La Stampa, 10 novembre 2016
Trump: «Sarò il presidente di tutti»
Donald Trump dice che la sua non è stata una campagna elettorale, ma un movimento per restituire il potere al popolo. I contenuti di questa rivoluzione sono discutibili, ma la premessa no. Ha vinto intercettando le ansie dei bianchi della classe media e bassa, senza laurea, soprattutto nell’America rurale, risentiti per la crisi economica e impauriti dalla sensazione che il Paese sfugga loro di mano, passando alle minoranze. Un’ondata populista e anti-globalista che era cominciata in Europa con la Brexit, ma ora ha trovato conferma negli Stati Uniti, usando l’esuberanza di Donald per diventare il fenomeno politico occidentale dominante.
Eravamo proprio in Scozia, davanti al campo da golf a cui Trump tiene di più, perché lo ha costruito a Balmedie, da dove era emigrata sua madre Mary MacLeod. Il programma, comunicato ai giornalisti del seguito, era elementare: Donald sarebbe atterrato con l’elicottero sopra il prato, noi avremmo scattato foto, e lui poi avrebbe proseguito da solo la visita. Infatti appena sceso ci aveva visto, era venuto da noi, e per la disperazione della bellissima portavoce Hope Hicks aveva cominciato a parlare con tutti a ruota libera. Non contento, aveva aggiunto: «Salite sopra alle macchinette e venite con me. Vi porto a vedere alcuni dei panorami più belli della Scozia». Così lo avevamo seguito buca dopo buca, con lui che ogni volta si fermava, mostrava la bellezza degli scogli a picco sul mare, e continuava a rispondere a qualunque domanda lasciandosi riprendere dagli smartphone. In quella occasione, tra le altre cose, mi aveva detto che secondo lui il premier italiano Renzi era «irrilevante», perché non sarebbe stato il suo appoggio a Hillary Clinton a cambiare l’esito delle presidenziali, ma la volontà degli americani.
A gennaio, durante un comizio nel New Hampshire quando nessuno scommetteva un penny su di lui, aveva usato lo stesso metro con la cancelliera tedesca Merkel, dicendomi che la sua politica permissiva sull’immigrazione era «insane», da pazzi. Ora, però, promette di «lavorare con ogni Paese che vorrà farlo con noi».
Questo è il suo carattere, impulsivo e diretto, e tutti quelli che fino a ieri erano stati i cardini indiscutibili della politica presidenziale americana, sono crollati sotto al peso del suo sorprendente trionfo. A partire dalla biografia e dalle uscite, che avrebbero distrutto la carriera di qualunque candidato tradizionale, ma proprio per questo hanno invece esaltato la sua. Campione della scorrettezza politica, dell’avversione all’establishment e del populismo, che ha sdoganato come nuova corrente politica dominante nel mondo occidentale e oltre.
Nato al Queens nel 1946 in una famiglia di costruttori, da ragazzo Donald era così indisciplinato che il padre lo aveva mandato all’Accademia militare di New York, nella speranza di raddrizzarlo. Forse qui aveva maturato l’esperienza, o l’attitudine al comando come la chiamano sotto le armi, per dire durante la campagna elettorale che «io conosco l’Isis meglio dei generali». Lui comunque aveva capito la lezione, laureandosi subito dopo in Economia alla prestigiosa Wharton School. Era entrato nella compagnia di famiglia, cominciando come muratore: «Era durata poco, però. Solo tre settimane». Le manie di grandezza avevano guidato la sua vita. Dal lavoro, dove ha legato il suo nome ad alcuni degli edifici più fastosi di New York, alla vita privata, con la serie delle tre bellissime mogli Ivana, Marla Maples e ora Melania Knauss, e dei cinque figli e sette nipoti. Per un George Bush o un Barack Obama, una simile storia famigliare avrebbe significato la fine di ogni ambizione politica. Per lui, come ci racconta l’imprenditore italiano Paolo Zampolli che gli aveva presentato Melania, è stata invece un motivo di popolarità fra gli elettori: «Chi non vorrebbe avere una bella moglie? Melania lavorava per la mia agenzia di modelle ed era molto riservata. Gliela presentai durante una festa, alla fine della settimana delle sfilate di moda a New York. Qualche giorno dopo venne a cena da me con lei, e scoprii che stavano insieme».
L’arguzia professionale del padre Fred, figlio di immigrati tedeschi che aveva fatto i soldi costruendo case popolari nelle periferie di New York, gli andava stretta. Grande esempio di abilità imprenditoriale, compresa la denuncia per discriminazioni verso gli inquilini delle minoranze, ma anche destino da evitare a tutti i costi. Perciò si era lanciato alla conquista di Manhattan, cominciando dalla scommessa di ristrutturare il vecchio albergo Commodore sulla 42a strada. La decisione di buttarsi nei casinò, col Taj Mahal di Atlantic City, lo aveva portato alla bancarotta nel 1991. In totale quattro sue compagnie sono fallite, però ha sempre trovato il modo di cancellare i debiti e tornare a costruire, magari con i soldi degli altri. Un politico tradizionale sarebbe stato distrutto da questi fallimenti, ma lui invece li ha rivendicati come abilità di sfruttare al meglio il sistema americano per rialzarsi, concludendo affari dalla Russia alla Cina grazie alla globalizzazione che ora critica.
Simbolo della rinascita era stata la Trump World Tower del 2001, 72 piani davanti all’Onu, che all’epoca era la torre abitativa più alta del mondo. Poi magari non pagava i fornitori, e aveva sfruttato le perdite vere o presunte da un miliardo di dollari per evitare le tasse per vent’anni. Ma questo, secondo l’ex sindaco e procuratore di Manhattan Rudy Giuliani, rappresenta «il suo genio, e la sua capacità unica di riformare un sistema fiscale ingiusto che premia solo i più ricchi». Cioè lui stesso. Ma questo per gli elettori è stato un plus, perché «se ha già i soldi non avrà bisogno di rubarli, e quindi farà ciò che promette».
Ad esempio il muro lungo il confine col Messico, che lo ha lanciato, interpretando il sentimento di pancia dei bianchi della classe media e bassa rurale, che sentivano l’America sfuggire di mano. Con Donald l’hanno riconquistata, in attesa del prossimo scontro con le minoranze, che intanto diventano maggioranza negli Usa, o con gli effetti della globalizzazione, che il nuovo presidente promette di rimettere al servizio della gente.
A questo Trump ha aggiunto il successo televisivo col reality «The Apprentice», che lo ha preparato alla comunicazione della sua campagna, forse diretta e arrogante, ma certamente efficace. Inclusi i tweet alle 3 del mattino per criticare le forme di una ex Miss Universo, o la registrazione in cui diceva che il suo stato di star gli permetteva di prendere le donne come voleva. Forse questa gaffe avrà smosso benpensanti e femministe, ma non il suo fedele elettorato: «Posso andare sulla Fifth Avenue e sparare a una persona, e non perderei un voto».
Ha militato nel Partito repubblicano, riformista, democratico, indipendente, e ora di nuovo repubblicano, stavolta per entrare alla Casa Bianca. Perciò l’establishment del Gop non si fidava di lui, e gli elettori lo hanno invece scelto. Come aveva preannunciato il regista liberal Michael Moore, la sua elezione è stata «il più grande vaffanculo della storia». Donald però promette di trasformarlo in una rivoluzione, un movimento che «restituirà il potere a voi, il popolo» e promette di essere «il presidente di tutti».