principali firme del settore stanno tentando di cambiare i termini di operazioni avviate qualche mese fa, prima cioè della crisi estiva dei mercati causa subprime e del credit crunch. Qualche esempio di rilievo. Cerberus capital management sta rifiutando di completare l’acquisizione di United Rentals senza un’adeguata (dal proprio punto di vista) rinegoziazione del prezzo. Jc Flowers, che ieri ha fatto un’offerta per la disastrata Northern Rock, sta tentando di divincolarsi da Sallie Mae, gigante dei prestiti agli studenti negli Usa. Mentre Goldman Sachs e Kohlberg Kravis Roberts hanno già messo una pietra sopra al deal su Harman International Industries.
«Non solo le operazioni stanno scomparendo dai calendari finanziari – nota un osservatore del settore – ma le poche che ancora resistono sono fatte da consorzi di private equity che così tentano di diversificare il rischio dell’operazione». Insomma, il fenomeno della ritirata del nuovo capitalismo – se ce n’era bisogno – sembra l’ulteriore riprova che la liquidità inizia a scarseggiare veramente sul mercato. E che per guadagnare non è più sufficiente il mercato dei secondary buyout dove le stesse firme del settore si passavano le aziende acquistate in un vorticoso incremento del prezzo dello stesso pezzo di industria.
Il processo in corso non è però negativo per Pietro Maria Tantalo, partner di Orrick Herrington & Sutcliffe ed esperto del settore. «Si tratta di una situazione provvisoria, destinata a mutare – spiega Tantalo – il normale corso degli affari riprenderà. La contrazione in corso esiste ma interessa operazioni particolari anche per dimensione che necessitavano di forti leve. Se l’operazione è buona si può aumentare l’equity e limitare la leva. Anche di recente ho potuto constatarlo direttamente in una importante operazione che ha interessato una nota multinazionale giapponese che è stata ceduta ad un fondo di private equity per circa 2 miliardi ». Insomma, quello in corso è un processo «selettivo, salutare per il sistema, perché i fondi adesso eviteranno di fare offerte spropositate, come a volte è successo».

LA REPUBBLICA 21/11/2007
VITTORIA PULEDDA
MILANO - Giornata apparentemente a due facce per i mercati azionari mondiali, in realtà con il fiato sempre più corto per la crisi dei mutui subprime. A poco vale infatti, per consolarsi, guardare ai risultati in Europa, con un netto rimbalzo di quasi tutti gli indici (a partire da Londra, salita delll´1,73%, a Parigi, che ha guadagnato l´1,36%, a Francoforte, cresciuta dell´1,58%) o ancora all´Italia, che sebbene con più affanno ha imitato le altre Borse del Vecchio continente ed è salita dello 0,69%.
In realtà, il clima continua ad essere molto nervoso, negativo, caratterizzato dai timori della crisi dei mutui subprime che spande i suoi miasmi dappertutto. Ieri, confermando le cupe previsioni del Credit Suisse, Freddie Mac ha riportato una perdita di due miliardi di dollari a causa della debolezza del mercato immobiliare. Freddie Mac - al pari della cugina Fannie Mae - è un´agenzia parastatale di rifinanziamento che compra mutui dalle banche commerciali e li rivende al dettaglio, impacchettati dentro prodotti derivati. Ebbene, Freddie Mac ha perso ieri in Borsa fino al 30% mentre Fannie Mae (per i timori che sia costretta a fare altrettanto) ha ceduto il 22%. Freddie Mac si è affidata a Goldman Sachs per trovare soluzioni ai suoi problemi, dal taglio dei dividendi ad un aumento di capitale, alla diminuzione dell´operatività. Ed è forse questo l´aspetto che più impensierisce i mercati: se infatti si interrompe il ciclo di riacquisto dei mutui, con il conseguente alleggerimento dei libri contabili delle banche, il credito -e non solo quello immobiliare - potrebbe entrare in una fase di maggiori difficoltà, che rischiano di diventare drammatiche in un paese che vive consumando reddito futuro.
Normale quindi che gli indici Usa abbiano avuto un andamento più che riflessivo: anche se poi la chiusura è stata positiva, il Nasdaq è arrivato a sfiorare una perdita dell´1,5% (e poi ha chiuso a più 0,13%) mentre il Dow verso fine giornata cedeva ancora intorno al mezzo punto (ma poi ha recuperato, a più 0,40%). Meglio è andata tutto sommato a Londra, la più brillante in Europa nonostante ad un certo punto della giornata la Northern Rock sia arrivata a perdere il 40% in Borsa. Fortunatamente la chiusura è avvenuta su livelli molto più lievi, meno 6,9% mentre potrebbe farsi più vicina la cessione della banca in difficoltà: voci di mercato dicono che il fondo di private equity Jc Flowers abbia presentato un´offerta al "valore nominale" della banca, ma facendosi carico delle linee di credito di emergenza erogate dalla Banca d´Inghilterra.

LA REPUBBLICA 21/11/2007
HUGO DIXON
Ricordando un po´ le gesta infauste di Nick Leeson, il trader che portò al fallimento la Barings Bank, il Cancelliere dello Scacchiere britannico si ostina a non riconoscere le perdite e cerca di guadagnare tempo. In ballo questa volta c´è Northern Rock, alla quale le autorità hanno già erogato 25 miliardo di sterline sotto forma di prestito d´emergenza. L´eventuale fallimento della banca inglese non favorirebbe l´interesse nazionale, visto che l´esposizione dello Stato cresce di settimana in settimana. Prolungare l´agonia comporta altri due oneri. Il primo è da ricercare nel rapido declino della reputazione di Northern Rock, che invece una volta rappresentava un vero e proprio asset. Il secondo è caratterizzato dal calo registrato sul piano della credibilità delle autorità, comprese la Banca d´Inghilterra e la Financial Services Authority, che insieme al Tesoro hanno pasticciato non poco nella vicenda. Il danno arrecato alla credibilità del sistema finanziario britannico alla fine potrebbe rivelarsi molto più ingente delle perdite economiche. Di soluzioni buone non ce ne sono, anche perché i potenziali salvatori della banca inglese, tra cui il gruppo di private equity americano Cerberus, sembrano dissolversi come neve al sole. Ciononostante, lo Stato non dovrebbe indugiare nella speranza che le cose come per incanto migliorino, bensì scegliere la soluzione più indolore tra quelle percorribili. E se questa non dovesse piacere al cda, in quanto penalizzante per gli azionisti, il governo dovrebbe imporre la propria volontà minacciando il fallimento. Il premier Gordon Brown dovrebbe rendersi conto che se non prende il toro per le corna subito rischia di essere infilzato anche lui.

CORRIERE DELLA SERA 24/11/2007
PAOLA PICA
«Noi precursori dell’espansione internazionale». «Lo schema di Bankitalia sulla governance? Eccellente»
MILANO - Alessandro Profumo ha annunciato la svolta sulla gestione dei rischi e la risposta del mercato non si è fatta attendere: Piazza Affari ha salutato il nuovo corso spingendo i titoli di Unicredit del 4,52%. Un singolo rialzo che non si vedeva da tempo, sebbene il clima tra Piazza Cordusio e gli uomini della Borsa si fosse già rasserenato con la diffusione dei conti ancora in volata dell’ultimo trimestre. Lo dimostra la pagella di Fitch che ieri ha confermato i rating di lungo e breve termine (A+ e F1), con «prospettive positive » dopo i risultati di «tutto rispetto », nonostante «la qualità degli attivi leggermente peggiorata con fusione con Capitalia». Ieri, però, Profumo ha fatto un passo in più, mettendo nero su bianco in un’intervista al Financial Times l’intenzione e la necessità di «ripensare» di fronte al ciclone subprime, il modello di business, andato fin qui per la maggiore, basato sul trasferimento a terzi, in genere attraverso le cartolarizzazioni, del rischio di credito. Questo modello ora «non c’è più», ha riconosciuto Profumo, raccogliendo in tempo reale un invito giunto dal governatore Mario Draghi che giovedì, da Francoforte, ha molto insistito sulle criticità create dalle cartolarizzazioni e sulla priorità, per le banche, di riconquistare la fiducia dei mercati.
La pratica che va sotto il nome di origination to distribution
(Odt) prevede l’allontanamento dell’esposizione dai bilanci attraverso l’intervento di società specializzate che raccolgano i crediti per trasformali in obbligazioni o altri strumenti finanziari e poi ricollocarli sul mercato. Questi titoli, richiestissimi fino alla crisi dei mutui americani, oggi mettono in fuga gli investitori. Profumo, prima voce di un banchiere europeo che si leva in questa direzione, ha sostenuto invece che in futuro le banche dovranno tenersi in bilancio una maggior quantità di prestiti: «si tratta di spostare il focus altrove rispetto alla distribuzione dei rischi a investitori terzi - ha detto - e di mettere maggiore enfasi sulla vendita di una più ampia gamma di servizi e prodotti ai clienti retail e alle imprese». L’amministratore delegato di Unicredit, che nel 2006 è stato uno dei maggiori venditori di prestiti cartoralizzati, si è detto anche «consapevole che ciò potrebbe significare che le banche potrebbero aver bisogno di più capitale per la crescita». Tuttavia «non pensa assolutamente a un aumento di capitale», ha ribadito Profumo, in serata, aggiungendo poi in un’intervista a Radio24
che «con la chiusura dell’anno e la pubblicazione dei bilanci delle banche, parte delle incertezze che hanno reso meno liquidi i mercati saranno superate ». Da «inguaribile ottimista », Profumo intravede «anche elementi positivi nella crisi: noi tutti siamo diventati più selettivi». E, ancora, a margine della giornata inaugurale della Fiera delle Qualità, il numero uno di Unicredit ha definito «eccellente » la bozza della Banca d’Italia sulla governance dualistica e commentato le indicazioni di Draghi sulle operazioni transfrontaliere ricordando che il gruppo di Piazza Cordusio ha precorso i tempi. Non ci saranno però altre acquisizioni: la crescita ora è tutta interna, con l’apertura di mille nuovi sportelli («mille sportelli sono come una grande banca») nel centro e est Europa.
Paola Pica

CORRIERE DELLA SERA 26/11/2007
FRANCESCO GIAVAZZI
La crisi di alcune grandi banche americane ed europee, che si è propagata ai mercati finanziari di tutto il mondo, è lungi dall’essersi conclusa. Il problema che rimane irrisolto è la carenza di informazione. Durante l’estate era improvvisamente venuta meno la fiducia nei parametri fino ad allora usati per determinare il prezzo di alcuni titoli cosiddetti «strutturati», pacchetti di prestiti – inclusi i famosi mutui subprime ”
che le banche avevano venduto sul mercato. Questi titoli offrivano rendimenti attraenti e si erano rapidamente diffusi. Non solo fra gli investitori, anche fra le stesse banche che vendendo i propri prestiti li avevano di fatto creati.
Poiché nessuno più sa quanto valgano, il mercato per questi titoli si è prosciugato: chi li possiede non può venderli, ma soprattutto, non essendoci più un prezzo, non ha modo di conoscerne il valore. L’illiquidità si è propagata a tutto il mercato perché è rischioso fare affari con istituzioni delle quali è diventato difficile valutare i bilanci.
E’ un problema che le banche centrali possono risolvere solo in parte. La presenza nelle istituzioni finanziarie di poste fuori bilancio e soprattutto la nascita di nuovi intermediari non bancari, esterni rispetto al perimetro della vigilanza, limita la conoscenza e la capacità di azione delle banche centrali. E’ stato suggerito che esse stesse ricreino il mercato acquistando titoli strutturati, ma ciò evidentemente comporterebbe un rischio di inflazione e quindi il rischio di porre a carico di tutti i cittadini le perdite delle banche.
Il ritorno a condizioni normali richiederà molto tempo e anche il cambiamento di alcune regole. Tuttavia è un errore pensare che l’innovazione finanziaria degli ultimi dieci anni sia tutta da gettare. Essa ha permesso alle banche di distribuire il rischio nel mercato e ciò ha ridotto i costi dei prestiti. Ha consentito a famiglie e imprese prima escluse di aver accesso al credito e così poter finanziare investimenti, abitazioni, anche l’istruzione dei figli. Vietare alle banche di vendere una parte dei loro prestiti significherebbe tornare a un mercato in cui i prestiti vengono concessi solo a chi possiede beni da offrire in garanzia. Le banche tradizionali non finanziano immigrati che vogliono acquistare una casa né giovani imprenditori con una buona idea. Senza la nuova finanza difficilmente si sarebbero sviluppate le tecnologie informatiche che hanno trasformato il mondo.
Nel nostro Paese questa crisi ha offerto ai critici del mercato un’occasione ghiotta. Quale migliore esempio per mostrare che i mercati non funzionano, che la finanza è un diavolo dal quale le autorità dovrebbero difenderci, per chiedere che i governi proteggano le nostre grandi banche dal mercato che le spinge al profitto? Prima di cedere a queste sirene suadenti occorre porsi qualche domanda.

CORRIERE DELLA SERA 27/11/2007
MARCO MARONI
MILANO – Citigroup, la più grande banca del mondo per dimensioni, si appresta a varare una riduzione dei costi che potrebbe portare fino a 45.000 licenziamenti, sui 300 mila dipendenti complessivi. La situazione del colosso Usa del credito, pesantemente esposto nella crisi dei mutui subprime e dei titoli derivati, è andata via via peggiorando negli ultimi tempi, con svalutazioni già annunciate per 11 miliardi di dollari che, secondo gli analisti della banca d’affari Goldman Sachs, potrebbero in realtà arrivare a 14 miliardi di dollari. Una situazione che rischia di far chiudere per la prima volta in dieci anni un trimestre in rosso all’azienda, ma dalla quale i soci (il principale azionista, col 5% circa del capitale, è il principe saudita Al Waleed) non hanno trovato ancora una via d’uscita. Nell’aprile scorso era già stata varata una riduzione pari a 17.000 posizioni, il 5% dell’organico. Una riorganizzazione che intendeva ridurre i costi per 2,1 miliardi di dollari nel 2007. All’inizio di novembre gli azionisti avevano rimosso il presidente e amministratore delegato, Charles Prince. Da allora però la banca manca di una guida operativa stabile. Sulla poltrona di presidente è infatti poi stato nominato Robert Rubin, 69 anni, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton e già presidente del comitato esecutivo della banca, con il preciso mandato di trovare un Ceo (chief executive officer). Provvisoriamente la poltrona di Ceo è stata assegnata a sir Win Bischoff, 66 anni, responsabile delle attività europee del gruppo. Dal momento del loro insediamento si sono accavallate voci e indiscrezioni sui candidati, tra queste quella che dava per probabile l’ex amministratore delegato del New York Stock exchange, John Thain, che ha invece optato per la guida di Merrill Lynch. Uno stallo, quello della ricerca della nuova guida, che dura da oltre due settimane e che ha fatto allo stesso tempo crescere il malumore degli azionisti e scendere le quotazioni, contribuendo al ribasso dei titoli finanziari in tutti i principali mercati. Anche perché al nuovo Ceo toccherà procedere a quello che oramai tutti considerano un passo indispensabile per il risanamento: individuare tra le molteplici e poco integrate società del gruppo quelle da vendere per fare cassa. Nello sforzo di ridurre i costi intanto si procede con lo sfoltimento dell’organico.
Il nuovo pesante progetto di riduzione del personale lo ha rivelato ieri il network televisivo Cnbc, che cita fonti interne all’azienda, la quale non ha smentito, ma non ha neppure rivelato le cifre. I vertici della banca avrebbero già informato i capi-dipartimento del programma di riduzione e alcuni dipendenti avrebbero già perso il posto di lavoro.

CORRIERE DELLA SERA 2/12/2007
MASSIMO MUCCHETTI
L
a Global Corporate & Investment Bank utilizza specifici veicoli, le Special purpose entities,
in sigla Spe, per aumentare la raccolta di risorse e frazionare il rischio di credito. Alle Spe la banca procura spesso liquidità e protezione contro eventuali perdite. Può averle come controparti per operazioni in derivati. Non di rado la banca evita di dar conto di questi soggetti dalle forme giuridiche più diverse nel proprio bilancio consolidato.
Le 16 principali Spe fuori bilancio della Global Corporate hanno un’esposizione di 48 miliardi di dollari. Si tratta per lo più di conduits costituiti per cartolarizzare attività dei clienti attraverso asset backed commercial paper, obbligazioni a breve scadenza rappresentative, per lo più, di crediti a scadenza diversa. L’ispettorato interno segnala che le Spe non obbediscono a regole formali, e dunque scritte. L’alta dirigenza della banca, del resto, non esercita alcuna supervisione né pretende rapporti dai gerenti delle Spe. Che vengono costituite e approvate sulla base di documentazione contraddittoria o inadeguata. La decisione di tenere questi veicoli fuori bilancio non è documentata con regolarità. Le valutazioni di rischio non hanno le carte in regola. L’amministrazione e la segreteria della Corporate Global hanno archivi distinti, ma nessuno dei due contiene tutte le Spe. I rischi di mercato impliciti nelle attività disponibili per la vendita e in quelle da mantenere fino alla scadenza, due voci assai consistenti dello stato patrimoniale, non sono segnalati dalla direzione competente nelle posizioni delle Spe. In alcuni casi, le Spe non tengono nemmeno i libri e i registri e il loro decentramento procura inefficienza.
Sembra un’inchiesta di oggi su una banca disinvolta dal nome roboante e sconosciuto. E invece no. La Global Corporate fa parte del gruppo Bank of America. Il rapporto dell’Audit risale al 13 maggio 2002 ed è stato acquisito dalla Procura della Repubblica di Parma nel quadro dell’inchiesta Parmalat, che figura tra i clienti della grande banca statunitense tenuti artificialmente in vita. Cinque anni dopo, nonostante le Fed e le Sec e i nuovi principi contabili, siamo ancora lì: i conduits fanno ancora paura, le banche centrali sembrano non aver imparato granché dagli scandali d’inizio secolo.
Ora, con la lettera di fine settembre, la Banca d’Italia chiede alle vigilate non solo di eseguire l’autovalutazione delle obbligazioni strutturate in portafoglio e delle diverse esposizioni verso Spe ed hedge fund, ma anche di dare notizie analitiche e complete su tutte queste posizioni chiarendo se e perché alcune di queste fossero fuori dal bilancio 2006. Sarà, la lettera degli uomini di Draghi, un’una tantum che copre un vuoto informativo o diventerà la premessa di nuove istruzioni che taglino i margini di manovra impropri delle banche? Nel Paese dell’Italease tutti saranno a posto. Certo, chi avesse fatto il furbo si troverebbe davanti a una scomoda alternativa: confessare di non aver messo a bilancio tutto il dovuto o addomesticare le risposte ostacolando la Vigilanza.
mmucchetti@corriere.it

CORRIERE DELLA SERA 6/12/2007
GABRIELE DOSSENA
MILANO – Un salvagente per i mutui a tasso variabile. Dall’America all’Europa istituzioni e mondo finanziario sono impegnati a trovare soluzioni per uscire dalla bufera. E intanto la Procura dello Stato di New York accende il faro sull’operato delle grandi banche: la richiesta di informazioni sul collocamento dei titoli finanziari ad alto rischio legati ai mutui subprime, ha scritto The Wall Street Journal, sarebbe partita direttamente dall’ufficio del procuratore Andrew Cuomo, coinvolgendo istituti come Merrill Lynch, Bear Stearns e Deutsche Bank. Con l’intento di aiutare i proprietari di case in difficoltà nel pagamento delle rate, le autorità statunitensi e gli istituti specializzati nell’erogazione dei prestiti ipotizzano il blocco per cinque anni dei tassi di interesse sui mutui subprime. Questi i termini del piano voluto dal segretario al Tesoro Usa, Henry Paulson, per arginare il forte aumento dei pignoramenti che, secondo l’agenzia Bloomberg, dovrebbe essere annunciato oggi. L’ obiettivo è evitare che il numero di americani che hanno perso il diritto di riscatto sulla propria abitazione, a causa del mancato rimborso delle rate sui mutui, continui a salire (secondo stime di Credit Suisse, un americano su tre che ha comprato casa con un mutuo subprime non riesce più a pagare le rate).
Anche in Italia il problema- mutui è sotto stretta osservazione. «Siamo pronti a fare qualcosa, si tratta di vedere in concreto cosa si può fare», ha detto il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco, che si è detto certo che si andrà verso un «alleviamento» della situazione «nei prossimi tempi». Anche l’Abi ha dichiarato la propria disponibilità «a individuare le più opportune soluzioni». Più concreta l’idea lanciata ieri da Sergio D’Antoni: secondo il viceministro allo Sviluppo economico il governo sta studiando la possibilità di un «fondo pubblico di garanzia». Diverse le richieste delle associazioni dei consumatori. Adusbef e Federconsumatori dopo l’apertura di Visco chiedono il congelamento dei tassi di interesse, sul modello di quanto stanno per attuare negli Stati Uniti: «Se il governo è pronto davvero a fare qualcosa per aiutare 3,2 milioni di famiglie indebitate a tasso variabile, deve copiare di sana pianta la proposta del ministro del Tesoro americano Paulson». Adesso l’attenzione è concentrata sulle decisioni che prenderà la Fed in merito a un possibile taglio dei tassi. E oggi, la scelta Bce.

LA REPUBBLICA 8/12/2007
LUIGI SPAVENTA
Pericolo Mutui. I titolari di mutui fondiari a tasso variabile, che in un anno hanno visto aumentare il tasso d´interesse di oltre un punto e di quasi mezzo punto negli ultimi cinque mesi e che perciò devono sborsare ogni anno qualche centinaio di euro in più, si pongono le seguenti domande.
Anzitutto, perché il costo dei mutui è aumentato, anche quando le banche centrali mantenevano i tassi ufficiali costanti (nell´area dell´euro) o li riducevano (negli Stati Uniti)? Seconda domanda: si può sperare in una inversione a breve termine di questa tendenza? E infine: la politica economica può con i suoi strumenti offrire qualche rimedio? Temo che le risposte a queste tre domande non siano di grande conforto ai debitori gravati di oneri di interessi crescenti. Servono solo a illustrare la pesantezza della situazione che si è creata quando la crisi acuta provocata dalle insolvenze sui mutui fondiari americani si è trasformata in una pandemia con caratteri cronici.
Il costo dei mutui a tasso variabile è indicizzato non già ai tassi ufficiali o di riferimento annunciati dalle autorità monetarie, ma ai tassi interbancari (solitamente a tre o a sei mesi): quelli che le banche prenditrici di fondi devono pagare alle banche che quei fondi forniscono. In condizioni normali i tassi interbancari si discostano di poco dai tassi ufficiali, e comunque ne seguono le vicende. Ma la normalità è venuta meno dall´inizio dell´estate, quando, in seguito un inasprimento degli episodi di insolvenza negli Stati Uniti, ci si è accorti (gradualmente) che i rischi dei crediti erogati spensieratamente da banche e istituti di credito fondiario e trasformati in prodotti finanziari venduti sul mercato erano tornati almeno per la metà alle banche: con un´esposizione diretta o indiretta e spesso fuori bilancio per centinaia di miliardi di dollari. Quali istituti erano esposti, e per quanto? Nessuno era in grado di saperlo durante l´estate e ancora oggi se ne sa poco, a motivo sia dell´opacità degli strumenti rappresentativi di credito sviluppatisi negli ultimi anni, sia del subitaneo crollo dei prezzi di quegli strumenti, che oggi non trovano compratori, sia dell´opacità dei conti delle banche, che non evidenziavano le esposizioni indirette: istituzioni planetarie come Citi o Merrill Lynch sono state costrette a rivedere al rialzo per cifre ingenti le loro stime iniziali di perdita. Molte banche, in conseguenza, devono far fronte a situazioni di illiquidità, nell´impossibilità di realizzare parte del loro attivo; soprattutto, ciascuna rilutta a prestare alle altre, se non a tassi elevati, nel timore di ritrovarsi in mano il cerino acceso nel caso di difficoltà di una controparte di cui si ignora la situazione effettiva. Le iniezioni di liquidità operate dalla banca centrale americana e da quella europea e la riduzione dei tassi ufficiali decise dalla prima sono servite solo ad alleviare la pressione sui tassi giornalieri, ma non su quelli a meno breve termine. L´aumento dei tassi sui mutui è il prezzo, al dettaglio, di questa diffidenza sistemica.
Se questa tensione possa alleviarsi lo si vedrà meglio a gennaio, superata la sete di liquidità da parte delle banche, che sempre si manifesta a fine anno. Ma la prognosi, allo stato degli atti, non è fausta. L´autorità di vigilanza inglese ha avvertito gli enti erogatori di mutui che le condizioni "resteranno difficili per un periodo sostenuto", "in termini sia di liquidità sia di rischi di credito". In Italia la situazione è meno pesante, perché abbiamo seguito più lentamente il passo dell´innovazione finanziaria, ma non mancano ragioni di preoccupazione: l´aumento del costo dei mutui potrebbe provocare un aumento delle insolvenze; almeno per il momento i crediti che figurano sui libri delle banche non possono più essere ceduti con operazioni di cartolarizzazione; diverrà in conseguenza meno agevole il rispetto dei coefficienti patrimoniali; anche da noi l´erogazione dei mutui fondiari è avvenuta per canali apparentemente esterni al sistema bancario. Comunque, i nostri tassi interbancari non sono certo immuni dalle vicende del mercato globale. In definitiva ci vorrà tempo perché il sistema finanziario, che si era avviato con tanta baldanza verso il nuovo mondo del trasferimento (apparente) del rischio di credito riesca a trovare un nuovo equilibrio.
Le autorità monetarie e di vigilanza hanno armi spuntate. Non furono in grado – e questa è la loro colpa – di comprendere che un rischio crescente si accumulava proprio nel sistema bancario: nel territorio alla cui sorveglianza esse sono deputate. Costrette fra l´altro a navigare fra lo scoglio dell´instabilità finanziaria e quello di un aumento dell´inflazione, esse possono impedire, o alleviare le conseguenze, di episodi acuti di crisi; non di restaurare la normalità con un colpo di bacchetta magica. Nei mercati finanziari l´ingrediente principale della normalità è la fiducia: poco ci vuole a farla venir meno, come abbiamo visto in questi mesi; ci vuole tempo per farla tornare. La nottata potrebbe essere lunga.


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LA REPUBBLICA 09/12/2007
ROSA SERRANO
Caro mutui, il sorpasso è arrivato ora il variabile costa più del fisso. ROMA - E alla fine il sorpasso è arrivato. Il mutuo a tasso variabile costa più del mutuo a tasso fisso. La "valanga" Euribor ha infranto una barriera che finora sembrava praticamente insuperabile: in molti casi, i finanziamenti a tasso variabile offerti in questi giorni dalle banche superano, sia pure di poco, quelli a rata "inchiodata". E per affrontare il problema del caro-rata (che assilla oltre 3 milioni di famiglie), Giulio Tremonti ha presentato ieri un emendamento alla Finanziaria che impone alle banche di offrire ai clienti un piano di ristrutturazione tale da ridurre significativamente l´impatto sulle rate dei rialzi dei tassi di interesse.
Tornando all´Euribor, questo è un tasso di mercato che incorpora stime, previsioni e sentiment degli operatori anticipando, di regola, i movimenti del tasso Bce. In sostanza, chi ha un mutuo a tasso variabile non deve guardare cosa farà la Bce, ma come gli indici Euribor variano sul mercato. L´Euribor 365 a un mese - il parametro utilizzato da circa il 60% delle banche per aggiornare le rate dei mutui a tasso variabile - dopo l´impennata di fine novembre che ha fatto registrare un incremento dello 0,67% (dal 4,22% al 4,89%), ha continuato una lentissima ma, per il momento, inesorabile marcia verso l´alto attestandosi venerdì scorso a quota 4,94%. «Questo sorpasso, sia pure in termini contenuti - spiega Stefano Curti, responsabile prodotti Banca per la Casa - dovrebbe continuare fino a quando non saranno chiusi i bilanci 2007 e si potrà così verificare con puntualità l´impatto della crisi dei mutui subprime sul sistema bancario. Fino a quel momento, quindi, l´attuale trend dell´Euribor non dovrebbe registrare variazioni positive». Sembra, quindi, allontanarsi un rientro immediato dei tassi di interesse interbancari.
Per verificare il differenziale fra tassi fissi e variabili abbiamo ipotizzato un mutuo ventennale di 100.000 euro (valore dell´immobile 200.000) e registrato i valori dei finanziamenti che risultavano ieri sul sito Internet di MutuiOnline. Ipotizzando un mutuo ventennale a tasso variabile di 100.000 euro, il tasso a 1° dicembre 2005 risultava del 2,44% e comportava il pagamento di una rata mensile di 577 euro. Dall´inizio di questo mese, la rata si è notevolmente rafforzata: tasso 4,89% per un importo di 710 euro. Un aumento, quindi, di 133 euro. Va sottolineato che le banche utilizzando diversi parametri di riferimento per aggiornare i mutui a tasso variabile: Euribor a un mese (circa il 60%), a tre mesi (circa il 30%) e a 6 mesi (circa il 10%). A parità di indice, poi, le banche prendono in considerazione quello rilevato a una certa data, mentre altre preferiscono utilizzare la media dei valori di quel mese. «L´impennata dell´Euribor a un mese registrata a fine novembre - spiega Egidio Vacchini, amministratore delegato di Progetica - aggrava la posizione debitoria di quanti vedono questo parametro collegato all´ultimo giorno del mese. Per quelli, invece, che hanno i mutui indicizzati alle medie mensili o ad altre giornate del mese dovremo vedere cosa succederà nel corso del mese di dicembre».


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La Stampa 9 Dicembre 2007
MAURIZIO MOLINARI
Usa, parte il fondo anti-subprime. NEW YORK. Fra 75 e 100 miliardi di dollari: questa è la cifra che puntano a raccogliere da domani le tre maggiori banche americane lanciando il fondo SuperSiv con l’obiettivo di frenare in tempi molto brevi l’impatto della crisi dei mutui subprime sull’economia. Bank of America, Citigroup e JP Morgan Chase avevano iniziato a discutere l’ipotesi del progetto SuperSiv in ottobre, su stimolo del ministro del Tesoro Henry Paulson, e dopo quasi due mesi di difficili negoziati hanno raggiunto l’intesa: tanto sull’ammontare da raccogliere che sull’indicazione della società di gestione BlackRock come manager dell’operazione. Dall’inizio della settimana i tre istituti finanziari metteranno dunque i rispettivi contributi nei forzieri del nuovo SuperSiv e si propongono in questa maniera di innescare un effetto-domino per raccoglierne altri dai propri clienti, presso i quali l’indicazione del BlackRock è mirata ad essere una garanzia di credibilità. «Sono fra i migliori gestori di fondi in circolazione» riassume Robert Smith, analista della banca di investimento Fox-Pitt Kelton di New York. Ma l’opinione degli operatori non è unanime. Altri operatori di Wall Street ritengono, come nel caso di Josh Rosner di Graham Fisher, che aver affidato la gestione a BlackRock servirà a poco perché «questa è un’operazione voluta dalle banche anzitutto per salvare se stesse» dalle conseguenze dell’estrema facilità con cui si sono indebitate negli ultimi anni. Difficile dunque immaginare che altri vogliano aiutarle a cuor leggero.
Da un punto di vista tecnico il fondo SuperSiv viene creato con il fine di acquistare i veicoli di investimento nella finanziari strutturata (Siv) che altrimenti sarebbero obbligati a svendere i propri 300 miliardi di dollari di proprietà per fare fronte ai pesanti debiti che sono stati causati dalla crisi dei mutui subprime. Se l’operazione riuscirà il salvataggio finanziario dei Siv avrà effetti a pioggia, disinnescando il rischio di un’implosione dei maggiori istituti bancari. L’intenzione di Henry Paulson è dunque di andare all’origine del problema dei suprime, arginando il pericoloso processo finanziario che rischia - secondo alcune previsioni economiche - di avere serie ripercussioni nel 2008 sui consumi dei cittadini, dai quali dipende circa il 70 per cento dei pil nazionale. Non è un caso che il lancio del SuperSiv segue di pochi giorni il varo del piano della Casa Bianca per il congelamento quinquennale dei tassi dei mutui variabili delle famiglie che si trovano in maggiore difficoltà nel fare fronte ai pagamenti. La simultaneità fra le due iniziative punta a rassicurare i mercati sulla determinazione del governo a operare assieme ai privati a Wall Street per allontanare lo spettro di una crisi che potrebbe innescare la recessione nel bel mezzo dell’anno elettorale.
Molto dipenderà tuttavia dal risultato della raccolta fondi perché la strategia della Bank of America, che guida il SuperSiv, è di acquistare i Siv (Special Investment Vehicle) in difficoltà per sostenerne i prezzi ed evitarne il collasso a seguito degli investimenti fatti in titoli garantiti da mutui ad alto rischio come i subprime. Il timore che accomuna governo e istituti bancari è una corsa al ribasso dei prezzi dei Siv, che potrebbe avere effetti disastrosi per via del boomerang sulle stesse banche: basti pensare che Citigroup gestisce Siv esposti per 64,9 miliardi di dollari mentre Moody’s sostiene che i Siv a rischio superano quota 100 miliardi. Saranno le prossime settimane a suggerire se il SuperSiv è la carta giusta per evitare il peggio a Wall Street: fra i dubbiosi c’è il quotidiano londinese Financial Times secondo il quale «il piano non serve a molto» in quanto le regole che le tre banche si sono date prevedono la possibilità di acquisto di titoli con un rating elevato e non quelli più rischiosi.



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IL FOGLIO 11/12/2007
STEFANO FELTRI

Milano. Di solito per spiegare la globalizzazione finanziaria si parla dell’effetto farfalla. Il battito d’ali di una farfalla in Cina provoca un uragano in Texas. Ma vale anche il contrario: l’uragano scatenato dai mutui subprime negli Usa rischia di spezzare le ali di quattro farfalle norvegesi, Narvik, Hemnes, Rana e Hattfjelldal, poco più che villaggi a duecento chilometri dal circolo polare artico. La vicenda, riportata dal Financial Times nei giorni scorsi, è questa: le quattro cittadine hanno affidato i propri risparmi, 96 milioni di dollari, a Terra Securities, la banca d’investimento di uno dei più importanti gruppi bancari norvegesi, che in cambio ha venduto dei sofisticati titoli derivati il cui andamento è legato a imprecisati bond municipali emessi da città americane. Complicato? Sicuramente troppo per il sindaco di Narvik e per i suoi colleghi, anche perché, così denunciano loro, la versione in norvegese del documento sui rischi del prodotto finanziario era molto più rassicurante di quella in inglese, che invece spiegava la natura speculativa di quei derivati. La crisi dei mutui subprime e i suoi effetti a cascata hanno fatto crollare il valore dei titoli nel portafoglio dei quattro comuni, che ora annunciano di non essere in grado di pagare gli stipendi di dicembre. Anche se la situazione è ”difficile ma non tragica”, secondo un amministratore locale. I cinici diranno che la colpa è degli sprovveduti funzionari del comune che non hanno valutato bene l’investimento e ora pagano le giuste conseguenze della propria avventatezza. Ma non la pensa così l’autorità di vigilanza dei mercati finanziari norvegese che, un po’ più risoluta delle nostre Consob e Banca d’Italia, ha revocato la licenza a Terra Securities, che di conseguenza ha dichiarato fallimento, e il boss di Terra Group è stato costretto alle dimissioni, dopo aver ammesso che ci sono stati ”palesi errori” nella vendita di quei prodotti truffa ai comuni.
Proprio un altro paese. In Italia, invece, gli enti locali continuano a essere facile preda delle banche che riescono a fare profitti quasi sicuri sfruttando l’avventurismo e le scarse conoscenze finanziarie di molti dirigenti amministrativi. ”Alla fine di agosto il debito degli enti locali per operazioni in derivati verso le banche italiane era pari a un miliardo di euro a valori di mercato. Ma poiché gli enti più grandi ricorrono spesso a intermediari esteri, questo valore di certo sottostima il fenomeno”, denunciava il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi alla fine d’ottobre, in occasione della giornata mondiale del risparmio, e avvertiva: ”Da tempo la vigilanza ha richiamato le banche al rispetto delle norme che regolano le operazioni con gli enti locali e che consentono l’uso dei derivati solo per proteggersi dai rischi e non per migliorare temporaneamente i flussi di cassa, addossando gli oneri alle amministrazioni future”.
Ma, nonostante i richiami, le banche non hanno saputo resistere alla tentazione di un guadagno facile a spese di comuni grandi e piccoli. Da Milano a Roma, da Torino alla regione Lazio, fino all’ultimo dei comuni calabresi, un po’ tutte le amministrazioni locali si sono avventurate negli ultimi anni nel mondo della finanza più sofisticata, quella dei derivati e degli swap. L’idea di per sé è abbastanza semplice: un comune ha un certo debito, con un tasso di interesse fisso (fino a pochi anni fa gli enti locali si potevano indebitare solo presso la Cassa depositi e prestiti a tasso fisso) ma, per varie ragioni, può trovare conveniente ”rimodulare” il debito. Per esempio, all’inizio degli anni Duemila, i tassi di interesse erano in discesa e così molti comuni hanno cercato di sfruttare questo trend, passando dal tasso fisso sui propri debiti a uno variabile. E qui arriva la parte complicata: il modo per farlo si chiama IRS, Interest Rate Swap. In pratica il comune acquista uno strumento finanziario derivato (il cui andamento dipende cioè da altri parametri) che, a seconda di quale sia più conveniente, rende il tasso fisso o variabile. Il problema è che si tratta di un azzardo, una scommessa, e il rischio deve essere proporzionato a quello che il comune può e vuole sostenere, calcolato sulla base di stime attendibili di come andrà il mercato.
Ma come in Norvegia, quasi tutti i comuni e le regioni italiane che hanno scommesso hanno anche perso, e visto che il gioco degli Swap è a somma zero, a guadagnarci sono state solo le banche. Ci sono altri casi paragonabili. Anche Florida e Montana faticheranno a pagare gli stipendi di dicembre, perché i fondi in cui avevano investito sono stati congelati perché troppo esposti ai titoli legati ai subprime e quindi a rischio perdite. Qualche anno fa, nel 1991, coi derivati si era scottata anche la municipalità di Hammersmith, Londra, che arrivò al fallimento per aver speculato troppo con prodotti sofisticati (che poi le furono vietati) con perdite di 200 milioni di sterline. Nessuno dei comuni italiani rischia di fare la fine di Navrik o di Hammersmith, ma anche qui da noi ci sono storie a rischio.
Si va dalla regione Calabria che ha affidato la ristrutturazione del proprio debito alla banca giapponese Nomura regalandole di fatto un guadagno di 25 milioni di euro, secondo i calcoli di una banca concorrente (Barclays) che ha denunciato lo scandalo. A Milano continua da mesi la polemica tra maggioranza e opposizione per un’operazione di swap sul debito decisa dalla giunta guidata all’epoca da Gabriele Albertini che nel 2005 cercò di ristrutturare il debito dell’amministrazione in modo da sfruttare i tassi in discesa. ”A oggi il comune risulterebbe in attivo per 3,6 milioni”, spiega un documento diffuso dall’amministrazione nei giorni scorsi, ma non tutti sono d’accordo, anche perché una delle maggiori difficoltà dei derivati sta proprio nella loro scarsa trasparenza: l’ex ministro dell’Economia Domenico Siniscalco confessò una volta ”io stesso ho difficoltà a leggere e capire questo tipo di contratti”.
Dopo la puntata di ”Report” dedicata al tema (che ha causato qualche problema di immagine e di borsa a una delle banche che fatto più affari con i comuni, Unicredit) anche a Canneto sull’Oglio, 4500 abitanti in provincia di Mantova, hanno scoperto di essere entrati nel club dei derivati. La vecchia giunta aveva scommesso su una riduzione dei tassi di interesse nel 2004, stipulando due contratti derivati che ora, ritrovati in un cassetto dalla nuova amministrazione, potrebbero costare alle casse comunali 56 mila euro. Ma non si ha notizia di soluzioni alla norvegese, nessun dirigente di banca rischia il posto per aver fatto profitti a spese dei contribuenti. L’Anci, l’associazione dei comuni italiani, annuncia di voler creare un gruppo tecnico di supporto ai piccoli enti locali nella gestione degli swap, mentre la Finanziaria 2008 propone un nuovo regolamento per le operazioni di finanza creativa di comuni e regioni. Secondo le nuove regole, ora in discussione alla camera, il ministero dell’Economia non si limiterà più a ricevere la copia del contratto con cui un’amministrazione acquista uno strumento derivato, ma dovrà verificarne la conformità a criteri di trasparenza e la consapevolezza dell’ente locale coinvolto nell’operazione. Se l’articolo 10-bis della Finanziaria arriverà indenne al traguardo, le regioni verranno classificate automaticamente come ”clienti professionali”, così come i grandi comuni con entrate minime di 40 milioni e operazioni finanziarie per 100 milioni nell’ultimo anno, secondo categorie previste dalla direttiva europea Mifid, che stabilisce tutele diverse per gli investitori a seconda delle loro caratteristiche (i ”professionali” sono quelli in grado di assumere rischi maggiori). Ma, nell’attesa che dall’alto si decida come limitare i danni causati dalla disinvoltura finanziaria di qualche assessore al bilancio (che poi recupera le perdite aumentando l’Ici), i nostri enti locali continuano a essere celebri nella City londinese, cuore dell’Europa finanziaria e bancaria. Come polli da spennare, si dice, non li batte nessuno.
Stefano Feltri

CORRIERE DELLA SERA 13/12/2007
FEDERICO FUBINI
MILANO – Appariva quasi impensabile pochi mesi fa, ora è l’agenda di lavoro della settimana prossima. Con un’azione azzardata solo dopo l’11 settembre, i banchieri centrali delle grandi economie globali si muovono insieme per sedare la psicosi da mutui che congela da mesi i canali del credito.
Da ieri la Banca centrale europea e quella svizzera hanno l’assenso della Federal Reserve per prestare decine di miliardi di dollari, non più solo euro o franchi, agli istituti di questa parte dell’Oceano. La Banca d’Inghilterra, inflessibile fino all’autunno, in cambio delle sue sterline ora invece accetterà ciò chiunque altro rifiuta: titoli in dollari garantiti dai mutui o persino dall’esposizione delle famiglie americane sulle carte di credito. E anche la Banca del Canada apre nuovi rubinetti, in parallelo alla Fed.
 stata in realtà la banca centrale americana a chiedere alle altre di agire in modo coordinato per iniettare liquidità, anche perché il piano era pronto da tempo. A Washington fin dall’estate correva la tentazione di una linea di «swap» valutario con la Bce, ossia un accordo perché l’Eurotower svolgesse in Europa il lavoro della Fed: prestare dollari alle banche tedesche, italiane o francesi ai tassi d’interesse americani, dietro l’impegno di Washington di coprire eventuali perdite sul cambio. Molto probabilmente l’intesa è emersa solo ieri per tenerla distinta dal taglio dei tassi americani del giorno prima, ma era formalmente decisa almeno da una settimana. Non si è trattato dunque di una reazione d’istinto alle cadute dei mercati delle ultime ore, eppure le paure che le banche centrali cercano di affrontare sono sempre le stesse: con perdite sui mutui americani nascoste da qualche parte per almeno 200 miliardi di dollari, le banche private diffidano le une delle altre e si prestano denaro solo a caro prezzo, anche ora che tutti ne hanno bisogno per chiudere i conti annuali. Ne risultano interessi di mercato astronomici (4,9% a un mese in Eurolandia, contro il 4,1% di due settimane fa) e una stretta al credito che a sua volta piega le Borse.
Su questo sfondo, nota Marco Annunziata di Unicredit, ieri è arrivato «uno choc di adrenalina». A due riprese, lunedì e giovedì prossimi, la Fed lancerà aste di liquidità da 20 miliardi di dollari l’una a condizioni favorevoli. Negli stessi giorni anche la Bce metterà a disposizione delle banche europee dollari per altri 20 miliardi in totale, mentre la Banca nazionale svizzera ne offrirà quattro. Non è del resto un caso che Berna sia fra le capitali coinvolte, dopo i 14 miliardi di svalutazioni registrati da Ubs sui mutui «subprime ». Resta invece fuori dall’accordo la banca centrale di Tokyo, convinta che gli istituti giapponesi non abbiano gravi problemi a approvvigionarsi di dollari. Per la Banca d’Inghilterra invece la sterzata è ormai completata: all’inizio della crisi in agosto era disposta a prestare agli istituti di Londra solo a tassi punitivi; la settimana prossima invece lancerà un’asta straordinaria da 11 miliardi di sterline in cambio di deboli garanzie, mentre il governatore Mervyn King spera in un rinnovo del suo mandato nel 2008.
A differenza di martedì, quando la Fed ha deluso con la sua cautela sui tassi, ieri i mercati hanno ritrovato fiducia: i tassi di mercato di Londra sono scesi e il Dow Jones ha chiuso positivo (più 0,32%), benché il deficit commerciale Usa sia salito a ottobre con il dollaro ai minimi.


Il Foglio 7 dicembre 2007.
Tassi compassionevoli. Il presidente George Bush ha annunciato che il ministro del Tesoro, Henry Paulson ha raggiunto un accordo con le principali banche e istituzioni finanziarie, in base al quale il governo congela i tassi di interesse sui mutui immobiliari subprime per cinque anni, in relazione agli aumenti di tassi variabili che si sono verificati rispetto al tasso di partenza, in modo da alleviare l’onere del servizio annuo del debito. L’onere relativo ai maggiori interessi, che ora non saranno pagati, non viene cancellato ma rimandato al futuro. Inoltre i debitori in difficoltà potranno anche scegliere di adire a un’istituzione privata o pubblica che allunghi la durata del loro debito, riducendone l’onere annuo di interessi ed ammortamenti. E’ da supporre che questi interventi saranno facilitati da accordi fra i creditori dei subprime loans e questi istituti, in quanto in tale modo i creditori evitano la perdita temporanea dei maggiori interessi derivante dal congelamento dei tassi. Un presidente repubblicano che interviene a favore dei cittadini a basso reddito che avevano comprato casa indebitandosi e che ora rischiano di perderla perché il costo delle rate è aumentato, non corrisponde all’immagine generale che viene data del sistema capitalistico americano, soprattutto quando al potere ci sono i conservatori. Ma sta di fatto che ciò avviene negli Usa e non in Gran Bretagna, dove al potere ci sono i laburisti e dove la crisi dei mutui immobiliari sta generando insolvenze diffuse fra i cittadini a minor reddito. In Gran Bretagna sino ad ora la Banca centrale è intervenuta per salvare dal dissesto la banca Northern Rock che aveva ampliato i suoi mutui immobiliari oltre i livelli di sicurezza. E ora ha abbassato di un quarto di punto il tasso di interesse, per alleviare le sofferenze del sistema bancario, non quelle dei mutuatari. Il provvedimento di Bush e Paulson aiuta, indirettamente, anche le banche e la Borsa degli Usa in quanto riduce le insolvenze sui mutui e quindi riduce i coefficienti di rischio dei prodotti finanziari che li contengono accrescendone il valore. Ma i principali beneficiari sono gli utenti delle banche, non queste ultime. Una lezione da tener presente.



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IL SOLE 24 ORE 09/12/2007
Luigi Zingales
Subprime, piano Bush dettato dal marketing. Annunciata con gran fanfara, la proposta del presidente Bush per affrontare la crisi dei mutui è stata subito bollata come un piano di salvataggio a spese della collettività (che negli Stati Uniti, a differenza dell’Italia, costituisce un insulto). Ad esaminarla bene, però, questa proposta lungi da essere un piano di salvataggio, sembra puro marketing: un tentativo della Casa Bianca di essere percepita come attiva su questo fronte, senza però interferire con le regole di mercato.
Articolato su vari punti, il piano consiste in una serie di parametri per facilitare la rinegoziazione dei mutui a rischio di default. Durante l’euforia del mercato immobiliare, molte famiglie acquistarono una casa troppo costosa per il loro livello di reddito. Questo fu reso possibile dai famigerati mutui subprime, con tassi di interesse iniziali molto più bassi di quelli di lungo periodo. Nel prossimo anno e mezzo il tasso più elevato dovrebbe scattare su circa 1,8 milioni di mutui, forzando molti di questi debitori in bancarotta.
Di fronte a questa situazione i creditori non hanno molte possibilità. Se si riprendono la casa per vie legali finiscono per perdere, anche nelle migliori condizioni di mercato, tra il 40 e il 50% del valore dell’immobile a causa del deterioramento della casa nel periodo dello sfratto. Alternativamente, possono ridurre il costo del mutuo, sperando che il debitore continui a pagare. In questo modo perdono solo sul differenziale di tassi.
Il piano della Casa Bianca fornisce delle linee guida su come questa rinegoziazione debba avvenire. Se il debitore non è indietro nei pagamenti da più di sei mesi, il piano prevede un congelamento dei tassi per cinque anni. Tale congelamento, però, non è automatico, ma deve ottenere il consenso del creditore. Viene spontaneo domandarsi, quindi, quale sia il contributo del piano, visto che i creditori che acconsentono a questo piano avrebbero probabilmente rinegoziato i loro crediti in ogni caso. Nella migliore delle ipotesi, la funzione del piano Bush è di velocizzare queste rinegoziazioni dando delle linee guida.
Nella peggiore delle ipotesi, si tratta di un tentativo della Casa Bianca di farsi vedere attiva su un fronte che sta diventando sempre più caldo, soprattutto in un periodo elettorale.
Con 1,8 milioni di famiglie a rischio di essere sfrattate e con il 60% delle famiglie americane a rischio di vedere il valore della propria casa diminuire, l’argomento si presta alla demagogia. Nonostante Wall Street sia la sua seconda fonte di finanziamenti, nelle sua campagna presidenziale Hillary Clinton si è lanciata contro il mondo della finanza responsabile di aver indotto la gente ad indebitarsi eccessivamente. La sua proposta, molto più aggressiva, prevede un blocco immediato degli sfratti e due miliardi di dollari pubblico a sostegno delle famiglie più bisognose.
Che perfino un presidente ideologicamente contrario ad interferire sul mercato, che si trova alla fine del suo mandato (e quindi senza alcune interesse elettorale diretto), si senta in dovere di apparire come interventista dimostra la fragilità dei meccanismi di mercato.
Perché il mercato funzioni, chi sbaglia deve pagare: i creditori che sono stati troppo generosi nella concessione dei prestiti e i debitori che sono state troppo aggressivi nell’acquisto dell’abitazione. Quando a dover pagare sono in troppi, però, la tentazione di cambiare le regole del gioco diventa insostenibile, anche in un Paese come gli Stati Uniti dove la santità dei contratti è assoluta. il paradosso della democrazia: nei momenti di crisi tende a sovvertire le regole del mercato, incurante dei costi di lungo periodo che questo comporta.
Nel settore bancario è risaputo che le banche più grosse (come la britannica Northern Rock) non vengono mai lasciate fallire (una regola nota come «too big to fail»), perché le pressioni politiche in senso contrario sono insostenibili. Questa crisi ci dimostra che esiste anche la regola del «too many to fail». Quando lo stesso errore è compiuto da troppe persone insieme, come nel caso dei mutui subprime, la pressione ad intervenire diventa egualmente insostenibile. Se manca la disciplina del mercato ex post, per evitare abusi è necessaria qualche forma di regolamentazione ex ante. Tutta la legislazione prudenziale nel settore bancario inclusa Basilea 2 nasce come risposta al «too big to fail». Il rischio del «too many to fail» evidenziato dalla crisi dei mutui subprime rende necessaria una regolamentazione del settore dei mutui. Questa è probabile anche se i Repubblicani dovessero mantenere la Casa Bianca. Ma diventa una certezza con un presidente democratico.


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Il Sole 24 Ore 9 dicembre 2007.
Dino Pesole
Mini salvagente per i mutui in difficoltà. ROMA. Tra le modifiche dell’ultim’ora, inserite nel pacchetto di emendamenti alla Finanziaria faticosamente concordati dalla maggioranza e dal Governo, vi è anche l’istituzione di un Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa, da attivare presso il ministero dell’Economia. L’emendamento è della parlamentare dell’Udeur, Federica Rossi Gasparini e stanzia 10 milioni l’anno sia per il 2008 che per il 2009. A quanti abbiano stipulato un mutuo, e non siano più in grado di versare le relative rate, è concesso di sospendere il pagamento per un massimo di 18 mesi. La richiesta di sospensione potrà essere chiesta per due volte, poi scatterà nuovamente l’obbligo al versamento delle rate. Il Fondo interverrà per far fronte ai costi delle procedure bancarie e degli onorari notarili, necessari per sospendere temporaneamente il pagamento delle rate.
La durata del mutuo viene contestualmente prorogata in relazione alla durata della sospensione. Al termine, si tornerà agli importi e alla periodicità previsti dal contratto, a meno che non sia intervenuta la rinegoziazione del mutuo. Sarà un regolamento dell’Economia, di concerto con il ministro per le Politiche sociali, a fissare i dettagli per la concreta operatività del Fondo. Tra le clausole di esclusione dalla richiesta di sospensione temporanea del pagamento figurano i casi in cui sia stato avviato un procedimento esecutivo «per l’escussione delle garanzie».
L’altra novità in materia di mutui è a firma del Governo, e punta a facilitare «la circolazione giuridica dei mutui ipotecari e degli immobili su cui gravano le relative ipoteche». Si punta in tal modo a rafforzare il dispositivo del pacchetto Bersani. Sono escluse per il cliente penali e oneri di qualsiasi natura in caso di surrogazione, «che comporta il trasferimento del mutuo, alle condizioni stipulate con il cliente e la banca subentrante». Al cliente non potranno essere imposte «spese o commissioni per la concessione del nuovo mutuo, per l’istruttoria e gli accertamenti catastali». Inoltre, il creditore originario e il debitore potranno pattuire la variazione delle condizioni del contratto di mutuo, senza spese. La ricontrattazione del mutuo non comporta oneri aggiuntivi e non implica il venir meno dei benefici fiscali per l’acquisto della prima casa.
L’ultimo emendamento reca la firma del stesso relatore Michele Ventura e fissa nuove norme per il recupero di immobili nei centri storici e per agevolare gli enti locali nel recupero del patrimonio culturale.
Tra le modifiche accolte anche una proposta che è stata avanzata dall’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nell’ultima stesura, riformulata rispetto al testo predisposto in precedenza. Vi si stabilisce che gli istituti di credito «debbano offrire a tutti i clienti che hanno stipulato mutui con le banche stesse un piano di ristrutturazione delle relative rate in modo da ridurre significativamente l’impatto sulle rate dei mutui dell’incremento dei tassi di interesse». Nella versione originaria si prevedeva che in assenza di ristrutturazione dei piani di mutuo le banche non potessero usufruire di aliquote fiscali ridotte. «Abbiamo modificato il testo originario - ha spiegato il sottosegretario all’Economia, Alfiero Grandi - perchè si sarebbe trasformato quasi in un ricatto per le banche. Ritoccato questo punto, abbiamo poi dato il nostro ok».
L’emendamento prevede poi che i piani di ristrutturazione per il pagamento del mutuo dovranno essere concordati con le associazioni di consumatori, di investitori e di altri soggetti portatori di interessi collettivi e dovranno essere individuati da un decreto del ministero dell’Economia.
Nel complesso, si tratta di un pacchetto di misure che va nella direzione di "alleggerire" il costo del caro-mutui, anche se la strada maestra continua a essere quella di un intervento diretto da parte degli istituti di credito, nei confronti dei clienti che manifestino palesi difficoltà a onorare le rate dei mutui. l’effetto del notevole incremento del tasso interbancario Euribor, cui sono agganciate le rate dei mutui a tasso variabile, intervenuto da quando la Bce ha intrapreso la strada dell’aumento del costo del denaro. Iniziative sono state attivate da UniCredit e Mps, per la rinegoziazione gratuita dei mutui a tasso variabile e l’allungamento del periodo di ammortamento, mentre un altro gruppo di banche, tra cui Intesa Sanpaolo, consente di allungare la scadenza del mutuo fino a 40 anni ai clienti con mutuo indicizzato.


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IL SOLE 24 ORE 09/12/2007
Dino Pesole
Negli Stati Uniti l’effetto subprime colpisce anche gli enti di carità
La crisi subprime si abbatte anche sugli enti caritatevoli statunitensi. Il «Washington Post» sottolinea infatti le difficoltà in cui si trova Capital Area Food Bank, una vera e propria banca «antifame» della capitale (nella foto la first lady Laura Bush durante un’iniziativa a sostegno dell’istituto). Le scorte della banca, che fornisce beni di necessità agli indigenti, sono infatti drammaticamente al di sotto dei livelli dello scorso anno. La ragione del calo delle scorte deriva da una combinazione di fattori: da un lato, la diminuzione delle donazioni; dall’altro, la crisi economica che ha colpito gli Stati Uniti, e il numero crescente di americani che hanno perso le loro abitazioni per la crisi subprime, ha provocato un aumento nel numero dei bisognosi. La contrazione dell’offerta e il balzo della domanda hanno portato dunque le banche antifame ad avere sempre meno da offrire agli americani più poveri.


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LA REPUBBLICA 14/12/2007
ROMA - Le banche centrali non rassicurano i mercati. Così per le borse è un giorno nero: in Europa vanno in fumo circa 204 miliardi di euro, la maggior perdita delle ultime tre settimane. Ovunque sembra prevalere la delusione, dopo la maxi iniezione di liquidità effettuata da un pool di istituti guidati da Federal Reserve e Bce per contrastare gli effetti della crisi dei mutui facili Usa, i cosiddetti subprime. Finiscono col segno meno tutti i listini del vecchio continente - Milano perde l´1,67%, Londra il 2,7%, Parigi il 2,6 - e, prima ancora, quelli asiatici. Reagisce al ribasso anche Wall Street che poi recupera nel finale di seduta.
I titoli più colpiti sono i bancari. Gli operatori temono che arriveranno presto altre svalutazioni da parte delle banche (ieri è toccato a Lehman Brothers) ferite dai contraccolpi dei subprime; sono preoccupati per le sorti della crescita economica, ribaditi ancora dalla Bce nel suo Bollettino. Eurolandia ha un´economia solida - si legge nel testo - ma per il futuro ci sono «rischi al ribasso» ( il Pil 2008 è previsto tra l´1,5% e il 2,5%, in calo rispetto ai precedenti 1,8% e 2,8%). In più l´inflazione si manterrà «a livelli significativamente superiori al 2% nei prossimi mesi» (dopo i rincari di pasta e pane, potrebbe toccare alla carne), e Francoforte si dice «pronta a contrastarla» con la leva dei tassi. Anche «i progressi nel risanamento dei conti pubblici fatti dai paesi con residui squilibri di bilancio sono generalmente deludenti». Quest´anno miglioramenti a livello Ue ci sono stati, grazie anche al «venire meno di significativi fattori temporanei di accrescimento del disavanzo in Italia» (la sentenza della Corte Ue sulla detraibilità dell´Iva per l´auto aziendale nel 2006), ma per il 2008 prevale «l´incertezza», specie dal lato delle entrate.
Timori, scenari, ma anche nuovi dati. Gli operatori guardano al risultato inaspettato dei prezzi alla produzione Usa, cresciuti a novembre del 3,2%, il maggior rialzo degli ultimi 34 anni. Non trascurano il dato spagnolo sulle costruzioni residenziali, crollate ad agosto del 40% rispetto allo stesso periodo del 2006: sono a rischio 500 mila posti. In questo contesto, le autorità monetarie per forza di cose sono in stretto contatto. Lo stesso ministro Tommaso Padoa-Schioppa parlerà oggi alla Borsa di Londra, dopo un colloquio con il governatore inglese Mervyn King. Ieri, invece, era in Banca d´Italia con il governatore Mario Draghi ad ascoltare una lezione di Stanley Fisher, titolare della Banca d´Israele, tutta dedicata all´urgenza di riformare le istituzioni di Bretton Woods (Fmi e Banca Mondiale) dando più voce alle economie emergenti e ridimensionando il peso dell´Europa: passa anche da questo versante la necessità di migliorare il sistema.
Per adesso, il piano anti-crisi delle banche centrali produce solo un effetto: un lieve calo (da 4,947% a 4,938) del tasso Euribor a un mese, usato come riferimento per i mutui a tasso variabile.
(e.p.)


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Il Sole 24 Ore 13 dicembre 2007
Riccardo Sorrentino
Iniezione globale di liquidità. Una decisione rivoluzionaria. Mai vista prima. La Federal Reserve, la Bce e la Banca nazionale svizzera hanno annunciato ieri, una serie di iniezioni coordinate di liquidità in dollari per andare incontro alle difficoltà che molte banche potrebbero incontrare, come di consueto, con la fine dell’anno e la chiusura dei bilanci. Le autorità monetarie di Gran Bretagna e Canada si affiancheranno con iniezioni in valuta locale.
 un’operazione di tipo nuovo, complessa e sperimentale. Mostra l’ampiezza del contagio della crisi dei subprime, che richiede interventi coordinati e globali, l’inefficacia delle misure finora adottate, e anche le debolezze del mercato monetario Usa, distorto da regole e privilegi. stata annunciata inoltre il giorno dopo l’ultima riunione annuale delle Banche centrali coinvolte, quella della Fed, e quindi non segnala nulla dal punto di vista della politica monetaria: è semplice "manutenzione", sia pure straordinaria, del mercato monetario.
Negli Usa. La Fed lancerà negli Stati Uniti quattro aste: lunedì 17 e giovedì 20, da 20 miliardi di dollari ciascuna, e poi il 14 e 28 gennaio, con ammontare da definire.
Le operazioni cancellano momentaneamente una distorsione del mercato monetario americano (che favorì nel ’91 clamorosi abusi da parte della Salomon Brothers). Negli Usa soltanto 21 privilegiatissime banche hanno accesso alle aste - anche quelle straordinarie dei mesi scorsi! - lanciate per iniettare o drenare liquidità al tasso dei Fed Funds, oggi al 4,25 per cento. Alle corrispondenti operazioni della Bce hanno accesso invece centinaia di istituti.
Le altre aziende di credito americane devono pagare di più. Le migliori possono chiedere fondi al tasso di sconto, oggi al 4,75%, anche se possono consegnare in cambio un range più ampio di titoli a reddito fisso: è la discount window, che non garantisce l’anonimato e lascia trapelare quindi eventuali situazioni di difficoltà. Per quelle ancora meno solide sono previsti strumenti diversi.
Le operazioni lanciate ieri - che sono sperimentali - gettano un ponte tra questi diversi mercati. Le banche che hanno accesso al tasso di sconto potranno partecipare a queste aste, consegnando titoli ammessi alla discount window. Il tasso sarà fissato dall’incrocio tra domanda e offerta, ma con un minimo pari all’overnight indexed swap che misura la media dei tassi ufficiali attesi dal mercato. Il costo del denaro potrà quindi essere più basso del tasso di sconto, e più vicino a quello sui Fed Funds.
Non è una novità da poco, anche perché la nuova procedura potrebbe diventare definitiva. «L’esperienza acquisita da questo programma temporaneo - ha spiegato la Fed - sarà utile per valutare la potenziale utilità di aumentare gli attuali strumenti di politica monetaria». In sostanza, si deciderà se realizzare con asta - anonima! - anche le operazioni sulla discount window. Non sarebbe la fine delle distorsioni, ma in ogni caso un passo avanti.
All’estero. L’operazione non si concluderà negli Stati Uniti. La Fed fornirà dollari alla Banca centrale europea (20 miliardi) e alla Banca nazionale svizzera (4 miliardi) attraverso reciproche linee di swap - scambi di valuta - che dureranno sei mesi e quindi hanno, spiega Marco Annunziata di Unicredit, un valore strutturale, non legato solo alle difficoltà di fine anno.
Le due autorità monetarie europee potranno così realizzare iniezioni di dollari, e non solo di euro e franchi, negli stessi giorni della Fed. Potranno così ridurre ulteriormente le tensioni presenti sui loro mercati interbancari - l’Euribor a tre mesi si avvicina ormai al 5% - scatenate anche da una forte, e non esaudita, domanda di liquidità in dollari. Non a caso la Bce accetterà, in cambio, tutti i titoli di Eurolandia da lei generalmente ammessi alle aste.
Saranno invece effettuate in valuta locale le iniziezioni della Banca d’Inghilterra e della Banca del Canada, ma con un range più ampio di titoli rispetto al normale. La Banca del Giappone e la Banca di Svezia non aderiranno invece al "concerto" perché considerano i loro mercati in ordine.


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LA REPUBBLICA 20/12/2007
Simon Nixon
Benché la maggior parte degli hedge fund guarderà con soddisfazione al 2007, essendo riuscita a superare senza troppi danni la stretta creditizia, l´anno prossimo le difficoltà potrebbero aumentare. La sfida cruciale sarà la capacità di reperire capitali a condizioni competitive, se non a qualsiasi condizione, data la maggiore onerosità dei finanziamenti per le stesse banche e il moltiplicarsi delle richieste di chi vorrebbe accaparrarsi gli scarsi mezzi di cui dispongono. La maggior parte degli hedge usa i finanziamenti per rimpinguare i rendimenti e nel settore il valore medio del ricorso all´effetto leva è poco inferiore al doppio dei patrimoni gestiti, ma ci sono forti differenze a seconda delle strategie usate. Sebbene le strategie long-short basate sul bilanciamento di posizioni d´acquisto e vendita (le più diffuse) vi ricorrano poco, numerosi fondi specializzati in arbitraggi ne fanno un uso massiccio. Questo tipo di finanziamento generalmente è offerto dagli intermediari detti prime broker, con l´apertura di linee di credito o finanziamenti a pronti contro termine (molti con scadenza sotto i 90 giorni) su determinati titoli o portafogli. Inoltre, spesso le banche possono modificare a piacimento gli importi delle garanzie, i tassi d´interesse o l´ammontare dei finanziamenti.
Fino ad agosto la concorrenza tra i prime broker era così intensa che per gli hedge non era difficile reperire finanziamenti consistenti a condizioni molto appetibili (in genere pochi punti base sopra il Libor), con cui le banche guadagnavano poco o nulla ma stavano lo stesso al gioco, nella speranza che i prime broker portassero comunque lavoro o di guadagnare qualcosa con il rialzo dell´azionario. Oggi queste aspettative si sono molto ridotte dato che il tasso trimestrale in dollari del Libor supera di quasi 75 punti base i Fed funds. In particolare gli intermediari e operatori di Borsa (broker dealers), che si procurano i fondi all´ingrosso, hanno le loro difficoltà finanziarie e devono scaricare sui clienti i maggiori oneri. I rendimenti degli hedge ne saranno penalizzati, mentre alcune banche potrebbero trovare modi più redditizi di impiegare i loro scarsi capitali, e chiudere in tutto o in parte i rubinetti.
Ad agosto gli hedge hanno avuto un presentimento quando numerosi prime broker hanno aumentato le garanzie, ma poi le banche hanno continuato a coccolarli, anche perché ci vuole tempo prima che il maggior costo dei capitali si trasmetta da un capo all´altro della catena. Inoltre le banche temono di farsi una cattiva nomea abbandonandoli e, ciò che è ancor più importante, hanno prestato agli hedge i quattrini per comprare titoli in difficoltà, sgravando gli stati patrimoniali delle stesse banche ed evitando loro perdite massicce. Se si fosse interrotto questo gioco di squadra gli hedge avrebbero dovuto scaricare molti titoli sul mercato creando altri scompensi, ma le banche non potranno continuare ad assecondare i fondi in eterno. L´anno prossimo, quando le strategie che richiedono un ampio uso dell´effetto leva e di investimenti in titoli illiquidi si troveranno in affanno, gli hedge che vi ricorrono dovranno cercare di procurarsi finanziamenti a lungo termine. Mesi fa, Citadel ha raccolto 500 milioni di dollari sull´obbligazionario, mentre il fondo londinese Cqs si era premunito assicurandosi finanziamenti "lunghi" prima della stretta creditizia. Non tutti hanno avuto tale preveggenza, e ora potrebbe essere troppo tardi.


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