Corriere della Sera, 4 novembre 2016
«Sulla Brexit voti il Parlamento»
LONDRA E adesso? Downing Street dice che non «intende permettere» al verdetto dell’Alta Corte «di sabotare l’articolo 50» e l’agenda della Brexit. Ma il pronunciamento dei giudici, tanto più se sarà confermato in dicembre dalla Suprema Corte, rischia di destabilizzare il governo di Sua maestà allungando i tempi del negoziato e di trasformare il divorzio dall’Europa in un percorso molto accidentato. L’irritazione di Theresa May è comprensibile: dopo avere promesso che «Brexit significa Brexit» e dopo avere annunciato l’attivazione delle procedure per l’addio, la signora che è succeduta a David Cameron rischia di impantanarsi nelle sabbie mobili.
Colpa forse dell’eccessiva sicurezza che il fronte euroscettico, accecato dall’inatteso successo al referendum, ha mostrato da giugno in poi, gongolando all’idea che la partita fosse chiusa. Fatto sta che sotto gli occhi dei cosiddetti «brexiteer» è passato un ricorso che qualcuno pensava fosse ben poca cosa e invece si rivela oggi un macigno capace di rotolare sulle teste di chi ha staccato i fili con l’Europa.
Gina Miller, una manager cinquantenne della City, nata in Guyana ma cresciuta in Gran Bretagna, trovando il grimaldello nell’assunto secondo cui l’esecuzione dell’articolo 50 necessita di un’approvazione parlamentare, ha acceso la miccia di un ricorso all’Alta Corte allo scopo di togliere a Downing Street il potere di decisione unilaterale. Ha vinto.
La democrazia parlamentare è un tesoro di leggi e consuetudini che non si possono piegare e i giudici le hanno dato ragione. La sovranità di Westminster è sacra ed è da lì che si deve partire, ossia da un voto dei Comuni e dei Lord, dove le maggioranze sul tema Europa sono in teoria ballerine (addirittura con prevalenza del fronte «Remain») e dove la Brexit ha la prospettiva di annacquarsi. Ed è proprio ciò che Theresa May teme di più. Non tanto la disciplina dei suoi parlamentari che pur divisi sarebbero costretti a sostenere l’agenda del governo, quanto l’indeterminatezza di tempi e procedure. In sostanza una Brexit a parole, rivendicata ma non attuata. Il limbo delle frustrazioni politiche. Che è poi l’anticamera dell’ingovernabilità. Non la posizione migliore per negoziare il distacco con l’Europa.
Il quadro attuale è in definitiva da riassumere così: Westminster deve pronunciarsi su un atto formale che consenta a Downing Street di «premere il grilletto» dell’articolo 50, presumibilmente un atto che contenga i principi essenziali del negoziato e le date. Ma, poiché a Westminster esiste un forte fronte trasversale europeista, si entra nel campo dei dubbi e il fatidico marzo 2017, indicato da Theresa May per mettersi al tavolo, è una dichiarazione di volontà, non un termine vincolante. Si ritorna al punto di partenza. Vaghezza su tempi e contenuti, con il populismo di Nigel Farage che rientra in pista (lui già parla di «tradimento della volontà popolare») e con il contorno della feroce contrapposizione fra i partigiani conservatori della Brexit «dura» (fuori dal mercato unico) e i partigiani conservatori della Brexit «morbida» (sì al mercato unico, specie per difendere il «passaporto» della City, vale a dire il diritto delle istituzioni finanziare londinesi di operare in Europa senza passare dalle autorizzazioni dei singoli Paesi). Un discreto caos.
Il governo si appellerà alla Suprema Corte, sostenendo che il risultato del referendum è chiaro, che nessuna marcia indietro è ipotizzabile e sperando in un rovesciamento del verdetto. Tutto è possibile. Ma il percorso della Brexit, sia che parta a marzo sia che resti indeterminato il quando, si accompagna al rischio di forti scossoni politici. Si intravvede un fantasma: il voto anticipato per il rinnovo del Parlamento. Theresa May rassicura che la legislatura si completerà normalmente nel 2020. Ma se per caso a dicembre la Suprema Corte dovesse confermare che la Brexit si legittima solo dopo un voto di Westminster, allora, la stessa Theresa May potrebbe pensarci seriamente. Adesso non è il caso di versare altra benzina sul fuoco.