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 2016  novembre 07 Lunedì calendario

Quando si diceva «l’Internet». Trent’anni di Italia connessa nel racconto dei suoi pionieri

Lo scorso aprile l’Italia ha celebrato i 30 anni dal primo collegamento a Internet. Avvenne al Cnr-Cnuce di Pisa, a 4 giorni dal disastro di Chernobyl: i media pensavano ad altro e la notizia neppure uscì. Spulciando l’Archivio del Corriere della Sera (archivio.corriere.it) alla ricerca della parola «Internet» si riscopre un mondo che molti non hanno mai conosciuto. Un’epoca in cui il collegamento in rete di un computer era cosa da iniziati. Nel 1990 il Corriere dava conto di un pirata informatico americano che era penetrato nella «rete Internet». Per trovare un articolo più completo bisogna attendere altri 4 anni: il 24 ottobre 1994 una pagina intitolata «Il mondo in una Rete» spiegava «l’Internet» (lo si chiamava così) e menzionava «circa 8-10 mila abbonati italiani su provider quali Galactica, MC-link e Agorà».

Corrado Giustozzi, docente ed esperto di sicurezza (è nel «Permanent Stakeholders’ Group» di Enisa, agenzia europea per la sicurezza delle informazioni e le reti) lavorava a MicroComputer, rivista da cui nacque Mc-link: «Era un’epoca pionieristica, ma non eravamo ben consapevoli di che cosa fossimo pionieri. Ricordo, come fosse ieri, la prima email. Gli indirizzi non usavano neppure la chiocciola. Scrissi negli Stati Uniti e arrivò un loro messaggio. Chiamai mia moglie: “È un miracolo, mi hanno risposto. E in soli due giorni!”».

Che cosa pensavano i pionieri della rete italiana? Che quella tecnologia avrebbe lasciato un segno profondo sul mondo. Anche se le previsioni di allora, in molti casi, parevano esagerazioni o peggio. Come ricorda Stefano Quintarelli, oggi deputato e tra i fondatori di I.Net, primo fornitore d’accesso commerciale italiano: «In I.Net facevo la formazione a tutti i neo assunti senza preparazione tecnica. E dicevo loro: “Un giorno anche le lampadine saranno connesse a Internet”». Sembrava una follia e invece oggi ci siamo, grazie all’IoT (Internet delle cose). E attraverso gli oggetti dell’IoT si lanciano persino attacchi informatici in grado di paralizzare un mezzo Paese, come successo negli Usa poche settimane fa.

La crescita delle connessioni è stata vertiginosa. Come ricorda Giustozzi «al telefono sono serviti 50 anni per avere 50 milioni di abbonati paganti nel mondo. A Internet sono bastati 4 anni». Joy Marino, altro protagonista dei primi vagiti della rete in Italia, oggi presidente di Mix Milano, ricorda come «nel 1993, parlando alla base Nato della Spezia, dissi a una platea esterrefatta che, nel 2000, avremmo avuto un miliardo di utenti collegati in rete. Sbagliai per eccesso di ottimismo, ma non di molti anni».

Una corsa vertiginosa che ha portato gli utenti dall’epoca di Gopher, Veronica, Telnet e Usenet (reti e servizi di 20 e più anni fa), a social network per giovanissimi (Snapchat e dintorni), al cloud pervasivo, ad assistenti digitali sempre più «umani». In mezzo abbiamo vissuto il decollo di Google, l’esplosione dei video con YouTube, l’arrivo di Facebook e poi degli altri social network, la rivoluzione degli smartphone guidati dall’iPhone e poi da Android, la «app-izzazione» del mondo fisico.

Una corsa così rapida non poteva non aprire voragini nella consapevolezza sull’uso di questi mezzi. Sono 29 milioni gli italiani connessi (ultimo rilevamento Audiweb) ma la coscienza su come usare gli strumenti di Internet con rispetto reciproco, profitto e intelligenza deve e può crescere. Anche presso i giovanissimi, che pure fanno parte della generazione «connessa»: «Le madri insegnano ai bambini come attraversare la strada — dice Giustozzi con una metafora —. Ma non insegnano come usare Internet. Né lo fa la scuola. C’è l’illusione che tutto sia semplice. Lo smartphone è un paradigma tecnicamente complicato ma facilissimo da usare, però è un vero computer e non innocuo come i vecchi Nokia». Per Joy Marino «è vero che ragazzi imparano da soli ma, nella maggioranza dei casi, non sanno usare gli strumenti in modo produttivo. E questo è preoccupante perché il vero valore di Internet è stato quello di innovare sempre». Per Quintarelli, però, «il grosso del Paese è più avanti dei suoi decisori. La politica deve maturare l’idea che regolamentare il digitale è un tema squisitamente politico. Ma, intanto, bisogna smettere di parlare di «nuove tecnologie» perché quel «nuove» deresponsabilizza: «Impariamo a parlare di tecnologie e basta».