Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  novembre 09 Mercoledì calendario

Senso del tragico e idealismo, 
le doti del vero statista

In La mia vita (Racconto di un provinciale), pubblicato nel 1896, Anton Cechov traccia un ritratto davvero devastante dei muzhik, i contadini russi, che mostra quando le condizioni sociali e politiche della Russia siano rimaste immutate nel corso della storia: «Erano quasi tutti persone nervose, irritate, offese; con una immaginazione repressa, ignoranti, di aspetto povero e scialbo, sempre con gli stessi pensieri, sulla terra grigia, i giorni grigi, il pane nero, gente furba che però, come gli uccelli, riusciva soltanto a nascondere la testa dietro un albero. Non sapevano fare di conto, e non sarebbero andati a raccogliere il vostro fieno per venti rubli, ma ci sarebbero andati per un mezzo secchio di vodka, nonostante con venti rubli ne avrebbero comprati quattro, di secchi».

Molti, a leggere queste righe, potrebbero scuotere la testa constatando quanto sia impossibile che mai venga qualcosa di buono dalla Russia, comprendendo come tutto, dagli zar a Lenin e Stalin, fino a Putin, sia legato in qualche modo alla realtà sociale dipinta da Cechov. Avrebbero ragione. Molti altri potrebbero invece pensare a tutte le riforme necessarie ad alleviare condizioni di vita così misere, e a tutte le strade che la Russia alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo aveva davanti – e ha davanti tuttora – per migliorare la società. E anche questi avrebbero ragione.

Geopolitica vs politica

Definire la prima visione come realistica e la seconda come idealistica sarebbe semplicistico, come anche parlare di visione deterministica e antideterministica – con coloro che si oppongono all’intervento umanitario collocati di solito nel primo campo e quelli favorevoli nel secondo. Tutte queste dicotomie colgono comunque elementi di una particolare divisione nella battaglia delle idee. Sto parlando di sensibilità e visioni del mondo totalmente differenti – che includono anche divergenze di opinioni su argomenti più specifici – e c’è qualcosa di profondo che spiega molte delle dispute in corso a Washington, e che spinge alcuni, per esempio, ad ammirare la saggezza presciente dell’iper-realista Brent Scowcroft e altri ad applaudire l’instancabile energia di John Kerry nel cercare di fare del bene.

In realtà sto parlando di quelli che sono attratti dalla geopolitica – l’eterna battaglia di spazio e potere combattuta sulla carta geografica da Stati con caratteristiche storiche e culturali particolari e spesso immutabili – e quelli che pensano invece alla politica, una sfera nella quale l’umanità cerca attivamente di trovare soluzioni ai problemi internazionali, proponendo azioni specifiche al governo americano. Il primo gruppo è più o meno incline a leggere e studiare la storia e la letteratura, il secondo alle scienze politiche. Il primo si fa sedurre dalla narrativa, il secondo da grafici e tabelle. Il primo va in cerca di essenze culturali profondamente radicate, il secondo di quello che nell’era della globalizzazione accomuna gli individui oltre le barriere culturali.

Per quanto queste generalizzazioni siano imperfette, ritengo che contengano una verità. E cioè che sulle grandi questioni della politica estera le persone si schierano in base ai loro gusti e inclinazioni intellettuali. Ma qui la faccenda diventa più complicata, perché gli idealisti della politica, come mi è capitato di notare, sono più inclini alle scienze politiche, mentre i neoconservatori (una sottospecie degli idealisti) preferiscono la filosofia, dalla quale attingere principi astratti da applicare a tutto il mondo.

Quelli che, leggendo il brano di Cechov, abbassano le braccia di fronte alla bestialità immutabile della Russia tendono a diffidare dei grandiosi piani per imporre i valori americani all’estero; coloro che leggono Cechov come un appello a passare all’azione sono meno cauti. 

Meglio Shakespeare

Onestamente, mi sento appartenere di più al primo campo, frutto non solo delle mie letture preferite, ma anche di decenni come corrispondente all’estero, che mi hanno insegnato come numerosi luoghi abbiano esperienze storiche radicalmente diverse da quelle dell’America.

In realtà, uno statista non può considerarsi tale senza prestare ascolto a entrambe le sensibilità. Deve essere un geopolitico che accetta la battaglia dello spazio e di potere tra Stati con diversi valori, aspirazioni ed esperienze storiche, e nello stesso tempo cercare di ottenere in questa spietata competizione dei vantaggi per il suo Paese. Accettando il mondo come è, con tutte le sue crudeltà così ben descritte da Cechov, ha il senso del tragico. Ma siccome deve anche cercare vantaggi e migliorare le situazioni grazie alla diplomazia, deve credere nell’azione umana, il che richiede una buona dose di idealismo. Perché possedendo soltanto il senso del tragico lo statista resterebbe impossibilitato ad agire, mentre limitandosi all’idealismo si lascerebbe coinvolgere in un negoziato dopo l’altro, senza piano né scopo, e senza saper riconoscere un risultato realistico o semplicemente utile (un po’ come il segretario di Stato Kerry). Quindi, è necessario impiegare entrambe le sensibilità, in quanto ciascuna da sola è limitante e riduttiva.

Formazione carente

La geopolitica è troppo meccanica. Si sconfigge da sola rifiutando di prendere in considerazione gli individui. Non accetta che, in fondo, Shakespeare ha più da insegnarci di Mackinder o Mahan. D’altro canto, i politici di tipo idealista spesso ignorano semplicemente l’esistenza di mondi come quello descritto da Cechov, e più il mondo diventa caotico più reagiscono con stupore e sconvolgimento, perché il sapere storico e culturale che si ricava dalla storia e dalla letteratura, con tutte le sue verità spiacevoli, è qualcosa che loro, e i loro insegnanti del college, hanno troppo spesso ignorato. È questa la ragione ultima per la quale le nostre élite, invece di accettare un mondo di semi-anarchia, ne restano completamente spiazzate.

Nello stesso tempo, devo ammetterlo, la politica è una disciplina molto più difficile e impegnativa della geopolitica. Per esempio, l’Ucraina dal punto di vista della geopolitica russa, di quella americana e di quella tedesca è un conto, ma produrre una politica nei confronti dell’Ucraina è qualcosa di molto diverso. Dobbiamo fornire armi agli ucraini? E quali armi? Quanto ci costerà? Quanto tempo servirà per addestrarli a usarle? E quanto la loro dottrina militare e la struttura delle loro forze armate sono adatte a utilizzare con efficacia le nuove armi che gli possiamo dare? Cosa succede se le armi cadranno nelle mani dei russi? E cosa accadrà se l’aver armato gli ucraini non riuscirà a cambiare la situazione sul terreno, cosa facciamo come piano B? Dobbiamo usare il Pentagono o chiedere alla Cia? Ecco perché, mentre il geopolitico può essere un professore seduto in poltrona, un politico deve essere rapido, dinamico e dotato di strumenti sociali della miglior specie per promuovere le sue proposte attraverso la burocrazia. La politica è meno astratta e dotata di fascino intellettuale della geopolitica, ma richiede più carattere e personalità.

Il mio timore è che la crescente tendenza dell’accademia alla specializzazione, insieme alla politicizzazione delle scienze umanistiche, stia producendo nuove élite politiche carenti di una formazione che includa entrambe le visioni che ho appena descritto.