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 2016  novembre 09 Mercoledì calendario

In morte di Umberto Veronesi

Giangiacomo Schiavi per il Corriere della sera Una vita a tu per tu con il cancro. A dire che si deve combattere. Che si può vincere. Umberto Veronesi non è stato solo un grande medico. È stato un pioniere, un innovatore, un filosofo, un politico, un uomo di pace, un comunicatore. Un monumento con il camice bianco. Un chirurgo che ha avuto il coraggio di fare scelte difficili quando non era facile fare scelte difficili. E stato anche un Gran Lombardo. Nei convegni, nei congressi, nei summit, ovunque nel mondo quando si parla di lotta ai tumori, di scienza e di ospedali, inevitabilmente si associa il suo nome alla città: Veronesi, Milano. Un binomio indissolubile, cresciuto intorno alla medicina e rafforzato dai mille interessi del professore, la musica, l’arte, la letteratura, il socialismo. Un legame di sentimenti, d’orgoglio e di appartenenza che attraversa quasi un secolo, dall’infanzia in cascina alla facoltà di Medicina, dalla trincea di via Venezian all’ultima frontiera costruita a sua immagine e somiglianza: lo Ieo di via Ripamonti. In mezzo anni epici, formidabili, anni di studio, lavoro, sacrifici, anni da pioniere a combattere il fatalismo che aleggiava intorno al cancro, a dare coraggio e speranza alle donne con il carcinoma, a dire che si può tornare attive come prima, a offrire un sorriso, una carezza e un soffio di umanità prima di indossare la mascherina ed entrare in sala operatoria.Milano è centrale nella lunga avventura medica e scientifica di Umberto Veronesi, la città e il professore si intendono e si trovano, li unisce il calvinismo, li salda l’etica del lavoro, è amato dalla borghesia, piace agli imprenditori, si fa voler bene dai malati, è un’icona alla prima della Scala e alle sfilate di moda. Ma si farebbe un torto al personaggio se non si dicesse che altrettanto centrale per lui è stata l’Italia, che ha rappresentato in ogni angolo del mondo, dalle Nazioni Unite ai convegni internazionali: si è speso da medico, da tecnico, da ministro, da esperto, da presidente di commissioni, da civil servant. 
Milano, l’Italia, il mondo, sono il cerchio magico attorno al quale Veronesi ha ruotato in questi anni con la forza del maratoneta che non si ferma mai, perché deve raggiungere un traguardo. Il suo traguardo «era il record del mondo», come ha scritto in una delle tante autobiografie, la sconfitta del tumore, dell’alieno infiltrato nelle cellule, che devasta vite e famiglie. Un sogno maturato negli anni dell’università, quando faceva pratica nell’ospedale più vicino alla casa dei genitori e il cancro suscitava in lui «un senso di rivolta». Per l’impotenza dei medici e le sofferenze dei pazienti, per il vissuto da incubo e la rassegnata constatazione che contro «il brutto male», «la malattia incurabile», come scrivevano i giornali, non c’era niente da fare. C’è sempre un’epica nei grandi personaggi e nell’epica di Veronesi c’è Milano, quella giusta, del boom, delle nebbie, delle fabbriche, del riformismo, dell’accoglienza, della Scala, del Piccolo Teatro. Sono anni di impegno ed entusiasmo all’Istituto dei tumori, con i maestri, Rondoni e Bucalossi, i colleghi Bonadonna, Della Porta, Ravasi, Gennari, Rilke: i samurai, medici in lotta contro l’imperatore del male, come ha scritto il biografo del cancro Siddartha Mukherjee. 
Veronesi viaggia, va a Londra, a Lione, diventa l’allievo prediletto di Bucalossi, prende il suo posto come primario e direttore scientifico, porta una visione umanista in sala operatoria, sperimenta, rompe gli schemi contro la mutilazione del seno, quando i pochi che lo fanno vengono accusati e contestati. Con quella tecnica finita nei libri di medicina che è la quadrantectomia, Veronesi entra per la prima volta nella storia. E quando il New England of Medicine paragona l’Istituto dei tumori alla Scala, ecco che ritorna di nuovo il binomio con Milano: i primati, i simboli, l’internazionalità.
Veronesi incarna tutto questo e anche di più: è socialista nella città del riformismo, di Turati e della Kuliscioff, vicino ai sindaci Aniasi e Tognoli, amico di Bettino Craxi, il leader che diventerà presidente del Consiglio. Socialismo e antifascismo sono un distintivo che si porta addosso dall’infanzia. «Non ho mai dimenticato la bandiera rossa, vecchia e sdrucita, che mio padre teneva vicino al camino. Un giorno arrivarono gli squadristi e lui dovette nascondersi nei campi...». Il suo nome ricorre più volte come candidato sindaco: può vincere in carrozza, ma quando l’ipotesi di Palazzo Marino nel 2006 si fa concreta, il centrosinistra si divide. Pesa il vecchio legame con il Garofano: Milano da bere e Tangentopoli sono tossine avvelenate. L’amore per la città però non è scalfito. Milano, ammette, mi ha ricambiato sempre, con affetto e calore. «E io penso di averla servita con fedeltà, dando un contribuito alla sua reputazione nel mondo».
Presenzialista, affabulatore, gran seduttore: difficile restare insensibili al suo charme. È uno stakanovista creativo, dentro e fuori l’ospedale. Diventa il testimonial per le campagne antifumo e antismog. Fonda l’Airc, che negli anni diventa fondamentale nell’aiuto alla ricerca, sostiene la terapia del dolore, avvia le cure palliative, anticipa i tempi con i comitati etici, partecipa agli incontri con i malati, li invita a non avere paura, si occupa del percorso psicologico e del reinserimento nella vita attiva. Sposa ogni innovazione nelle cure oncologiche e nell’impostazione delle terapie mirate, personalizzate. Sempre con il sorriso sulle labbra, mai fuori tono, anche se certe scelte, come quella di sostegno al nucleare, nella commissione Grandi rischi, incontrano la contestazione di verdi e ambientalisti: come fa chi combatte lo smog e il fumo a non avere dubbi sulla radioattività? 
Nel 1985, quando è un’autorità mondiale e un volto rassicurante per migliaia di donne con il tumore al seno, lancia, con un gruppo di medici milanesi, un manifesto per la buona sanità: denuncia l’inerzia del sistema, la burocrazia, le nomine lottizzate, l’eccesso di sindacalizzazione. È l’anteprima di una svolta, che si realizza nel 1994: nasce l’Ieo, l’Istituto europeo di oncologia, il suo ospedale. Dietro c’è la Milano di Mediobanca, di Enrico Cuccia, della finanza e dei grandi benefattori, di chi sostiene anche le utopie quando poggiano su gambe robuste e hanno fini sociali. Veronesi non è più giovanissimo. La sfida è alta. Glielo ricorda Indro Montanelli, un altro gigante che a Milano ha trovato una patria. Li unisce la stessa passione per il mestiere, uno giornalista, l’altro medico, entrambi primedonne, entrambi giovani vecchi: «Dovrai lavorare il doppio e avrai tanti nemici». 
Veronesi impegna se stesso, moltiplicando gli sforzi. Vuole un grande centro di ricerca, la formazione permanente dei medici, i farmaci intelligenti e la medicina di precisione. Progetta il Cerba, sul modello dello Sloan Kettering, il riferimento mondiale nella lotta al cancro. Riunioni in lingua inglese con i medici, apertura internazionale, connessione con la città della ricerca. Via Ripamonti diventa la sua famiglia, una seconda casa. Riunisce le donne operate al seno, avvia campagne di screening: ovunque mette la sua faccia. Attivissimo, onnipresente fino a sembrare ingombrante, Veronesi anche a novant’anni è in prima linea su ogni questione, medica, etica, filosofica, con la Fondazione che porta il suo nome, nata quando è ancora in vita. Grande, sapendo di esserlo, ma con la grazia di chi danza sulla scena della vita con leggerezza. Capace di dialogare con i Nobel e recitare una poesia a memoria di Kavafis sul letto del paziente. Che, ha insegnato, non deve mai essere lasciato solo.

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Dario Cresto-Dina per la Repubblica
UMBERTO Veronesi aveva una bella faccia. Una faccia che era invecchiata con giudizio, come capita ad alcuni uomini sui quali gli anni che scorrono drappeggiano un fascino da tempo supplementare. Le rughe la solcavano con un miracoloso equilibrio estetico di meridiani e paralleli. Veronesi era nato in una cascina alle porte di Milano, il padre socialista era fittavolo e custodiva in casa una bandiera rossa, la madre ogni sera recitava le avemaria inginocchiata sulle perle di legno del rosario. Lui si era portato appresso non la fede abbandonata quattordicenne ma l’odore delle sue origini contadine, l’imperfezione nobile della semplicità, un lembo della camicia che scappa fuori dai pantaloni, il nodo della cravatta allentato, le mani che non sanno dove stare quando non sono occupate da qualche lavoro, un’elegante baldanza da ballo al palchetto. Una patina di genuinità e furbizia che come la galaverna nelle campagne si scioglieva sotto i primi raggi del suo calore umano. La sua faccia era una trappola, seduceva maschi e femmine in un gioco di specchi che deformavano la verità, creavano il miraggio, riflettevano in un prisma frammenti di una vita e delle altre sue vite, quelle segrete.
Veronesi era se stesso e il suo contrario, le due nature, ammesso che non fossero di più, in lui si compenetravano in un ircocervo di cui andava fiero neanche troppo nascostamente. Confessava che il suo più grande desiderio era salire su un aereo e scomparire. Non era vero fino in fondo, come quasi tutto in lui che era un solitario, anche se mai solo, nella molteplicità delle sue passioni, nella moltitudine dei suoi affetti. I figli, la scienza, la medicina, la politica, i libri, il cinema, la religione, la musica, il sesso e tante altre cose ancora. Era vorace e bulimico nell’addentare la carne dell’esistenza, in contrasto con il suo regime vegetariano. Sapeva essere molto cinico, ma altrettanto dolce e ironico. Un anno fa, quando ancora stava bene, una mattina al telefono mi disse: «Ti annuncio che sono moribondo». E quando gli domandai che cosa gli era successo, rispose con tono scanzonato: «In questi giorni non ho voglia di fare l’amore».
Possedeva, infine, la bontà propria degli uomini intelligenti e questo è quanto rimarrà nel ricordo dei pazienti che ha incoraggiato, curato, consolato o visto morire, dei familiari delle oltre trentamila donne che ha operato, degli scomparsi e dei salvati. Ancora a novant’anni non si vergognava di sussurrare: «Ti voglio bene». Non c’era parola che lo spaventasse. Cercava, con il prossimo, il contatto fisico, la carezza pudica, leggera, mai invadente. È soprattutto invecchiato senza diventare egoista come succede alla maggior parte di noi quando cominciamo a perdere i pezzi lungo la via e a sentire che stiamo percorrendo con fatica il tratto conclusivo di una strada in fondo alla quale troveremo un ponte, l’ultimo, che ci porterà verso il nulla.
Sul piano clinico aveva un cuore forte e una mente lucida che lo ha accompagnato fin sulla soglia del buio assecondando il suo desiderio di autodeterminazione biologica. Spiegava che l’età della mente è indipendente da quella del corpo: «Il cervello è un organo plastico, le sue cellule staminali possono generare neuroni in qualsiasi momento. Questo significa che la nostra mente si può evolvere a qualunque età, che può essere plasmata e nutrita dalla conoscenza ». Quando gli si domandava qual era il segreto della sua longevità diceva: pensare. Lo ha fatto anche durante gli ultimi mesi, costretto a letto dalla malattia e da una polmonite venuta assieme all’estate. Si curava il minimo indispensabile, teneva sopito il dolore, annotava il progressivo massacro del corpo. Meditava sui segnali che dal suo fisico sarebbero presto arrivati e lo avrebbero indotto alla decisione di addormentarsi per sempre.
A volte mi assale il desiderio di morire, aveva detto — mentendo — alla vigilia del suo novantesimo compleanno. «Fin da ragazzo pensavo che la vita deve finire e che non ha alcuna dimensione metafisica. Non c’è da perdonare né da chiedere perdono dei propri peccati nella speranza di garantirsi un buon soggiorno nell’aldilà. Perché Dio non è mai esistito». Ha cercato di trasferire questa convinzione nei suoi figli. Sette. Ha detto loro di accantonare la triade Dio-patria-famiglia per sostituirla con i valori laici della libertà, della tolleranza e della solidarietà. Pensate all’uomo perché solo l’uomo merita di essere lo scopo dell’uomo.
Alla fine ascoltava Mozart e rileggeva le poesie di Majakovskij, sulle sue reali condizioni di salute raccontava bugie, antico vizio, alle persone care che gli stavano accanto. Era spietato solo con se stesso: «Sono un ferrovecchio, uno scarto umano, una mente attaccata a un corpo che non risponde più». Orgoglioso il giusto, non si è mai fatto illusioni sull’eternità della fama, fenomeno provinciale come sosteneva Flaiano. Siamo bravi a dimenticare e lui ha sempre saputo quanto sia capace lo stomaco dell’oblio. Confidava semmai nella breve immortalità e lo spiegava con la metafora della macchina a vapore. Si ricorda chi l’ha inventata? domandava all’interlocutore. Naturalmente no. «Bene, a me succederà la stessa cosa, tra meno di due generazioni sarò come la macchina a vapore. Nessuno si ricorderà di ciò che ho fatto nella lunghissima stagione che ha caratterizzato la rivoluzione dell’oncologia mondiale ». Eppure ha finito con un ultimo tocco di ironia e vanità, chiudendo gli occhi nella notte dell’America, nascondendosi sotto il crinale della Storia per restare illuminato.
È stato un uomo di straordinario successo e se ne va, se non da sconfitto, come un principe privato della terra che più gli stava a cuore. A chi non succede? La differenza è che lui l’aveva messo in conto. Aveva un nemico, il cancro, non l’ha battuto. Ha solo portato un fuoco tremolante attraverso l’oscurità. Ma ostinato, impudente e anticonformista com’era, tanto da apparire a volte un provocatore, ha avuto il coraggio e l’onestà intellettuale di combattere anche le battaglie perdute: eutanasia, liberalizzazione delle droghe, energia nucleare, staminali, abolizione dell’ergastolo.
Senza mai vergognarsi di frequentare e sfruttare i salotti dei poteri forti, amico di Bettino Craxi, corteggiato inutilmente da Silvio Berlusconi, è stato ministro della Sanità nel governo di Giuliano Amato («Non ho combinato granché »), poi senatore del Pd precocemente deluso. Avrebbe voluto fare il sindaco della sua Milano e ci sarebbe probabilmente riuscito nella sfida con Letizia Moratti se il centrosinistra non gli avesse all’ultimo voltato le spalle in un delittuoso preludio di rottamazione. Umberto Veronesi è stato un grande vecchio di questo nostro piccolo paese. Credo ci abbia lasciato senza rimpianti, forse con qualche nostalgia.

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Luca Ubaldeschi per La Stampa
La vita era al centro dell’universo del medico Umberto Veronesi, la sua missione era regalare una speranza a chi precipita nel tunnel della malattia. Non a caso aveva confidato alla Stampa che avrebbe voluto essere ricordato come «uno che ha contribuito a migliorare la qualità della vita, soprattutto delle donne». La sua insaziabile voglia di vita si diffondeva facilmente, ti contagiava con il sorriso profondo con cui ti accoglieva, con la mano che ti stringeva, con le parole che ti dedicava.
Eppure la morte era un tema cruciale delle sue riflessioni, un ragionamento da cui non è mai sfuggito. Qualcosa di cui diceva di non aver paura e a cui si preparava da diversi anni. Di più, qualcosa che aveva messo al centro di una delle sue battaglie, quella per il diritto a una morte dignitosa, per concedere al malato il diritto a scegliere quando «interrompere la sofferenza».

La vita, la morte. Non deve sorprendere il doppio registro, il contrasto fra sentimenti opposti, ma comunque intensi, era un concetto che gli apparteneva: «Vivo da sempre una situazione di schizofrenia - aveva rivelato -. Sono l’uomo della speranza, però immerso ogni giorno nel dolore. Devo trasmettere fiducia e ottimismo, ma nel profondo sono angosciato, tormentato, sento un nichilismo alla Nietzsche, porto dentro di me la fossa comune di tutti i pazienti che ho perso. Sono ermafrodita, in senso intellettuale: un corpo da uomo con una mente femminile».
Dio era uscito presto dal suo orizzonte di scienziato e da ateo la sua fede risiedeva nell’immortalità delle idee. La convinzione di intellettuale - non solo di medico - era che ogni uomo dovesse sforzarsi di trasmettere idee e pensieri capaci di far progredire l’umanità.

Era questo il senso profondo che aveva trovato nella sua esistenza ed è quindi facile capire perché dall’oncologia il suo impegno nel tempo era emigrato in altri campi: la bioetica, la politica, il sociale. 
A prescindere dal tema, la regola era sempre la stessa: professare la libertà di pensiero. «Siate liberi, siate trasgressivi», amava ripetere ai giovani, dove la trasgressione consisteva nell’affrontare ogni problema senza preconcetti, nel non ritenere immutabili le convinzioni dominanti.

Da questo approccio, dallo sforzo di mettere in discussione le teorie consolidate in oncologia, era d’altronde nata la tecnica che ha rivoluzionato il rapporto delle donne con il tumore al seno. L’idea consisteva nel dire basta all’asportazione totale della mammella per sostituirla con un intervento limitato alla rimozione del quadrante mammellare sotto cui c’è il nodulo tumorale. Un dono incredibile per la donna, quella donna così importante per il Veronesi medico, come per il Veronesi privato. «Fui considerato un ciarlatano quando esposi per la prima volta la mia idea», diceva. Da allora ci sono state 30 mila donne operate dal «prof», quasi 300 mila visitate, circa 5 milioni nel mondo che - si calcola - hanno salvato il seno grazie a lui.

E, con il seno, hanno conservato una diversa concezione di sé e della possibilità di avere una vita normale, senza la traccia visibile del ricordo del male. Perché se l’oggetto della ricerca di Veronesi scienziato è stato il tumore («Tumore è meglio di cancro, che ha un potere paralizzante», diceva), al centro del lavoro di medico c’è stato il tentativo di mettere sempre in primo piano la persona, inseguendo quel principio chiamato«medicina narrativa» che così riassumeva: «Per curare qualcuno dobbiamo sapere chi è, che cosa pensa, che progetti ha, per cosa gioisce e soffre. Dobbiamo far parlare il paziente della sua vita, non dei disturbi».

È lo stesso principio che lo aveva spinto a sperimentare l’impegno in politica per cercare di raggiungere con le leggi quei traguardi che con altri strumenti inseguiva nelle corsie d’ospedale. Lo avrebbero voluto sindaco di Milano, aveva invece accettato per il centrosinistra la sfida del Parlamento e anche quella di ministro, con la battaglia per una nuova concezione di ospedale, più a misura di paziente.

È una sfida ancora aperta, che Veronesi aveva continuato a cercare di realizzare dopo la parentesi politica. Così come aspettano di essere portate avanti le altre missioni che si era dato da «libero pensatore». Il testamento biologico, la procreazione assistita, la sicurezza nucleare, il vegetarianesimo («Amo gli animali, dunque non li mangio») fino al disarmo e al dialogo per la pace che lo avrebbe visto in cattedra la settimana prossima a Milano nella conferenza annuale che promuoveva.

Il vuoto enorme che lascia nel cuore di migliaia di pazienti, nella medicina e nelle battaglie civili può essere colmato - almeno in parte - dal lavoro che già da oggi prosegue nelle istituzioni che ha creato e che sono diventate modelli, per la cura e la diffusione del pensiero. Sono l’Istituto europeo di oncologia l’Airc e la Fondazione Veronesi le realtà che continueranno a dare forma al suo sogno: rendere immortali le idee e regalare la gioia di vivere.