Il Messaggero, 8 novembre 2016
Dal governismo di Cossutta all’addio di Fini la Seconda Repubblica fondata sugli strappi
Marciare ma non marcire». Non era questo uno slogan del Ventennio? Lo era ma un po’ è diventato anche, e sempre di più, una sorta di imperativo morale (?) da Seconda Repubblica per tutti quelli che non si trovano bene nel partito d’appartenenza. Nel quale per esempio – come insegnano i tanti scissionisti e le infinite scissioni: basti pensare che dal ceppo dell’ex Pci saranno nati una ventina di gruppi e da quello della Dc anche di più tra strappi-ricuciture-ristrappi – non si può marcire mentre Renzi fa il super-leader perché ha vinto il congresso e allora è meglio marciare fuori da quelle stanze ovviamente definite «caserma» da chi le lascia. Ora Speranza, Bersani, D’Alema e compagnia, dopo Fassina, Civati, Cofferati, D’Attorre e via dicendo? Di solito falliscono le scissioni, ma vabbé. Ciò che impressiona è che il virus da frammentazione – che talvolta può avere motivazioni molto serie come l’uscita di Fini dopo il «che fai mi cacci?» e la fuoriuscita dei moderati alfaniani di Ncd dal Pdl che mollò il governo Letta junior – sembra riguardare ormai anche chi, per cultura, ha sempre avuto una vocazione unitaria fin dai tempi dei primi biberon: ed è proprio il caso, oltre che di Bersani, di D’Alema anche se il «minoritarismo» (espressione da lui spesso usata con accompagnamento di smorfia) gli ha sempre provocato una sensazioen di disgusto.
Per catalogare tutte le scissioni da Seconda Repubblica servirebbe un elenco telefonico. Credi di chiamare un partito («Scusi, parlo con lo Scudo Crociato?») e la risposta può essere molteplice e plurale: quella di Baccini o quella di Pizza, quella di Cesa che si è scisso da Casini o quella dell’Udeur che nacque da una scissione e ne ha generate altre due o tre, quella di Tabacci o quella di quell’altro o di quell’altro ancora.
FUOCO
Quante fiamme sono nate dalla fiamma è impossibile a dirsi. Il Msi è diventato An, ma nel 2013 Alessandra Mussolini lascia Fini e fonda Azione sociale, nel 2007 Storace fonda La Destra contro Fini che vuole entrare nel Ppe e An entrerà nel Pdl ma ne esce nel 2010 e crea Futuro e Libertà mentre La Russa e Meloni lasceranno il partito berlusconiano nel 2012 per dare vita a Fratelli d’Italia. E non c’è pezzo che si stacca da altri pezzi senza perdere prima o poi pezzi nell’impazzimento della frammentazione eterna. Quella che ha fatto ribattezzare Scelta Civica in Sciolta Civica perché Monti è stato il primo a scindersi da quel suo partito montiano e poi tra una briciola di qua e una briciola di là un briciolone – si fa per dire – targato Enrico Zanetti, sottosegretario nel governo Renzi – è andato, meglio marciare che marcire, nel gruppo di Denis Verdini. Ossia l’ex plenipotenziario berlusconiano che a sua volta, dopo che i nemici alfaniani avevano mollato il Pdl, molla la rinata Forza Italia di Berlusconi in nome dello «spirito nazarenico» da preservare e sviluppare. Quello assai caro, le «larghe intese», a Ncd anzi non a tutto Ncd. Perché a sua volta gli alfanei perdono sul loro versante destro Gaetano Quagliariello che fonda il movimento «Idea», Giovanardi che dice «ciaone» e la De Girolamo e Schifani che tornano nella culla azzurra. Però c’è da chiedersi come mai nella Seconda Repubblica l’esplosione del frammento si sta rivelando più frequente (si veda il record di popolazione nel Gruppo Misto, ribattezzato Fritto Misto in Parlamento e ricovero di scissionisti o epurati) rispetto a quanto accadeva nella Prima Repubblica. Allora i partiti erano partiti veri, e vigeva il centralismo democratico, com’è ovvio. Adesso ad aggravare la scissionite c’è l’ansia di visibilità (mi si nota di più se sto dentro o se sto fuori? E vince sempre il fuori all’inizio e quasi il pentimento per essere usciti quando ci si accorge della marginalità mediatico-politica) e soprattutto il fatto che nel partito personale chi vince si prende tutto come nel caso del Pd e chi è più forte decide tutto come nel caso del Pdl di re Silvio. L’escalation della scissionite riguarda il sindaco veronese Tosi ha fatto un’anti-Lega contro l’ex amico Salvini o il grillino Pizzarotti che ha allestito un anti-M5S. E comunque questa impennata del fuoriuscitismo sembra essere l’altra faccia del deficit di professionismo politico: ossia della capacità e della pazienza di mediare all’interno dei partiti tra le varie posizioni per farle stare tutte insieme. Il partito dev’essere smart, deve prendere decisioni rapidamente, sennò l’opinione pubblica stanca dei vecchi riti autoreferenziali della politica s’imbizzarrisce ancora di più, e dunque basta con le chiacchiere: chi vuole andarsene se ne vada.
WEB
Se da Rifondazione nacquero i Comunisti Unitari di Garavini e poi i Comunisti italiani di Diliberto e Cossutta, minioranze di minoranze, adesso la minoranza Pd che forse strappa è già stata strappata al proprio interno perché ha perso Cuperlo e prima ancora ha perduto i Giovani Turchi di Orfini e la Sinistra riformista di Martina, entrambi passati a Renzi. E poi c’è l’effetto web che ha aggravato la sindrome inter-partitica del ciaone. I social eccitano i possibili scissionisti alla scissione («A Renzi fatelo piagne’!!!!») e eccitano i dirigenti dei partiti (almeno quelli più sanguigni) a non avere pietà e a punire i dissenzienti. Ed è sempre un po’ pulp lo spettacolo dell’esplosione del frammento.