la Repubblica, 5 novembre 2016
25 anni di Aldo, Giovanni e Giacomo
MILANO ANZITUTTO, come ci si regola con voi? Siete come i Pooh che chiunque parli lo fa a nome di tutti, o ognuno parla per sé?
«Faccia così: lei attribuisce le frasi a tutti, se poi è una scemenza precisa che è di Aldo, se è intelligente è di Giacomo», dice chissà chi dei tre.
Dopo le mozioni d’ordine si accende un cero alla Provvidenza, che ci ha evitato di dover parlare del venticinquennale dei Galline vecchie fan buon brothers. «In effetti esordimmo col nome d’arte più brutto, lungo e incomprensibile – ammette Giacomo – mai capito chi l’abbia scelto, ma essendo un calembour orrendo sarà di Giovanni». Il punto – spiega proprio Giovanni – è che «eravamo già belli anziani per fare i cabarettisti, oltre i 30 anni, per cui fu spontaneo tirare fuori la gallina vecchia...». Il resto durò poco, e noi siamo qui per il venticinquennale di (Cat)Aldo (Baglio), Giovanni (Storti) e Giacomo (Poretti). Un quarto di secolo che merita un libro, Tre uomini e una vita, in uscita in da Mondadori, scritto con Michele Brambilla e costellato di aneddoti e foto d’epoca. Negli scatti sui set di Su la testa, Mai dire gol, Tre uomini e una gamba sono bellissimi, circa, nel senso della bellezza della gioventù e di un ottimismo quasi sfrontato.
O incoscienza: quella che vi fece mollare tutto per mettervi a fare i cabarettisti.
«Aldo di cose ne aveva fatte parecchie, anche il tecnico Stipel. Immaginatevelo ora che viene a montarvi il wi-fi e capite cosa avete rischiato, altro che analfabetismo informatico. Giacomo era infermiere e aiuto dentista, Giovanni insegnava acrobatica alla Paolo Grassi. E sa una cosa? Lo rifaremmo anche adesso».
Che gavetta fu?
«Iniziammo con una marea di serate, pagate spesso poco e spesso niente, su e giù per l’Italia con auto scassatissime che però miracolosamente tiravano anche 500mila chilometri. C’erano una Golf verdina con un buco tra i pedali che faceva da presa d’aria, una Subaru, una Regata Weekend, una 128, una Opel vinaccia (di Aldo) che andava al massimo in seconda e mettemmo in palio alla Ruota della fortuna».
Nel senso di Mike Bongiorno?
«No, nel senso del Caffè teatro di Verghera di Samarate, nel Varesotto, il cui titolare Maurizio Castiglioni ci permetteva di fare cose da fuori di testa, tipo litigare furiosamente tra di noi fingendoci clienti prima di salire sul palco, o fare Quark mimando l’accoppiamento delle bisce che però essendo scivolose non riuscivano a incastrarsi. Un giorno Giacomo si ruppe tibia e perone giocando a calcio: andammo in scena con lui in sedia a rotelle col gesso. Ci mettemmo a farlo girare su se stesso, col gambone che faceva da ago della Ruota della fortuna. Primo premio, la Opel. Appena il vincitore la vide, disse “no grazie” e scappò».
Cosa vi manca di allora?
«Una valigia. Di metallo, abbastanza grande. Ci tenevamo tutti gli oggetti che usavamo per gli sketch, le corna del vichingo per Pdor figlio di Kmer, il volante del numero dell’incidente. Persa in un trasloco nel Modenese, dovrebbe averla il nostro amministratore Silvano Rossi».
Mai offeso nessuno? Denunce?
«Una minacciata dal Cepu per una battuta in cui dicevamo “ma dove hai studiato, al Cepu con Del Piero?”. Ci scrissero gli avvocati dicendo che era diffamazione, noi spiegammo che eravamo comici, finì che il Cepu ci regalò tre ceste di salame. Offese beh sì, ma ci criticano le associazioni di categoria, non le categorie. Del dottor Alzheimer i familiari dei malati sono entusiasti. Nella Banda dei Babbi Natale lanciamo un gatto dalla finestra, ovviamente finto, gli animalisti impazzirono. Nello stesso film uccidevamo una suocera, Mara Maionchi: non un’associazione di suocere che protestasse, e neanche l’associazione per la protezione di Mara Maionchi, si vede che sta sulle balle a tutti».
Impossibile non parlare di Tafazzi.
«Il personaggio che più ci è scappato di mano. Volevamo fare solo una gag con uno che si martellava i marroni, venne fuori che era un simbolo della sinistra autolesionista».
Eravate galline vecchie, ora siete vecchissime, tutti sui 60. Non vi sentite mai in crisi?
«No. Ma certo il nostro periodo d’oro è stato tra il 1995 e il 2000, un’idea via l’altra, tutte che facevano ridere e avevano successo. Poi sono arrivati gli anni d’argento, poi quelli di bronzo, ora siamo agli anni di legno, e pure il legno sta marcendo, ma è così che nascono il carbone e il petrolio, dobbiamo solo aspettare qualche millennio».
Il 15 dicembre, nuovo film.
«Un film che ha una finalità chiara: mandare la gente al cinema. Si chiamerà Fuga da Reuma Park, guardi la locandina, sembriamo Steve McQueen in La grande fuga, solo che siamo tre vecchietti che scappano da un ospizio dentro un parco dei divertimenti».
In tempo per Natale. Vi sentite dei cinepanettoni?
«Preferiremmo dei cinetorroni. Diciamo che vogliamo essere diversi...».
Questa voglia di essere diversi c’è in generale nella vostra comicità.
«Il punto è che siamo in tre, ognuno è protagonista in certi momenti e spalla in altri».
E siete così anche nella vita?
«Il nostro metodo di lavoro è trovarci, iniziare a sparare cretinate e poi scrivere tutto. Nico e i sardi sa come nacque? A una cena con Veltroni, per fare gli scemi iniziammo a inventarci i nomi delle cose più strane in sardo. Veltroni sotto il tavolo dal ridere, noi pensammo che forse era il caso di farne un numero».
Riuscite ancora a essere amici?
«Eccome. Certo, ci vediamo meno, ma nessuno si crede il più bravo, anche se io, Giacomo, lo sono, ma ho la modestia di non dirlo, e dividiamo tutto in parti uguali».
Scusate: 33, 33 e 33 fa 99. Chi prende l’1 che cresce?
«Giovanni che ai tempi della gavetta quasi manteneva gli altri due».
Chiedervi se 25 anni fa vi aspettavate la minima parte di quel che avete ottenuto sarebbe una chiusura banale. Quindi vi chiediamo cosa vi ha emozionato di più in questi anni.
«L’emozione di piacere ai bambini di 8 anni, di trovare gente che sa a memoria gag inventate quando non era neanche nel mondo dei sogni. In fondo pure noi siamo bambini anche a quasi 60 anni».