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 2016  novembre 07 Lunedì calendario

New York non basta, la nuova frontiera è l’ultra-maratona

NEW YORK L’Africa ha dominato. Mentre Obama se ne va dalla Casa Bianca, una keniana (come la nonna di Barack) vince per la terza volta la maratona di New York. È la prima in 30 anni a farlo consecutivamente. Tiè ai suoi dirigenti che l’avevano esclusa da Rio. Non c’è mai stata storia, bastava vederla all’arrivo: Mary Keitany, sorridente, leggera e regale, senza nemmeno una goccia di sudore, ha sorriso, baciato marito e figli, e detto: andiamo a casa. Con l’aria di chi archivia un’altra pratica. È andata in fuga a metà percorso, ha continuato da sola, e ha vinto in 2h 24’26” con il più grande distacco dall’84, quasi 4 minuti. Alle sue spalle la connazionale Chepkirui e l’americana Huddle al suo debutto. Tra gli uomini l’Eritrea vince per la prima volta con Ghirmay Ghebreslassie, 20 anni, il più giovane re di questa corsa, in 2h 07’ 51”. Dietro arrivano Rotich (Kenia) e Abdirahman, americano con origini somali. Per Trump, tutti immigrati da cacciare.
Ma dove sono i born in Usa? E come mai la patria che ha inventato il fenomeno della maratona non è capace di piazzare un suo atleta in cima al traguardo. L’ultimo che ci è riuscito nel 2009 è Meb Keflezighi, eritreo di nascita, che interrompeva un digiuno datato 1982. Una risposta è che la maratona normale è ormai troppo comune. Troppo standardizzata, poco esotica, senza più avventura. Solo un prodotto industriale, organizzato bene, ma poco genuino. E così il popolo dei maratoneti ha cambiato strada. Vuole qualcosa di più selvaggio e doloroso. Il nuovo fenomeno si chiama: Ultra-maratona. Troppo comodo gareggiare contro il cronometro, meglio lottare contro i limiti. Ricordate Forrest Gump? Attraversava l’America, senza sapere perché, e dietro di sé radunava gente. Pete Kostelnick, 29 anni, analista finanziario di Lincoln, Nebraska, invece quel perché lo sa. «Pain and agony». Sofferenza continua. È partito il 12 settembre da San Francisco per arrivare a New York il 24 ottobre. Coast to coast sono 5 mila chilometri. Ce l’ha fatta in 42 giorni, 6 ore e 30 minuti. Un tempo record: in 36 anni nessuno era mai riuscito a fare meglio di Frank Giannino che ci aveva messo 46 giorni, 8 ore e 36 minuti. Pete ha è programmato tutto: sveglia all’alba (ore 4), tempo per andare in bagno (1 minuto), chilometri da percorrere al giorno (133), 8 paia di scarpe, 13 mila calorie quotidiane da consumare. Ma tutti i piani hanno le loro fragilità e Kostelnick al sesto giorno si è dovuto fermare per problemi ai tendini. Poi si è ripreso ed è andato come un treno. Per uno che si allena a una media di 322 km a settimana, la strada è una droga di cui non si può fare e meno. Le cifre parlano di un fenomeno in crescita: più 14,6%, aumentano anche le maratone Ultra da 100 miglia (161 km), l’anno scorso ce ne sono state 144. La più lunga si chiama Self-Transcendence, 5 mila chilometri, tradotti in 5649 giri attorno a un blocco nel Queens.
Andare al di là di se stessi, comandare il proprio corpo. Correre nel dolore: nel tour del Grand Canyon, in quello dei monti Appalachi, nelle 135 miglia della Valle della Morte al monte Whitney. I compagni di viaggio sono: sudori, tremiti, vomito, allucinazini, diarrea. In Canada un partecipante è stato colpito da un fulmine, si è rialzato ed è finito terzo. Dave Mackey, campione dell’Ultra, mentre correva a Baer Peak a Boulder in Colorado, è finito sotto un masso e si è fratturato la gamba sinistra. Strisciando è tornato a casa. Ma dopo 13 operazioni ha deciso quest’anno di farsi amputare la gamba sotto il ginocchio. «Con le protesi si va più veloci». Nell’Ultrafiordi, in Patagonia un uomo o è morto dopo 50 chilometri di corsa sotto una tormenta di neve.
Sport per pazzi? O pazzia per professionisti? Kostelnick si allena da cinque anni, e nemmeno sua moglie Nikki credeva riuscisse nell’impresa. «Però quando si fissa è un vero testardo». Sempre più atleti di professione hanno debuttato nell’Ultra. Magdalena Boulet, maratoneta americana, sta dominando nelle donne, Kara Goucher, 38 anni, anche lei specialista su questa distanza, ha intenzione di provarci. «Sono attratta dalla sfida e dalla paura di non farcela». Karl Meltzer ha percorso i 3510 chilometri dell’Appalachian Trail in 45 giorni 22 ore e 38 minuti. Ammette : «Forse siamo scemi, ma non siamo stressati, né nervosi. Quando hai 100 miglia da correre non c’è nessuno che sprinta alla partenza. Cosa lo fai a fare se davanti hai altre 99 miglia che ti aspettano?». Quello che ha detto Kostelnick all’arrivo a New York però conforta: «Non ho intenzione di farmi a piedi anche il ritorno».