La Lettura, 6 novembre 2016
Il bottone di Amazon
Quando è stato annunciato, nell’aprile del 2015, il bottone «Dash» di Amazon sembrava un pesce d’aprile. L’idea di un minuscolo oggetto domestico con un pulsante da premere per rifornirsi di alimenti o prodotti terminati, sembrava – allo stesso tempo – troppo semplice e troppo futurista per essere vera. E invece lo era. Il colosso dell’e-commerce di Seattle lanciava l’ennesimo strumento per «rendere lo shopping più facile e automatico»: un bottoncino per ogni azienda (iscritta al programma) che, collegato wi-fi alla app di Amazon, una volta premuto, avvisa i magazzini di preparare la consegna a domicilio. Pannolini, biscotti, preservativi, proiettili per pistole giocattolo, detersivi: gli scaffali dei corridoi infiniti dei grandi magazzini riversati in piccoli aggeggi monomarca da disporre sulla parete o sugli elettrodomestici. Praticamente un sogno per anziani, disabili e consumatori pigri o troppo impegnati.
A distanza di un anno e mezzo dal lancio americano, con 200 marchi all’attivo, il bottoncino di Amazon fa il suo debutto in Europa (al momento Gran Bretagna, Germania e Austria). Il prezzo per ciascun bottone – acquistabile solo dagli iscritti al programma Prime, quello delle spedizioni veloci da 99 euro all’anno – è più o meno lo stesso che in America: 4,99 euro. È questo l’unico numero certo di un programma che non brilla per trasparenza, con Seattle che rilascia comunicati in cui annuncia ordini triplicati di mese in mese, e agenzie di ricerca private, come la californiana Slice Intelligence, che affermano che meno della metà di chi ha acquistato il bottone l’ha poi effettivamente usato. «Come molti prodotti di successo di Amazon – spiega alla “Lettura” l’economista comportamentale Shlomo Benartzi – anche il Dash Button è costruito sul concetto di “facilitare le cose”: minimizzare i costi mentali e operativi dell’ottenere ciò che vuoi». In fondo cosa c’è di meglio di un bottone in casa per evitare le code al supermercato e la fatica di scegliere il prodotto giusto? «Eppure il servizio ha di per sé dei costi significativi – continua Benartzi, autore del bestseller Save More Tomorrow – visto che i consumatori non solo devono scegliere che bottone acquistare, ma devono collegarlo al loro account e capire dove posizionarlo in casa. Già questo può costituire troppo lavoro per le persone. In altre parole, i bottoni non sono abbastanza “facili”».
Se è vero che l’attivazione del servizio è già di per sé l’equivalente di una domenica pomeriggio all’Ikea, un deterrente ancora più forte riguarda il prezzo dei prodotti, che non viene mai visualizzato. Di fatto, l’unico modo per sapere se c’è stata una variazione del costo del prodotto è attivare una funzione sulla app di Amazon che manda un sms con informazioni sul prodotto, costo compreso, ogni volta che si schiaccia il bottone. Un’insegnante di matematica intervistata dal «Wall Street Journal» ha raccontato di aver comprato subito i bottoni di tre marchi, ma che, a un anno dall’acquisto, ne conserva solo uno, quello del detersivo Tide. Quello Gatorade è stato gettato nella pattumiera dopo che il prezzo della confezione da 12 bevande era passato da 9 a 22 dollari già al secondo utilizzo. «La correttezza nel prezzo – spiega alla “Lettura” Eric Johnson, direttore del Center for the Decision Sciences della Columbia University – è molto importante. Se le persone si ritrovano a pagare anche poche monete in più di quello che credevano, si irriteranno molto, anche se il servizio è di per sé conveniente. La trasparenza nei prezzi è fondamentale».
Se i consumatori si dividono tra scettici e entusiasti del servizio (in Inghilterra è in corso una rivolta degli ambientalisti che sostengono che l’arrivo di Amazon Dash Button porterà solamente più plastica nel Paese), le aziende hanno buone ragioni per aderire al programma. Anche se sono in pochi ad aver raggiunto i risultati di Maxwell House – che vende ormai il 50% dei suoi caffé solo attraverso il Dash Button – la convenienza per l’industria non è nelle vendite ma nella possibilità di ricevere un’enorme quantità di dati sui clienti. Attraverso Amazon, i marchi riescono infatti nel sogno impossibile per chi produce beni da distribuzione di massa di avere informazione precise sui loro consumatori. Michele Abo, il capo vendite per il Nord America di Lavazza, ha raccontato al team di ricerca di Mobiquity che i negozi di alimentari, ad esempio, non condividono con le aziende né dati demografici né informazioni sulla tipologia di compratore, o sulla frequenza dell’acquisto. «Il massimo che si può ottenere – ha detto – sono i dati totali delle vendite, che verranno poi affidati a loro volto a istituiti come Nielsen per provare a tirare fuori un po’ di demografia».
A dimostrazione di quanto le aziende siano disposte a pagare pur di avere un po’ di dati sui loro utenti, valgono i numeri – fonte «Wall Street Journal» – di Dash Button: attivare il servizio costa circa 200 mila dollari, mentre ogni bottone viene pagato 15 dollari. Al colosso di Seattle va poi il 15% di commissione su ogni acquisto fatto.
È evidente che, al netto del costo della plastica che fa infuriare gli ambientalisti inglesi, per Amazon è un’operazione dai costi contenuti. «I bottoni sono un esempio perfetto di “blocco” – continua Johnson al telefono dal suo ufficio di Manhattan —. Fanno lievitare i prezzi nel tempo, mantenendo però le persone fedeli ai prodotti. Sarebbe una pacchia per Amazon se funzionasse». A Seattle, dove certo non hanno paura di rifare e sbagliare, l’operazione Dash Button è solo agli inizi: «Credo che la vera lezione che viene fuori – sottolinea Shlomo Benartzi – è che anche le idee molto buone richiedono una sperimentazione costante e continui miglioramenti. Non mi sorprenderei se le future versioni del bottone fossero migliori di questa in maniera significativa».
Al di là del risultato del progetto, resta quello che il bottoncino rappresenta, sia per il futuro del commercio, sia per il domani dell’azienda capitanata da Jeff Bezos – a maggior ragione che i due sembrano sempre di più intrecciati e dipendenti tra di loro.
In uno scenario dove il cosiddetto «internet delle cose» – un sistema di oggetti domestici collegati a una rete internet e gestiti a distanza tramite device – ci riempie anche il frigo e l’armadietto dei detersivi, l’automazione degli acquisti è di certo l’obiettivo ultimo delle aziende che vogliono transazioni facili e sicure. Amazon l’ha capito tempo fa, quando nel lontano 2007, ha lanciato la sezione «Subscribe&Save» (iscriviti e risparmia) dove si offre al cliente la possibilità di avere un cospicuo sconto se si comprano sempre gli stessi prodotti.
Anche in questo caso però la fluttuazione dei prezzi ha reso il servizio non sempre affidabile. In un articolo di fine agosto, il «New York Times» ha mostrato come il costo di alcuni prodotti sia salito addirittura del 170% in pochi mesi (è il caso dei fazzoletti Vanity Fair). Il filtro di un umidificatore Honeywell, ad esempio, è passato da 4,67 dollari a 11,27.
D’altronde, a decidere il prezzo non è certo l’azienda che produce il prodotto in questione, ma Amazon stessa attraverso un complicato sistema che intreccia domanda, offerta, dati di consumo e algoritmi: uno schema ormai consolidato in quello che è stato definito il capitalismo delle piattaforme. «Una piattaforma – ha scritto Om Malik, il fondatore di GigaOm, sul “New Yorker” – è essenzialmente un modello di business che prospera grazie alla partecipazione e al valore che provengono da terze parti, con un lavoro incrementale da parte del proprietario della piattaforma».
Lungi dall’essere, come spesso erroneamente viene definito, un «colosso del web», Amazon – al pari di Google, Facebook, Apple e Microsoft – è in realtà un’azienda che si occupa di infrastrutture, e che decide le regole per tutti quelli che le occupano: consumatori e produttori di beni e servizi. Come ha scritto l’economista Guy Standing nel nuovo saggio The Corruption of Capitalism in fondo agisce come «un broker del lavoro», prendendo della «rendita» da ogni transazione.
A differenza del passato, sostiene Standing – tra i primi a teorizzare il concetto di «precariato» – il potere non è più nelle aziende multinazionali, le cosiddette corporation, che controllano i mezzi di produzione, ma in quelle che controllano «l’apparato tecnologico». Le aziende di pannolini che devono pagare cospicue somme perché Amazon realizzi i loro bottoncini non sono lontane dai giornali che pagano Facebook per aumentare il loro traffico sui siti attraverso gli Istant Articles.
Un modo – spesso sovvenzionato dai governi – per controllare il mercato, eliminare la concorrenza e spingerlo in una sola direzione, dando però l’illusione del pluralismo delle voci formato web. Proprio come una lavagna piena di bottoncini di marchi e prodotti diversi, che però appartengono tutti ad Amazon.