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 2016  novembre 07 Lunedì calendario

«Un ciaone a Firenze. Milano culla dell’italiano»

Come se la passa l’italiano? Se ci riferiamo alla lingua, forse meglio di come attualmente se la passi il cittadino. Ciò non toglie che anche la lingua italiana finisca spesso al centro di polemiche e dibattiti aspri. Qualcuno potrebbe ad esempio contestare il fatto che il sostantivo “italiano” sia stato appena usato per riferirsi a tutti gli abitanti della Penisola, a prescindere dal sesso, anziché fare ricorso a una formula come “gli italiani e le italiane”. La nostra lingua deve insomma vedersela quotidianamente con istanze, pressioni, tendenze che possono metterla in discussione, modificarla, complicarla, impoverirla o arricchirla. A poche settimane dalla conclusione della seconda edizione degli Stati Generali della lingua italiana nel mondo, svoltisi a Firenze nel contesto della XVI Settimana della lingua italiana nel mondo organizzata dal Ministero degli Esteri, ne abbiamo parlato con Claudio Marazzini, torinese del 1949, professore di Storia della lingua italiana presso l’Università del Piemonte Orientale e presidente dell’Accademia della Crusca. 
Dati recenti ci dicono che l’italiano è la quarta lingua più studiata nel mondo dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese. 
«È una cosa molto confortante a cui si deve aggiungere il fatto che ci sono circa sessanta milioni di persone per le quali l’italiano è la prima lingua». 
Sono però tutte concentrate sul territorio nazionale. 
«Per la grande maggioranza, ma è giusto considerare anche gli italofoni della Svizzera. E l’italiano continua a essere usato, anche se non come lingua principale, dai cosiddetti italiani all’estero». 
Cosa pensa della scelta del Politecnico di Milano di tenere corsi magistrali e dottorali solo in inglese? 
«Non mi sembra una buona idea. Come Accademia della Crusca abbiamo organizzato una tavola rotonda dalla quale è nato un libro pubblicato da Laterza: “Fuori l’italiano dall’Università?”. Ma la vicenda ha avuto degli strascichi giudiziari: a seguito di una vertenza, il Tar della Lombardia aveva dato torto al Politecnico, che ha poi fatto ricorso al Consiglio di Stato. Quest’ultimo ha a sua volta rinviato una disposizione della legge Gelmini sull’Università alla Corte costituzionale, la cui sentenza dovrebbe essere imminente». 
Non sarebbe stato meglio evitare i tribunali? 
«Senz’altro. Questioni simili dovrebbe risolverle il Parlamento, possibilmente stabilendo un punto di equilibro nel rapporto fra lingua nazionale e lingua straniera. Peraltro non in tutto il Paese si registra un atteggiamento così smaccatamente favorevole verso l’inglese: è soprattutto una peculiarità di Milano. A Torino ci si è attenuti a un criterio opposto: sono stati invitati numerosi studenti stranieri ai quali è stato inizialmente proposto di seguire delle lezioni in inglese per passare gradualmente all’italiano e approdare a dei corsi avanzati nella nostra lingua». 
È un metodo valido? 
«Sì, perché queste persone, una volta entrate a far parte della classe dirigente, non potranno non tener conto del loro legame con l’Italia (e quello linguistico è un legame tra i più forti); di conseguenza quando si tratterà di proporre affari, organizzare iniziative e via dicendo, guarderanno al nostro Paese. È un sistema adottato con profitto anche da altre nazioni, come la Germania». 
Tornando a Milano, il capoluogo lombardo è anche uno dei centri da cui ultimamente arrivano più impulsi alle modificazioni dell’italiano. 
«Sì, perché Milano è la nostra capitale economica e uno dei principali luoghi di produzione culturale». 
Da Milano è arrivato anche il terribile “piuttosto che” come sinonimo di “oppure”, che produce notevoli equivoci di senso. 
«Purtroppo sì». 
È impossibile arginare il fenomeno? 
«L’unica cosa che si può fare è seguitare a usarlo con la funzione corretta, quella comparativa». 
Provengono verosimilmente da Milano anche la locuzione “settimana prossima”, senza l’articolo determinativo all’inizio, e l’avverbio “tipicamente” adoperato come se significasse “di solito”. Ma questi sono calchi evidenti dall’inglese. 
«A Milano sono anglofili, gliel’ho detto. E già cinquant’anni fa Pasolini si era reso conto che Milano aveva ormai sostituito Firenze e Roma come cuore linguistico dell’Italia, essendo divenuto l’italiano una lingua sempre meno letteraria e sempre più tecnologica». 
L’egemonia di Milano si vede anche nel fatto che ha stravolto il senso di una colorita espressione romana, “’Sti cazzi!”, che vuol dire: “Chi se ne importa!”, facendola diventare un’esclamazione che esprime stupore, una sorta di “Perbacco!”. 
«Parliamo comunque di un’espressione che rimarrà sempre di uso colloquiale». 
Ma il turpiloquio è ormai stato definitivamente legittimato. 
«È vero. Notavo infatti come ai politici, ma anche a giornalisti e personaggi pubblici in genere, sia richiesto oggi di saper usare più toni espressivi, cosa che un tempo non era necessaria». 
In effetti, colui che è stato forse il principale “sdoganatore” delle volgarità verbali, Vittorio Sgarbi, è anche uno dei più raffinati utilizzatori della lingua italiana. 
«Circa l’importanza del saper variare i registri è stato eloquente il confronto televisivo fra Renzi e Zagrebelsky sulla riforma costituzionale. Renzi è un efficace comunicatore e un abile oratore che sa calibrare la propria comunicazione in base al contesto in cui si trova. Zagrebelsky, pur fornito di molti contenuti, no. E la differenza si è vista». 
Quanto pesano gli extracomunitari nei mutamenti dell’italiano? 
«Poco, a parte l’introduzione di vocaboli esotici per lo più legati al cibo, come “kebab”. Non sono quasi mai gli individui svantaggiati a cambiare una lingua, ma chi sta in alto». 
Termini come “burqa” o “talebano”, però, sono ormai entrati a pieno titolo nel nostro vocabolario. 
«È un fatto che dipende essenzialmente dai media, non dalla presenza di persone extracomunitarie sul nostro territorio. Diverso è il caso di quegli stranieri che scrivono romanzi in italiano dando vita a versioni originali e composite della nostra lingua». 
L’Unesco ha stabilito che il napoletano è una lingua. Non le pare fuori luogo? Allora perché non anche, che so, il bolognese? 
«Pure il lombardo è considerato lingua dall’Unesco, ma bisogna tener presente che in inglese “dialect” equivale a una varietà della lingua. Per noi però è ben di più, dunque “dialetto” non è parola che debba essere ritenuta discriminatoria rispetto a “lingua”. Uno dei capolavori della letteratura italiana del Seicento è “Lo cunto de li cunti”, che è appunto scritto in napoletano. Tutti i principali dialetti italiani hanno prodotto dei testi, anche di gran valore, ma ognuno di essi fa indiscutibilmente parte del più ampio alveo della letteratura italiana. Per quanto belli, i nostri dialetti coprono uno spazio geografico limitato e hanno funzioni diverse rispetto all’italiano». 
Più volte, negli ultimi tempi, leggendo sui titoli dei giornali il nome “Clinton” senza l’articolo determinativo femminile davanti ho pensato che si stesse parlando di Bill anziché di Hillary. 
«L’abolizione dell’articolo davanti ai cognomi femminili, dovuta all’influenza del politicamente corretto, mi lascia perplesso. Anzi, io sarei per recuperare l’articolo determinativo anche per i cognomi degli uomini. Comunque è bene chiarire un punto: denominazioni come “ministra” o “sindaca” sono corrette, ma se uno vuole dire “il ministro Boschi” o “il sindaco Raggi” non commette alcun errore, perché sta usando il maschile in funzione di neutro. Invece di portare tutto alle estreme conseguenze, come fanno quelli secondo cui il vice della Raggi dovrebbe essere chiamato “il vicesindaca”, ci vorrebbe un po’ di buon senso. Claude LéviStrauss ricordava in un suo scritto che il maschile e il femminile, in una lingua, sono funzionali alla sua struttura e non equivalgono al rapporto tra i sessi nella realtà».