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 2016  novembre 10 Giovedì calendario

Il cielo azzurro del Papu. «Dai mitra in Ucraina al volo dell’Atalanta». Intervista a Alejandro Dario Gomez

Zingonia Alejandro Dario Gomez, detto El Papu, lei che è capitano dell’Atalanta ci svela i segreti di questo exploit?
«Avere creduto in Gasperini. All’inizio abbiamo faticato a capire il nuovo modulo. Poi, dopo la vittoria a Crotone, è scattata la scintilla».
Grazie anche a giovani talenti come Conti, Caldara, Grassi Petagna, Gagliardini: i nomi del momento.
«Bravi, di grande personalità: farcela non era semplice».
E pensare che Gasperini era a rischio esonero.
«Quattro sconfitte nelle prime cinque partite sono pesanti. Ma qui c’è una società forte che protegge dalle critiche».
In Italia si parla troppo?
«In Argentina è peggio. Lì la crisi scatta al primo k.o...».
Nei giorni scorsi è arrivato il no definitivo alla sua eleggibilità per la Nazionale italiana perché quando aveva giocato (e vinto) il Mondiale Under 20 con l’Argentina nel 2007 non aveva ancora il doppio passaporto. Deluso?
«Mi spiace, sì, ma spero ancora che gli avvocati riescano a trovare una soluzione. L’Italia per me sarebbe un sogno».
E l’Argentina?
«Non mi hanno mai dato chance. Non ci penso più».
Anche Icardi è un altro escluso eccellente.
«Lì dipende dalle questioni extra calcistiche con Maxi Lopez e Wanda Nara. Perché quello che fa in campo Mauro con i suoi gol non si discute».
Com’è nata la sua vocazione calcistica?
«Nato a Baires, sono cresciuto a Avellaneda, a 500 metri dagli stadi di Independiente e Racing, che sono divisi solo da una strada. Mio zio Hugo ha vinto l’Intercontinentale nel 1984 con l’Independiente, mio papà lavora nel club. Insomma, il calcio era nell’aria».
Arsenal, San Lorenzo e poi, a 22 anni, Catania.
«E sono tre anni pazzeschi, i 56 punti, l’8° posto, una squadra che va a memoria, tanti argentini: giocare era una festa».
Il peggio arriva invece in Ucraina, al Metalist Kharkiv.
«Mi voleva Simeone all’Atletico, il Catania ha rifiutato. In Ucraina guadagnavo il triplo e c’era l’ipotesi Coppe».
Invece trova la guerra.
«Ho avuto paura. Vedevo i mitra in strada, non potevo continuare. E per fortuna ho incontrato l’Atalanta».
Perché voi argentini avete tanto successo in Italia?
«Noi viviamo di calcio come voi, ma la maggior parte delle famiglie lo vede come la grande occasione per sistemarsi economicamente. Si parte presto e si diventa adulti in fretta. Io a 14 anni ero in prima squadra, a 19 avevo 100 partite in serie A argentina, quando sono arrivato a Catania avevo già vissuto l’atmosfera dalla Libertadores. Se poi consideriamo la violenza che c’è da noi, l’Italia è il posto ideale: un’Argentina più tranquilla».
Atletico Madrid, ma anche Inter, Milan, Napoli. Ogni estate il Papu sembra pronto per una grande. Invece...
«Questione anche di fortuna. Magari accadrà un giorno, ma invece di pensare a una squadra grande è meglio rendere grande l’Atalanta, no?».
L’Atalanta è da Europa?
«In effetti, arrivato così in alto, ti viene da chiederti: e adesso? Se continuiamo a vincere in trasferta, io dico perché no? La salvezza è già vicina. A gennaio riparliamo d’altro...».
Lei è un giocatore insieme moderno e vintage.
«È così. Saltare l’uomo come le ali di una volta, alla Garrincha, è il mio piacere massimo. A Catania ero ancora puro istintivo. Ora ho migliorato tecnica e visione e posso fare la seconda punta accentrandomi come vuole Gasperini».
Sui social, che frequenta assiduamente, mostra le sue sedute di allenamento fisico-cognitivo. Di che si tratta?
«Sono lavori di coordinamento psicomotorio che impegnano più parti del corpo, affinano la concentrazione e ampliano la visione».
Allora i calciatori pensano…
«Il problema è che abbiamo tanto tempo libero. Io cerco di ottimizzarlo. Oggi devi essere professionale 24 ore al giorno. Il maledetto alla Gascoigne non può più esistere».
E neanche alla Maradona?
«Io non sono il tipico argentino malato per Maradona. Lui era una bandiera in campo, ma poi ha fatto una vita che non ha niente di sportivo. I miei modelli sono altri: Aimar, Riquelme e soprattutto Veron: vero giocatore, uomo, leader».
Su Instagram cita Bielsa: «Il successo è un’eccezione».
«Ho letto tutti i suoi libri. Lo chiamano pazzo, per me è un genio. Per lui non si può valutare tutto solo in base ai risultati: conta la sostanza, il come. Che gusto c’è a vincere stando tutti dietro e sfangandola al 90’? Se farò l’allenatore, e mi piacerebbe, sarà il mio credo».
Intanto fa l’imprenditore.
«Ho aperto un centro medico sportivo col mio fisioterapista e 8 professionisti del settore. Mia moglie Linda, che è architetto, ha curato il progetto. E ho scelto Bergamo perché sono innamorato della città».
Con Linda postate scene di vita serena: balli, karaoke, il Papu DJ o in cucina, i bimbi Bautista e Costantina.
«Ci conosciamo da 12 anni, siamo non solo marito e moglie ma grandi amici. Da anni viaggiamo soli, senza le famiglie. In questo mondo, se non sei unito e non sorridi insieme, è un disastro».