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 2016  novembre 06 Domenica calendario

La crisi di Suez lezione per domani

Il Medio Oriente, faglia dove si incontrano molte civiltà e fortissimi interessi, è stato di per questo teatro di molte guerre. Ma non tutte sono uguali nella memoria pubblica. La guerra del Sinai del 1956 e la conseguente crisi di Suez, scoppiata e finita tra l’ottobre e il dicembre di 60 anni fa, non sono tra quelle che Israele e l’occidente ricordano con più facilità. Il vero motivo per cui questo passaggio storico è quasi rimosso o vissuto con fastidio nel pubblico dibattito in Israele ed anche europeo, sta nella durezza della lezione che ne conseguì. Una lezione che però oggi può tornare utile, vista la similitudine con i grandi cambiamenti che stanno investendo la regione. Oggi come allora di nuovo alla ricerca di un equilibrio di potenza. 
ACCORDI
Allora l’equilibrio si ruppe per la decisione di Nasser di nazionalizzare il canale di Suez il 26 luglio 1956. La risposta del Regno Unito e della Francia non fu però capace di leggere in filigrana i nuovi rapporti di forza nel mondo e nella regione. Nel mondo, perché tramontavano i vecchi imperi europei e assurgevano a potenze globali gli Usa e l’Urss. Nella regione, perché la risposta fu concepita per il solo attore egiziano, come se esso non fosse invece immerso in numerose dinamiche interdipendenti, peraltro caratteristica principe di questa regione.
Il risultato fu il disastro. Alla fine di ottobre Francia e Gran Bretagna siglano un protocollo segreto con Israele, che avrebbe fornito il pretesto per un loro intervento armato contro l’Egitto volto a separare i due nemici. Israele invade la striscia di Gaza e il Sinai il 29 ottobre, e due giorni dopo Francia e Gran Bretagna cominciano le operazioni militari per riaprire il canale. Il 5 novembre truppe anglofrancesi sbarcano a Port Said. A quel punto però gli Usa di Eisenhower, furioso per l’inganno e l’ardire di oramai due pesi leggeri come Gran Bretagna e Francia di provare a dirigere quella che era oramai divenuta una superpotenza, li scaricano. Mettendosi d’accordo con l’altrettanto furiosa altra superpotenza, l’Unione Sovietica. I tre malcapitati Gran Bretagna, Francia e Israele si vedono perduti e fanno marcia indietro. Il 7 novembre viene siglato l’armistizio. Il 9 novembre Israele annuncia il ritiro delle sue truppe, seguito da quelle inglesi il 23.
CAMBIAMENTI
L’operazione fu un disastro perché seguiva regole di un gioco non più in vigore. Non solo le potenze globali di riferimento della regione non erano più quelle che pensavano di esserlo, ma nemmeno le dinamiche regionali. Gli Stati arabi non erano come quelli europei, e oltretutto andavano forgiando, sotto la spinta appunto di Nasser, un’ideologia della nazione araba oltre le vecchie monarchie del primo novecento che travalicava i confini statuali, in ogni caso creati dagli europei. In una temperie come quella della decolonizzazione che per esempio rendeva le aspirazioni nazionali algerine – vera preoccupazione alla base dell’intervento francese – certo non comprimibili con un intervento contro l’Egitto, loro sponsor ma non motore della lotta antifrancese.Questo errore di analisi fu tombale per Gran Bretagna e Francia. Israele se la cavò con una brutta figura e per questo non ama ricordare questa sua prima ed unica, fino al Libano 1982 guerra per scelta. Da allora il suo rapporto con gli arabi cambiò per sempre, ma recuperò una forza di deterrenza che si era erosa negli anni, e forse era destino comunque. 
ANALISI
Oggi però la faglia mediorientale è di nuovo in movimento, e gli errori di lettura di allora possono essere di monito e di insegnamento. Non a caso sono appena usciti due libri sulla crisi di Suez, Ike’s gamble (l’azzardo di Ike, soprannome di Eisenhower, ndr.) di Michael Doran e Blood and Sand (sangue e sabbia, ndr.) di Alex von Tunzelmann. Libri che giustamente si focalizzano sugli Usa, vista anche la fortunata perifericità di Israele dalle attuali e terribili dinamiche regionali. 
Del resto quello che allora non seppero fare gli inglesi e francesi, oggi è richiesto agli americani. In un momento delicato come può esserlo il cambio di amministrazione. Oggi è l’America a dover ripensare il suo ruolo di potenza globale di riferimento nella regione. 
NAZIONI
Non è infatti più sola. Altre si affacciano. C’è un ritorno della Russia, e un arrivo della Cina, legata a doppio filo con gli sciiti e l’Iran. Ripensarsi dentro il medioriente per gli Usa dunque implica riconoscere i nuovi arrivi e il mutato panorama, evitare di conseguenza la falsa alternativa tra provare a tornare al ruolo che fu come fecero inglesi e francesi a Suez oppure disinteressarsi del tutto della regione, aprendo vuoti spazi ad apocalittici scenari che in breve tempo arriverebbero non solo in Europa ma anche in terra americana. Tale ripensamento sarà tanto più fecondo quanto sarà capace al contrario di Francia e Gran Bretagna nel 1956 – di individuare i nessi di interdipendenza oggi in attività.
Per esempio quello dell’ISIS, volto a rappresentare l’orgoglio sunnita ferito e a distruggere gli Stati creati un secolo fa, e per questo utilizzato da vari attori regionali. O quelli informali tra gli sciiti di molte nazioni in primis tra iracheni e iraniani – o tra un egiziano dell’ovest con un libico dell’est, oppure tra africa araba e africa subsahariana. Solo così sarà possibile ricomporre un quadro coerente, individuare le nuove potenze regionali di riferimento necessariamente Iran e Arabia Saudita, oltre che Israele e Turchia e in definitiva farli sedere attorno ad un tavolo diplomatico nessuno escluso, stendendo un nuovo Trattato di Losanna. L’alternativa a questo lungo e difficile lavoro, non può che essere lo tenga a mente il prossimo Presidente Usa, anche studiando la storia di 60 anni fa – uno sconvolgimento che farà sembrare la crisi di Suez un giochetto da cortile.