la Repubblica, 9 novembre 2016
«Altroché archistar, progettare per me è l’arte del dubbio». Intervista ad Álvaro Siza
ROMA A ottantatré anni, la giacca un po’ sformata e la camiciola aperta, la parlata lenta e cavernosa, tutto si può dire tranne che Álvaro Siza si atteggi ad archistar. A Roma, dove è venuto a inaugurare due mostre a lui dedicate – all’Accademia di San Luca su quarant’anni di lavori in Italia e al Maxxi sui suoi rapporti con il sacro –, alloggia in un dignitoso tre stelle a due passi dalla Fontana di Trevi. Non archistar, ma maestro riconosciuto nel mondo di un’architettura oltre le mode, scabra e lineare, Siza, che ha vinto il premio Pritzker nel 1992, ha realizzato musei, centri culturali, facoltà universitarie, padiglioni espositivi e, nel suo Portogallo e in Olanda, quartieri di edilizia popolare, non vanta solo gli edifici costruiti, ma racconta, mimando con la bocca e le mani un “puff”, anche quelli rimasti sulla carta.
Siza non ama l’architettura spettacolare, ma la critica con parole sommesse e senza fare nomi: «Mi dispiace, sono colleghi». Poi incalza: «Non si è mai parlato tanto d’architettura come in questi anni. Si è creata l’illusione della sua visibilità. Eppure la crisi è profonda, dominano potentati finanziari e immobiliari, e l’architetto ha perso il controllo del proprio lavoro, prevale l’ossessione specialistica. L’architetto, per me, è colui che coordina e invece molti curano l’immagine e poi lasciano fare agli specialisti. C’è un difetto anche nella percezione».
In che senso?
«Le riproduzioni fotografiche del Guggenheim di Bilbao prediligono l’eccentricità dell’opera di Frank Gehry. Poche volte si mostra il museo nel suo contesto, sottovalutando la qualità introdotta in quel pezzo di città e nella città intera».
La mostra all’Accademia di San Luca, curata da Roberto Cremascoli e Francesco Moschini, racconta quarant’anni di lavori, di studi e di delusioni italiane.
«In realtà sono più di quarant’anni. La prima volta sono venuto in vacanza, negli anni Sessanta. In Portogallo c’era la dittatura fascista e l’Italia era per noi l’apertura al mondo. D’altronde i rapporti erano stati sempre stretti. A Lisbona ha realizzato una chiesa Borromini, nella mia Porto ha lavorato Niccolò Nasoni, figura eminente del barocco».
A quali architetti italiani guardava con più interesse?
«Negli anni Cinquanta a Ignazio Gardella, Franco Albini, Carlo Scarpa, Mario Ridolfi. Il mio maestro, Fernando Távora, era legato a Giancarlo De Carlo. Ho conosciuto Vittorio Gregotti e poi, dopo la rivoluzione dei garofani del 1974, vennero in Portogallo Aldo Rossi e Pierluigi Nicolin, più per vedere la nostra giovane democrazia che non l’architettura». Il suo primo lavoro in Italia coincise con una ricostruzione post-terremoto. «Fu a Salemi nel 1982, quattordici anni dopo il sisma del Belìce. Il sindaco e la curia affidarono a me e a Roberto Collovà il recupero della Chiesa Madre e dell’area circostante. Si voleva ristrutturare la città antica, lì dov’era sempre stata. Consolidammo le rovine della chiesa, realizzammo la piazza intorno e progettammo la ricostruzione di un quartiere. Fronteggiammo difficoltà e lentezze. Alla fine, però, il sindaco è andato via e tutto si è fermato».
Lei ha ricostruito un quartiere di Lisbona, il Chiado, distrutto da un incendio. C’è un modello per intervenire nell’antico?
«La direzione è la continuità, non la rottura. Lisbona era stata ricostruita dopo il terremoto del 1755 dal marchese di Pombal seguendo uno schema geometrico, illuminista. Era a mio avviso impensabile modificare un assetto che caratterizzava il centro cittadino ricostruendo dieci edifici. Fui criticato per aver rinunciato alla modernità. Ma io la modernità la introducevo nei collegamenti con la città, negli interni, nelle dotazioni tecnologiche, non nel disegno».
Questa è per lei la regola nelle ricostruzioni?
«La mia regola, ripeto, è la continuità. Ma in architettura ogni caso è a sé».
Dopo Salemi lei ha continuato a lavorare in Italia. Con quali risultati?
«A Venezia, alla Giudecca, ho progettato un complesso di edilizia popolare. Era la metà degli anni Ottanta, con me erano impegnati Aldo Rossi, Carlo Aymonino e Rafael Moneo. Ma trent’anni non sono bastati a completare il lavoro. Qualche tempo fa mi hanno chiamato da Venezia per dirmi che erano necessarie alcune firme. Lì per lì non ho capito e ho detto: “Ma io non ho progetti a Venezia”. Poi mi sono ricordato, sono passati oltre trent’anni. Ora sembra che vogliano proseguire il cantiere».
Non è mai troppo tardi.
«In seguito ho vinto un concorso per riallestire la sala che al Castello Sforzesco di Milano ospita la Pietà Rondanini di Michelangelo. Ma non se n’è fatto nulla. Brutte esperienze ho vissuto a Vicenza per cinque case in una villa con un edificio palladiano. Il proprietario le voleva enormi. Io resistevo e lui mi disse “Lei non capisce niente”. Un disastro».
E nonostante questo lei continua ad amare l’Italia?
«L’Italia non ha colpe. Anche in Spagna tanti miei progetti non sono realizzati. E comunque mi consola il lavoro a Napoli».
Si riferisce a una delle stazioni della metropolitana, in piazza Municipio?
«Sì, una delle “stazioni dell’arte”. A Napoli, se si fa un buco, esce la storia della città. La questione cruciale è archeologica e il prodotto finale conterrà una complessa continuità fra antico e contemporaneo. Un’esperienza densa che avevo già sperimentato per la ristrutturazione del Madre, il museo d’arte contemporanea nel centro storico, dove si esprime l’esuberanza della città. Ora al Madre sono cambiate molte cose, ho visto con disappunto che hanno dipinto l’atrio di nero e le porte di giallo. Ma di Napoli amo tutto, dai graffiti sui muri a quella particolare forma di ordine che governa il caos».
A proposito degli scavi per la metropolitana, lei ha parlato di un contatto con il sacro (che è poi l’argomento della mostra al Maxxi, a cura di Achille Bonito Oliva e di Margherita Guccione). Che vuol dire?
«Nel sottosuolo della città sono presenti i simboli sia della rovina sia del rinnovamento. E qui è custodito un elemento di sacro».
Quindi il sacro non ha a che fare solo con la religione?
«No. Quando ho progettato chiese mi sono posto gli stessi problemi di quando progettavo edifici pubblici o privati. Studiarne la funzione, indagare la storia del luogo, dialogare con le persone coinvolte».
Ma una chiesa non ha nulla di specifico per un architetto?
«A me ha rivelato un senso profondo dell’architettura. Prima del Concilio Vaticano II il sacerdote dava le spalle al pubblico e guardava l’abside, luogo ricco d’opere d’arte e di simboli; poi con la riforma della liturgia e con il sacerdote rivolto ai fedeli, la funzione dell’abside è venuta meno. Ecco, l’architetto deve individuare la funzione sviluppando poi una libertà interpretativa».
Lei è credente?
«Ho avuto un’educazione cattolica, ma non so se sono credente. È un sentimento intimo e latente. Sono dubbioso, questo sì. Come quando si progetta: il dubbio è sempre presente, non si parte mai dalle certezze».
Lei ha disegnato dei paramenti sacri per papa Francesco.
«Mi hanno raccontato che ha detto una messa indossandoli».