Corriere della Sera, 6 novembre 2016
La mediazione affidata ai Tuareg. Ecco come si è arrivati al rilascio. «Non sapremo mai se c’è stato un riscatto»
ROMA I primi giorni hanno cambiato quattro prigioni e hanno dormito legati ai letti. Ma una settimana dopo, giunti nell’ultimo covo, «eravamo trattati bene, ci davano da mangiare tre volte al giorno». «Avevano sbagliato persona, questo l’hanno detto subito», ha raccontato Danilo Calonego, 66 anni, al pubblico ministero Sergio Colaiocco durante il primo interrogatorio avvenuto nella caserma del Ros di Roma. Accanto a lui il collega Bruno Cacace, 56 anni, con il quale ha condiviso oltre due mesi nelle mani dei rapitori.
Lo scambio di personaNon erano loro i bersagli, ma il manager libico della ditta Con.I.Cos che proprio il 19 settembre scorso ha «consegnato» l’aeroporto di Ghat alle autorità libiche. I sequestratori hanno bloccato l’auto sulla quale viaggiavano i due dipendenti, insieme al tecnico italocanadese Frank Poccia, convinti che all’interno ci fosse l’uomo con la valigetta piena di soldi ottenuti per la «commessa» e di poterlo facilmente rapinare. «Non è lui, questo è anziano», ha invece esclamato uno dei banditi riferendosi a Calonego dopo essersi reso conto dell’errore. Ma a quel punto hanno deciso di portarli via, evidentemente convinti di poter ottenere comunque un riscatto.
L’operazione di venerdì
I rapiti sono stati liberati venerdì pomeriggio grazie a un intervento della guardia nazionale libica. La trattativa andava avanti già da diverse settimane, condotta in prima persona dal vicecomandante, Mohamed Lakri, originario proprio della zona di Ghat. A fare da mediatori sarebbero stati alcuni capi tribù Tuareg, che sin dall’inizio avevano fornito rassicurazioni sul fatto che i sequestratori fossero malviventi locali, senza alcuna connotazione religiosa. Sono stati loro a riferire le richieste della banda e la ricompensa per i negoziatori. Il governo italiano ha sempre smentito che si trattasse di quattro milioni di dollari, così come rilanciato il 12 ottobre scorso da un sito di informazione algerino. E all’inizio di questa settimana, tre giorni prima del rilascio, sarebbero stati proprio i Tuareg a consentire la localizzazione della prigione e la consegna della contropartita per la liberazione degli ostaggi. Un’attività «condotta in piena collaborazione con l’ intelligence italiana», ha tenuto a precisare il vicepresidente del Consiglio presidenziale libico Moussa el Kouni, confermando così la presenza degli agenti segreti anche nell’ultima fase e la condivisione di tutte le scelte con Palazzo Chigi.
Le cinque prigioni
All’alba di ieri i due tecnici, presi in consegna dagli 007 italiani e sottoposti al consueto «debriefing», erano a Roma per l’interrogatorio con il magistrato. «Il giorno prima di essere rapiti – hanno messo a verbale gli ostaggi – avevamo notato un fuoristrada e un’altra macchina che seguivano il convoglio della nostra azienda arrivato a Ghat per la cerimonia di inaugurazione dell’aeroporto. Sono le stesse vetture utilizzate dagli uomini che il 19 settembre ci hanno portato via. Dopo la cattura abbiamo viaggiato per molte ore. All’inizio ci tenevano legati e bendati, cambiavamo casa ogni sera. Poi ci siamo fermati e siamo rimasti nella stessa prigione fino alla fine. Ci hanno tenuti sempre insieme, ci trattavano bene. I sequestratori erano sette, otto. Noi stavamo sempre con gli stessi tre carcerieri. Avevano un accento strano, parlavano con una “a” prolungata. Non pregavano mai, non ci hanno mai parlato di religione e non avevano abitudini particolari o regole da seguire, tanto che alcune volte bevevano anche alcolici».
Le norme di sicurezza
Esclusa la possibilità di ottenere l’eventuale consegna dei sequestratori, l’indagine condotta dalla Procura di Roma mira a verificare eventuali falle nel sistema di protezione dei dipendenti messe in atto dai responsabili della Con.I.Cos. Proprio come accaduto per la Bonatti, la ditta per la quale lavoravano i quattro tecnici italiani rapiti nel 2015, due uccisi durante un blitz. In quel caso è stata ipotizzata una responsabilità diretta del manager che doveva occuparsi della sicurezza nella morte dei due dipendenti e anche ora si dovrà chiarire perché si sia deciso di non provvedere a una scorta armata.