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 2016  novembre 04 Venerdì calendario

Non fare per non rubare, il vicolo cieco anti-corrotti

NESSUN romano oggi si incatenerà davanti al Campidoglio, quando la sindaca Raggi annuncerà la decisione di mettere in liquidazione “Roma Metropolitane”. E si capisce: quella società comunale, che aveva il ciclopico incarico di completare la linea B e di realizzare la linea C, è finita assai più spesso sui giornali per i suoi sprechi che per le stazioni completate.
E la mappa a colori che compare sul suo sito non somiglia ancora neanche lontanamente alle reti metropolitane di Londra, di Parigi, di New York e nemmeno di Milano.
È dunque impensabile che oggi nell’aula Giulio Cesare si alzi qualcuno a tessere le lodi della società da liquidare. Non solo per la disastrosa storia della linea C, che partendo dal chilometro 20 della via Casilina doveva raggiungere la cittadella giudiziaria di piazzale Clodio – passando per piazza Venezia, il centro del centro – e invece è ferma in piazza Lodi, senza essere neanche riuscita a collegarsi con la linea A. Non solo per i tempi di costruzione, già biblici, che si sono allungati fino all’ultima previsione, ancora cinque anni per raggiungere il Colosseo. Ma soprattutto per lo sconcertante elenco di sprechi e di scandali che ne hanno punteggiato la storia, dai 32 funzionari “segnalati” alla Corte dei Conti per un danno erariale di 253 milioni ai cinque dirigenti e amministratori – dal direttore tecnico in giù – indagati per truffa aggravata per aver versato 320 milioni ai costruttori con procedure che secondo la Procura di Roma erano «illegittime e illecite».
Non c’è dunque il minimo dubbio, che la giunta guidata da Virginia Raggi abbia fatto bene, anzi benissimo, ad affrontare rapidamente la questione “Roma Metropolitane”, per dare un segno visibile e concreto del cambiamento nella gestione di un progetto vitale per la Capitale. Eppure, la scelta secca di mettere in liquidazione la società – forse giusta e forse sbagliata: non è questo il punto – fa sorgere il dubbio che la sindaca grillina stia applicando un metodo preciso. Che abbia cioè deciso di curare il virus della corruzione e il vizio degli sprechi non con una cura da cavallo ma con quello che i medici considerano il rimedio estremo: l’amputazione.
Il dubbio in realtà era già nato con l’affossamento della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024, che secondo Virginia Raggi sarebbero state solo «un affare per i costruttori», ed era stato confermato dal suo polemico intervento all’inaugurazione della Nuvola dell’Eur, costata 239 milioni («Siete fortunati che non siamo arrivati prima, perché noi non ve l’avremmo fatta costruire» ha detto il segretario particolare della sindaca, Salvatore Romeo, al manager dell’Eur Spa).
Del resto, quando si trattò di organizzare l’Expo di Milano, Beppe Grillo disse che era «un gigantesco spreco», e che l’unica soluzione era «fermare tutto», ed è la stessa filosofia che mercoledì ha spinto i grillini a far cancellare dalla commissione Bilancio della Camera i 97 milioni destinati alla Ryder Cup di golf in programma proprio a Roma per il 2022 e altri 20 milioni per i mondiali di sci a Cortina del 2020, con l’indimostrabile ma efficace motivazione che «il governo voleva fare il solito regalo agli amici degli amici».
Ora, il punto è proprio questo. Troppe opere, in Italia, sono state realizzate pagando un prezzo insopportabile di sprechi e di corruzione, e tutti gli italiani perbene condividono in toto quella voglia di pulizia che il Movimento 5 Stelle ha sintetizzato nel suo slogan più applaudito: «Onestà». Questo Paese non sopporta più di scoprire a ogni telegiornale che ci sono ancora appalti truccati, costruttori imbroglioni e funzionari corrotti. È ora di dire basta, ma basta sul serio, ed è anche su questo – forse soprattutto su questo – che si fonda il consenso popolare che Grillo è riuscito a coagulare.
Ma la soluzione agli sprechi e alla corruzione non può essere il rifiuto di qualsiasi opera e la cancellazione di ogni programma. Gridare “no” a tutto, solo perché con gli appalti si rischia la corruzione, oggi è un ottimo strumento per drenare il consenso di chi non ne può più, ma se diventa un metodo di governo – come sta accadendo a Roma – desertifica il domani e avvia il contagio della depressione. Perché una capitale, e un grande Paese, hanno un bisogno vitale di speranze, di sogni, di progetti. E l’immobilismo conduce all’immobilità, che non è il trionfo della purezza ma lo stato più vicino al rigor mortis.
Un partito d’opposizione può mandare un “vaffa” al governo, ma se poi va al potere non può permettersi di essere il governo del “vaffa”. Quando arriva il suo turno, ha il dovere di dimostrare che le cose, piccole o grandi, si possono fare onestamente. Ma deve farle, non bloccarle. Perché, come diceva don Lorenzo Milani, «a che serve avere le mani pulite, se si tengono in tasca?».