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 2016  ottobre 31 Lunedì calendario

Le centrali spente del samurai nucleare. Il Giappone torna prigioniero del carbone

Pechino Chi salverà i sette samurai al servizio del padrone di Fukushima? L’onda lunghissima dello tsunami, cinque anni dopo, disegna ancora un incubo nitido come i colori dei quadri di Hokusai. Il Giappone ha paura. I sette samurai, cioè i sette impianti nucleari della TepCo, quella Tokyo Electric Power Company diventata tristemente famosa, dormono il loro sonno non proprio tranquillo da quando il governo ha imposto lo stop dopo il disastro. 
La compagnia continua a perdere milioni di yen terremoto dopo terremoto: prima quello del 2007 che fece chiudere Kashiwazaki-Kariwa, poi l’apocalisse in mare e in terra di Fukushima. Adesso, finalmente, sperava di aprire almeno due dei colossi messi a dormire dopo il disastro. Ma nell’attesa di ricevere il sospirato sì dell’Autorità nucleare, battezzata da Tokyo in tutta fretta soltanto dopo la tragedia, l’ultimo affronto alla compagnia che aveva già chiesto ai suoi dipendenti di tagliarsi lo stipendio è arrivato dagli elettori della prefettura di Niigata. Qui, un paio di settimane fa, Ryuichi Yoneyama, di professione medico ma di vocazione avvocato della causa anti- nucleare, è diventato governatore proprio con la promessa di non risvegliare la maledetta KK, la centrale che al massimo della sua potenza sarebbe la più grande del mondo, ma che a meno del minimo – è ferma da quattro anni – è soltanto un colosso mangiasoldi: 470 miliardi di yen, cioè 4,6 miliardi di dollari, spesi per
il muro anti- tsunami da 15 metri e tutte le altre diavolerie che dovrebbero evitare un altro inferno come a Fukushima. Ma c’è da fidarsi? Benvenuti in Giappone, la terra del Sol Levante e dell’atomo calante: perché chi ci crede più, tranne forse il premier Shinzo Abe, che la terza economia del mondo sarà davvero capace di risvegliare i sette Samurai della TepCo e le altre 15 centrali messe a dormire dopo l’orrore? I conti non tornano. E mica solo quelli che contrappongono pro e anti atomo. Un sondaggio dell’Asahi Shimbun dice che il 57 per cento dei giapponesi è contro la riapertura delle centrali: solo il 29 per cento è a favore. Ma la volontà popolare, si sa, si può anche plasmare con le armi della politica: con quali armi si può invece tentare di smontare le verità della matematica? Il discorso torna sempre lì, Fukushima, la madre di tutte le disgrazie, anche del business nucleare. 
Per carità: nessun calcolo economico reggerebbe mai di fronte all’orrore di quel che è successo l’11 marzo del 2011, la scossa terribile del nono grado, i 18mila morti, i 160mila sfollati, molti ancora costretti a vivere in abitazioni d’emergenza. Ma proviamo a chiudere per un attimo gli occhi del cuore e squaderniamo il portafoglio. I tecnici di TepCo avevano preventivato in un primo momento una spesa annuale di 80 miliardi di yen, cioè 770 milioni di dollari, per lo smantellamento della centrale del disastro. 
Già l’impresa sembrava titanica come il colosso ingoiato dall’onda: 30 anni di lavori, per un costo totale di 2mila miliardi di yen, cioè 19 miliardi di dollari. Peccato che il governo abbia rifatto i conti. E un documento pubblicato la settimana scorsa ha quantificato lo sforzo finanziario in centinaia di miliardi di yen all’anno, cioè vari miliardi di dollari. Lo studio è scettico perfino sulla durata: basteranno davvero trent’anni? Ma anche nella migliore, cioè nella più bassa, delle previsioni, al costo annuale di 300 miliardi di yen, cioè 3 miliardi di dollari, ci ritroveremo tra trent’anni con una bolletta di un miliardo di yen: sì, avete fatto bene i conti, sono esattamente 100 miliardi di dollari, le previsioni iniziali più che quintuplicate. 
La cifra astronomica sta facendo suonare adesso più di un campanello d’allarme. Anche perché, conti alla mano, il ragionamento che per esempio fa l’Economist, che non è certo l’house organ di Greenpeace, è più che esemplare: «Prima del disastro, il Giappone ricavava il 25 per cento della sua elettricità dalle centrali nucleari. Il governo dell’epoca sperava di salire al 50% dal 2020. L’attuale governo spera che il nucleare possa fornire il 20-22% dell’elettricità dal 2030. Ma la lentezza nel far ripartire gli impianti mette i piani in discussione. Attualmente gli impianti nucleari forniscono meno dell’1% dell’elettricità del Giappone: e pochi vedono la possibilità di salire oltre il 10% dal 2030». 
Incredibile: da dover fornire la metà dell’elettricità oggi il nucleare, in Giappone, vale soltanto l’1%. 
Non che gli anti-atomo abbiano da gongolare: la sconfitta del nucleare non è purtroppo una vittoria per gli ambientalisti. Tokyo aveva accelerato sull’atomo proprio per diminuire la dipendenza dagli sceicchi: invece la crisi del nucleare ha portato alle stelle il consumo prima di petrolio e oggi anche di gas naturale. Per non parlare delcarbonechenel2010contrivillaggio buiva per il 25% del bisogno energetico e oggi per il 31%. Così l’uso del combustibile fossile è salito nel suo complesso dal 61% di sei anni fa all’85% di oggi. Quanto basta per rinunciare già in partenza a centrare l’obiettivo di riduzione, dal 2030, del 26% delle emissioni di anidride carbonica. Altro che freno al surriscaldamento globale. 
Sembra una maledizione. Un circolo malefico dove la natura continua a farsi tragicamente beffa di ogni calcolo tecnologico: per non parlare di quelli finanziari. Come uscirne? Certo con una popolazione che è quasi il doppio dell’Italia il Giappone non può mica seguire l’esempio dei 20 milioni di Taiwan. L’ultima rivoluzione cinese qui s’è già compiuta. Anche l’isola che continua a tenere alta la bandiera dell’altra Cina è territorio ad alto rischio sismico. E proprio per questo anche qui dopo Fukushima è cresciuto il movimento no atomo. Adesso è deciso: al compimento del 40esimo anno d’attività le tre centrali verranno spente. L’obiettivo è più che ambizioso: portare per quella scadenza, il 2025, dal 4 al 20% l’apporto dell’energia pulita. Impresa titanica. Ma non erano chiamati anche a battaglie come questa i sette terribili samurai?