La Lettura, 6 novembre 2016
Censura, il male a volte fa bene. Intervista a Robert Darnton
Stiamo attenti a considerare i censori come degli ossessi, solerti funzionari dediti a colpire ogni libera espressione, cassare opinioni scomode o incendiarie, amputare ogni manoscritto di qualsiasi contenuto non in linea con la narrazione dominante di un dato regime. «Vedere la censura semplicemente come repressione è del tutto inadeguato, non sempre i censori sono i cattivi della storia, tantomeno sono stupidi come amava dire Leo Strauss», spiega Robert Darnton. Ha per titolo Censors at Work: How States Shaped Literature l’ultimo libro dello studioso americano, che Adelphi pubblicherà prossimamente in italiano. Un’altra, intelligente provocazione dell’autore de Il grande massacro dei gatti, autorità mondiale fra gli storici dei libri. Una difesa della censura? Tutt’altro. La sua tesi è che quando lo Stato si vuole arbitro di che cosa possa o non possa esserci nei libri, i risultati non sono sempre prevedibili, sono ogni tanto sorprendenti e, a volte, perfino positivi per gli autori e i loro editori.
Darnton accoglie «la Lettura» nella biblioteca di Palazzo Caetani a Roma, al Centro di studi americani, dove ha appena ricevuto il premio Le Cattedrali Letterarie Europee.
Professore, nel suo studio lei racconta in dettaglio la censura in tre luoghi diversi e in tre epoche diverse: la Francia dell’Ancien Régime nel XVIII secolo, l’India del British Raj di cento anni dopo e la Germania Est della dittatura comunista di Erich Honecker. Perché ha scelto questi esempi?
«La ricchezza degli archivi è stato sicuramente il criterio principale. La Francia del Settecento poi è sempre stata il mio tema prediletto».
E qui sono emerse le prime sorprese.
«Esatto. Nell’Ancien Régime i libri erano certificati da un privilegio reale che dovevano meritarsi. Certo, i censori eliminavano eresie, ma soprattutto esercitavano un controllo di qualità. Nelle note che spesso si scambiavano fra di loro sembravano piuttosto dei recensori. Uno di loro scrisse che stava difendendo “l’onore della letteratura francese”. Non esagero se dico che la censura aveva anche una funzione positiva, alzava il livello dei testi pubblicati. Il che non toglie che i libri dei pensatori illuministi non fossero neppure sottoposti alla censura, venissero pubblicati all’estero ed entrassero in Francia clandestinamente. Qui la censura era postuma: la polizia faceva frequenti razzie in libreria e chiudeva gli autori nella Bastiglia».
Anche nella Ddr della Stasi la censura aveva una funzione positiva?
«A suo modo sì. Ho vissuto un anno a Berlino, tra il 1989 e il 1990. Ero lì quando cadde il Muro. Ebbi l’opportunità di conoscere personalmente alcuni censori. Erano membri del partito, molto attenti nel tagliare espressioni tabù come “ecologia” o “suicidio”. C’erano autori messi al bando, denunce, manipolazioni, ma liquidare il sistema solo come pura repressione significa non coglierlo tutto. Questi censori si consideravano amici e collaboratori degli scrittori, erano molto preparati e non credo fossero cinici: credevano nel sistema come molti degli autori che dovevano censurare. I più famosi fra questi, come Christa Wolf e Volker Braun, avevano continui problemi con le autorità, ma negoziavano con i censori ogni modifica ai loro testi, ottenendo spesso piccole vittorie: abbastanza piccole da soddisfare i duri del partito, ma sufficientemente grandi da regalarsi un senso di autonomia. La letteratura della Germania Est era frutto di complicità e compromesso. La mia conclusione è che, in un regime autoritario, la repressione spietata non funziona. Il sistema ha bisogno di contare su persone che credono in quello che fanno e deve alimentare questa convinzione, mobilitandole».
Nell’introduzione del libro lei evoca brevemente i rischi posti dalla rete, dove sempre più emerge una «tendenza degli Stati ad affermare i propri interessi a spese degli individui». Oggi, attraverso Facebook e Google, ogni nostro comportamento, decisione, pensiero espresso possono essere controllati. È una nuova forma di censura?
«Non ho alcuna pretesa di capire come la censura possa operare su internet. Ma sappiamo che ci sono enormi problemi e molti studi ci raccontano per esempio il livello di sofisticazione raggiunto dai cinesi nella manipolazione del web, non solo attraverso il celebre firewall. Ma non parlo solo della Cina: la nostra National Security Agency non spia solo le mail, ma ha addirittura la capacità di infiltrarsi in ogni messaggio mandato da qualunque tipo di piattaforma. Anche un semplice ordine da un negozio, l’acquisto di un libro, ogni cosa che facciamo usando internet, tutto viene registrato. Credo che negli Usa lo scenario immaginato da George Orwell in 1984 si stia verificando e lo Stato possa controllare di fatto ogni attività privata dei suoi cittadini. Certo, le giustificazioni sono il terrorismo e la sicurezza. Ma credo che costituisca un grande pericolo per la democrazia e per la Repubblica. Non abbiamo alcun potere di controllo. Si sa solo che, nel caso delle mail, c’è un tribunale che opera in segreto per dare alla Nsa le autorizzazioni».
Ma esiste ancora la censura in senso classico in qualche Paese occidentale?
«L’industria dei libri di testo negli Stati Uniti è molto lucrativa. I testi devono essere approvati da commissioni nominate dagli Stati. Il Texas è famoso per censurare i libri di testo e le case editrici spesso agiscono preventivamente».
In che modo?
«Per esempio modificando il capitolo di un libro di scienze sul darwinismo e mettendo quest’ultimo sullo stesso piano del creazionismo, che non ha alcuna base scientifica. Forme di censura sui libri di storia si verificano anche in Polonia e Ungheria. Ma dovrei citarle soprattutto la Turchia, per diretta conoscenza, dove già prima del golpe la censura sui libri era molto attiva. Non uso il termine “fascista” alla leggera, ma temo che il rischio della definitiva trasformazione della Turchia in un regime fascista sia reale».
Siamo alla vigilia di un’elezione caratterizzata da una delle più violente campagne presidenziali nella storia degli Stati Uniti. Nonostante le gaffe, la palese inadeguatezza, la misoginia, Donald Trump potrebbe ancora vincere. Com’è potuto succedere?
«Un fattore è stato il disgusto verso i politici, la percezione vera o presunta che ci sia una classe politica che controlla Washington e non tenga in alcuna considerazione i problemi e i bisogni reali dei cittadini. E la paralisi della politica americana sembra confermarlo. Esiste ovunque, è un fenomeno moderno, ma nel caso degli Stati Uniti è rafforzato da un forte populismo caratterizzato da elementi razzisti, xenofobi, anti-immigrati, anti-intellettuali. Certo, a votare nelle primarie repubblicane, dove il fenomeno Trump è esploso, sono in genere le frange più radicali. Ma sono lo stesso indignato che Trump sia giunto a questo punto. Eppure resto ottimista, perché Trump è pessimo in modo spettacolare e sono convinto che sarà sconfitto».