Corriere della Sera, 4 novembre 2016
L’alluvione, la generosità e l’ipocrisia
«Firenze ha fame e sete…». «Occorrono scatolette, pane, frutta…». «Firenze ha freddo. Sono saltati i depositi di nafta per gli impianti di riscaldamento. Occorrono materassi, occorrono coperte…». «Un elicottero è riuscito ad accostarsi a un tetto…».
«F ortunosamente è stato tratto in salvo un bimbo in fasce, digiuno da due giorni, mezzo assiderato. Intere famiglie erano appollaiate sui tetti...».
Toccò il cuore di tutti il reportage del nostro Alfonso Madeo sulla disastrosa alluvione di Firenze. E così l’audio del cronista fiorentino della Rai Marcello Giannini che cercava di spiegare ai colleghi in collegamento radio da Roma la gravità della situazione allungando un microfono fuori dalla finestra per far sentire il frastuono della piena: «Non so se vi giunge questo rumore». «Perfettamente». «Ecco, questo non è un fiume, è la via Cerretani. È il cuore di Firenze invaso dall’acqua».
Memorabile. Come memorabile fu l’appello lanciato con le parole di Furio Colombo, grazie a Franco Zeffirelli, dall’immenso Richard Burton: «L’acqua che sale da uno a due, a quattro, persino a sei metri, le caldaie che scoppiano, la nafta che si mescola al fango, l’acqua che penetra dappertutto, raggiunge i ponti, riempie piani bassi e negozi, comincia a inghiottire e a trascinare le automobili...». L’omaggio ai volontari: «Nessuno avrebbe potuto lavorare con più cura e più amore nonostante la fatica, l’odore, la melma, il freddo». La richiesta d’aiuto al mondo, spiegando che per quanto generoso potesse essere sarebbe stato «troppo poco per tutto quello che questa città ci ha dato».
Furono trentacinque, i morti. Spazzati via dal fiume gonfiato da giorni e giorni di pioggia. E catastrofici furono i danni alle piazze, ai ponti, ai musei, ai monumenti, ai negozi, alle case. «L’Arno era molto arrabbiato. Ecco la parola giusta. Sembrava qualcuno che si sfogava», spiega l’artista d’origine polacca Swietlan Nicholas Kraczyna, nel bel documentario di Sky Arte presentato oggi a Palazzo Vecchio alla cerimonia con Sergio Mattarella, raccontando di un rumore assordante: «Quello delle acque che entravano sotto gli archi del ponte di Santa Trinita e ribollivano dall’altra parte». «La violenza dell’acqua faceva tremare i muri. Col pericolo costante di crolli», ricorda Giulio Cesare Polidori, custode della Galleria Palatina. «I muri laterali di Ponte Vecchio erano transennati con corde di acciaio che sonavano come corde di chitarra».
All’ippodromo delle Mulina, raccontò il Corriere, «quasi tutti i cavalli da corsa, sorpresi dall’inondazione durante la notte, sono morti. Sono forse centosessanta-centosettanta...». Dal carcere delle Murate, allagato, scapparono 83 detenuti: «Alcuni degli evasi si sono poi costituiti affermando d’essere fuggiti per timore di annegare; alcuni altri sono stati catturati. Ma una settantina sono scomparsi». Due travestiti da suore.
Ciò che più colpì milioni di italiani, accanto alle immagini di lutti e devastazioni, prima fra tutte quella del meraviglioso crocifisso di Cimabue, fu (come scriveva ieri Marco Cianca) la generosità di migliaia di ragazzi e ragazze che, accorsi non solo dall’Italia ma dal mondo intero, cercavano inzuppati d’acqua e immersi nel fango di salvare quanto si poteva salvare a partire dalle inestimabili ricchezze fiorentine: pale d’altare, statue, quadri, libri... Erano i ragazzi che sarebbero diventati per tutti gli Angeli del fango, come cita il titolo del libro di Erasmo D’Angelis. C’erano tra loro quattordici futuri vescovi e cardinali. Come Giuseppe Betori: «Aiutammo una signora anziana che aveva perso da poco suo marito e aveva la casa completamente devastata dall’acqua. Era disperata soprattutto per una cosa: perché non riusciva più a ritrovare le lettere scritte dal marito. Le aveva gelosamente conservate in una cassettina di metallo che era stata trascinata via dalla furia dell’acqua. Iniziammo quindi a ripulire e a togliere acqua e fango. Quando arrivammo in cantina, la ritrovammo, e quando gliela consegnai la sua emozione è stata fortissima. Come se avesse ritrovato un pezzo della sua vita».
«Se è vero che l’acqua spenge il fuoco, l’alluvione dovrebbe aver ridotto in poltiglia la “gioventù bruciata”. Com’è, allora, che in questi giorni, in tutte le cronache del diluvio, si sente dire un gran bene dei giovani?», si chiedeva Giovanni Grazzini. Uffa, le lagne sui capelloni da parte di «anziani che non hanno fatto nessun sforzo per comprenderli»! Quei ragazzi «sanno che gli uomini si giudicano da quello che fanno non da quello che dicono. E loro fanno. Con un’insolenza che è amore».
Mezzo secolo dopo, però, non restano solo quelle storie e quelle immagini che mostrano un’Italia ferita ma generosa. Grande. Resta anche la rabbia per l’ipocrisia di troppe promesse al vento. Bastarono otto giorni, a Indro Montanelli, per denunciare la melassa che rischiava di coprire le dimensioni della tragedia: «Tutto, anche le catastrofi, dev’essere presentato in modo da non inquietare, turbare, allarmare...». Insomma, evviva i soccorsi ma «sembrava che l’alluvione di soldati, pompe, autobotti, camionette, viveri, indumenti, medicinali, attrezzi, ministri e deputati, fosse più imponente di quella dell’Arno». Chiuse invitando i politici di governo a evitare i piagnistei: «Aprano ai fiorentini un conto in banca, quale che sia, e li lascino fare. Ma soprattutto smettano di piangergli addosso. Ad annaffiarli, ha già provveduto l’Arno».
Il presidente del Consiglio Aldo Moro ammise onesto che, diluvio o non diluvio, erano stati fatti degli errori e doveva essere realizzata «una difesa più efficiente» dalle piene. L’inchiesta finì ad Antonino Caponnetto e Pier Luigi Vigna. Ma proprio mentre stavano per partire certe incriminazioni illustri, fu tolta loro di mano. «Mi misi a piangere», avrebbe ricordato Vigna: non sarebbero mai arrivati alla verità. Quanto alle nuove norme, accusa D’Angelis, tra i padri della struttura di missione del governo contro il dissesto idrogeologico, «rimasero nei cassetti di Montecitorio per un anno intero, e grazie a un provvidenziale emendamento-truffa slittò la loro entrata in vigore e furono edificate anche le sponde dei fiumi appena esondati». Furono costruiti nel ‘67 otto milioni e mezzo di vani: il triplo della media annuale. Tre decenni dopo il geologo Raffaello Nardi, segretario dell’Autorità di bacino istituita solo negli anni 80, spiegava che «degli undici invasi e delle quindici casse d’espansione progettate» per prevenire nuove piene, solo uno era «in avanzata fase di realizzazione». I lavori, quelli veri, sospira D’Angelis, son partiti sul serio soltanto nel 2014. Quarantotto anni dopo.