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 2016  novembre 06 Domenica calendario

Rubens l’italiano. Il Grand Tour del fiammingo che si sentiva genovese

MILANO Preparata dalla ghiotta anticipazione del dicembre scorso, quando Palazzo Marino ha offerto all’ammirazione dei milanesi la folgorante Adorazione dei pastori di Fermo, apre i battenti in Palazzo Reale una grande mostra su Rubens, che non obbedisce al consueto e un po’ consunto taglio antologico delle tante che l’hanno preceduta, ma si è proposta l’encomiabile intento di illustrare, con opportuni esempi ed eloquenti confronti, un tema tanto cruciale quanto, sorprendentemente, inedito a livello espositivo: il rapporto vitale che legò il sommo pittore fiammingo all’Italia ( Rubens e la nascita del Barocco, Palazzo Reale, catalogo Marsilio, fino al 26 febbraio).
Come affermano in catalogo la curatrice, Anna Lo Bianco, e David Jaffé, autorevole membro del comitato scientifico, il rapporto tra il pittore fiammingo e il nostro Paese fu biunivoco. Se, infatti, Rubens divenne sé stesso solo grazie al debito contratto con l’arte e la cultura italiana, antiche e moderne, non meno grande fu l’ascendente che la sua trascinante pittura esercitò sugli artisti italiani delle generazioni più giovani, da Bernini a Pietro da Cortona, da Giovanni Lanfranco a Guercino, da Domenico Fetti a Luca Giordano, per citare solo i principali, di cui sono proposti in mostra opportuni esempi, messi a diretto confronto con una trentina di capolavori del maestro fiammingo. Un influsso che trasmise un impulso determinante al nascente Barocco europeo, come intuirono in due libri che hanno tracciato la via all’odierna rassegna, Giuliano Briganti ( Pietro da Cortona o della pittura barocca, 1962) e Michael Jaffé ( Rubens and Italy, 1977).
Quando Peter Paul Rubens, nel maggio dell’anno giubilare 1600, si mise in viaggio alla volta dell’Italia aveva 23 anni ed era già un artista piuttosto affermato. Figlio di un importante uomo politico di Anversa, esiliato in Germania perché sospettato di simpatie calviniste, e di una donna cattolica che aveva fatto battezzare sia lui che suo fratello maggiore Philip, Peter Paul aveva ricevuto ad Anversa un’ottima educazione umanistica alla scuola di un colto letterato della celebre casa editrice Plantin e aveva acquisito fin da ragazzo maniere da gentiluomo. Dopo un precoce apprendistato presso due pittori di seconda fila, era stato accolto nella bottega del maggiore pittore locale, Otto van Veen, che amava firmarsi latinamente Vaenius per sottolineare la sua scelta italianizzante. Grazie a lui, Peter Paul aveva conosciuto la pittura veneta, ma anche la scultura antica, soprattutto attraverso la mediazione delle stampe raffaellesche. Nel 1598 era stato accolto come maestro autonomo nella gilda cittadina e l’anno dopo aveva collaborato con Vaenius negli apparati per l’ingresso trionfale in Anversa dei nuovi principi delle Fiandre, Alberto VII d’Asburgo e Isabella Clara Eugenia, di cui sarebbe divenuto pittore di corte e tra i più fidati ambasciatori. Inoltre, frequentando l’anziano e autorevolissimo traduttore in fiammingo di Seneca Justus Lipsius, Rubens aveva affinato la propria cultura, assimilando i precetti filosofici della tolleranza e dell’amicizia intellettuale.
Egli era dunque già attrezzato ad assorbire l’impatto dell’arte antica e del linguaggio figurativo italiano, ma gli otto anni del suo soggiorno nel Bel Paese ne forgiarono a tal punto la cultura e i comportamenti, da lasciare in lui, vita natural durante, un insopprimibile desiderio di tornare in quella che considerava la sua seconda patria, e in particolare a Genova, la città che più di qualsiasi altra assomigliava alla sua Anversa, con quel grande porto formicolante di navi e aperto ai traffici con tutto il mondo.La prima tappa del suo viaggio in Italia fu, però, Venezia, dove Peter Paul assimilò la tradizione locale della potenza espressiva del colore che, innestata nel suo nativo talento, determinò quel fuoco d’artificio di esplosioni cromatiche e drammatici contrasti di luce e ombra, che divennero la sigla inconfondibile della sua “pittura concitata”. Perfino Bellori, il cui compassato gusto classicistico era pur così antitetico a quello di Rubens, non poté fare a meno di elogiarne «il fuoco ne’ colori, la veemenza nelle mani, l’impeto nel pennello». Poi vennero le tappe lombarde di Milano, con l’agnizione di Leonardo, e Mantova, dove Rubens fece la sua prima esperienza di pittore di corte, essendo chiamato dal duca Vincenzo I Gonzaga a ricoprire il ruolo che era stato di Mantegna e di Giulio Romano. Seguirono Genova e Firenze, dove assistette al matrimonio per procura tra Maria de’ Medici, sua futura committente, e il re Enrico IV. E, infine, Roma, dove egli assimilò la sintassi della “maniera” italiana, apprendendo da Raffaello e Michelangelo un linguaggio capace di trascendere la realtà, per rivelarne la bellezza senza tradirne la carnale evidenza; imparando da Barocci e Correggio a proiettare lo spettatore in uno spazio illusorio ma di sbalorditiva credibilità, e succhiando avidamente la nuova linfa naturalistica di pittori a lui contemporanei, come i Carracci e Caravaggio. A tutto ciò, aggiunse di suo una fecondità d’immaginazione davvero inesauribile, e quella capacità di “esagerare”, che un secolo più tardi Diderot avrebbe indicato come la dote imprescindibile di ogni grande “pittore di storia”.