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 2016  ottobre 31 Lunedì calendario

Pizza e panini, shampoo e barbiere, la spesa calcolata in minuti di lavoro

Quanto costa bere un caffè, mangiare una pizza o comprare uno shampoo a Firenze, Milano o Roma? E soprattutto quanti minuti di lavoro sono necessari per chi guadagna uno stipendio medio (che è diverso a seconda della regione), nelle diverse città italiane, per riuscire a riempire il carrello della spesa? Ogni capitale è cara a modo suo, verrebbe da dire parafrasando Anna Karenina. Così se Firenze è la più dispendiosa, tanto che servono 274 minuti di attività professionale per assicurarsi il necessario mix tra servizi, alimentari e oggetti per la cura della persona, a Napoli lo stesso “pacchetto” si porta a casa con 201 minuti di lavoro. Nella classifica delle città più care Firenze è seguita da Venezia (269 minuti), Bologna (266 minuti) e Milano dove la medesima spesa si ottiene con 259 minuti. Fanalino di coda Napoli (dove ciascuno se la cava con 200 minuti). A realizzare la complessa operazione algoritmica che ha portato alla mappatura del costo della vita (suddivisa per tipologia di prodotti e per i minuti lavorativi obbligatori per acquistarli) nelle dieci principali città italiane, è stata la Camera di Commercio di Monza e Brianza incrociando dati Istat, Eurostat e JP Salary Outlook. 
Le sorprese, guardando i numeri, non sono poche e rivelano un Paese decisamente poco omogeneo. Se il gettonatissimo caffè a Bari si gusta spendendo solo 75 centesimi, e lavorando 2,5 minuti, a Venezia ci vogliono 27 centesimi in più e 3 minuti lavorativi tondi. Il flacone di shampoo che a Bari costa 2,17 centesimi (guadagnati con 7,3 minuti lavorativi) a Genova lievita a 3,10 centesimi (9 minuti di lavoro). Cosa accadrebbe se gli italiani facessero la fila tutti assieme in una gigantesca cassa del “supermercato Italia”? Buona parte di loro avrebbero più di un motivo per pensare di essere le vittime di un’ingiustizia sociale. La stessa carta igienica che a Napoli costa 1,35 centesimi (4,3 minuti lavorativi considerando i guadagni medi dei napoletani), a Bologna vale 1,76 centesimi (5 minuti) e a Roma, chissà perché, ben 2,42 centesimi (6,9 minuti). 
Per non parlare della pasta. Una famiglia barese mette in tavola un chilogrammo di spaghetti di grano duro spendendo 1,08 centesimi, il frutto di 3,6 minuti di lavoro, mentre una milanese deve investire 2,19 centesimi (5,9 minuti). Un chilo di carne fresca che a Napoli costa poco più di 12 euro (sono necessari 40 minuti di attività) a Roma sfiora i 19 euro e richiede ben 53 minuti. Più eclatante la disparità per chi decide di tagliarsi i capelli a Napoli (neppure 11 euro) o a Bari (quasi 30 euro) o a Palermo (12 euro). 
Spiega Renato Mattioni, direttore della Camera di Commercio di Monza: «Abbiamo messo in relazione per ogni città i prezzi di un paniere di beni e gli stipendi medi dei residenti. Nella dinamica dei costi rientrano però anche altre variabili, dall’efficienza della logistica alla attrattività turistica ai prezzi degli affitti e delle materie prime». La chiave di lettura che ne è emersa? «Se vogliamo è paradossalmente “al contrario”: dove costano di più prodotti e servizi c’è una migliore qualità della vita perché c’è più margine per gli imprenditori e più reddito disponibile per le famiglie». È ciò che la Camera di Commercio chiama “convergenza” tra i ceti medi e che diventa centrale per capire il Paese: «Quando convergono il ceto medio imprenditoriale e quello medio impiegatizio allora l’economia locale va bene». Un esempio per tutti: «Nel nostro sud c’è più distanza tra gli imprenditori e il ceto medio, minore capacità di consumo e prezzi ancor più bassi. Alcuni costi fissi a partire dagli affitti sono più contenuti, ma il peso maggiore dei prodotti a buon mercato ricade soprattutto sulle aziende, con una difficoltà del “fare impresa” che è superiore rispetto al nord». I beni e i servizi che apparentemente costano meno, come il caffè a Napoli, relativamente alla realtà economica e sociale e al reddito medio delle famiglie in realtà sono più dispendiosi. Gli stessi 0,86 euro di un caffè a Napoli richiedono 2,8 minuti di lavoro, mentre a Roma ne bastano 2,5. E 2,5 minuti servono anche a Bari dove però il caffè costa 0,75 euro.«Nelle città d’arte il tema della sostenibilità turistica si declina anche con costi fissi più alti e quindi con prezzi mediamente superiori per gli stessi residenti». 
Ma non eravamo un mondo globalizzato, verrebbe da chiedersi guardando l’incrocio di minuti e denaro che emerge dalla ricerca? Dice Vanni Codeluppi, professore in Sociologia dei media allo Iulm prova a dare una risposta: «Negli ultimi anni abbiamo adottato un modello prevalente di modernizzazione che, attraverso i mezzi di trasporto e di comunicazione, dovrebbe superare il problema degli spazi, ma siamo ancora a metà del processo. Il mercato non è affatto una costruzione ideale ed è strettamente legato al contesto sociale in cui si sviluppa». Un esempio molto noto è quello dell’indice “Big Mac” dell’ Economist, diventato strumento informale di comparazione del potere d’acquisto. «Il tentativo di trasformare un hamburger in unità di misura dello stesso prodotto – spiega Codeluppi – ha rivelato la disomogeneità nei vari paesi del mondo. Nei fatti dipende dalla possibilità di un’azienda di strappare i prezzi più alti, del medesimo prodotto, in base al costo del lavoro, all’energia necessaria per realizzarlo e alla contrattazione che c’è dietro». Se la Francia, con l’eccezione di Parigi, ha un contesto omogeneo, l’Italia è da sempre il paese delle diversità: «Nelle città italiane la disponibilità del consumatore riflette una disomogeneittà di sviluppo della cultura economica del nord rispetto al sud e soprattutto i prezzi diventano immediatamente più bassi dove l’azienda vuole vendere ad ogni costo». 
Spiega Maura Franchi, sociologa dei consumi presso il dipartimento di Economia di Parma: «Dalla ricerca emerge che gli stili di vita e di consumo sono diversi all’interno del Paese. Incidono tanti fattori: il tenore di vita, il tipo di economia, le tradizioni, il tipo di attività che costituisce la cifra peculiare di una città». Vediamo alcuni esempi: «La pizza non può che costare meno dove il consumo è diffuso, è parte delle pratiche di street food a Napoli. Questo perchè un’offerta diffusa riduce i prezzi, o meglio tende ad uniformarli verso il basso. Oppure la presenza di tanti turisti, mentre avvantaggia la parte della popolazione che si dedica alle attività connesse al turismo peggiora le condizioni di vita degli abitanti perché fa lievitare i prezzi. Non a caso Venezia e Firenze, le città che vivono più delle altre di turismo, hanno gli scontrini maggiorati in modo abnorme perché la domanda dei turisti è superiore a quella dei residenti. Una spiegazione analoga si può trovare anche per Bologna che fa registrare prezzi alti (tra i più esosi del paese) probabilmente in ragione del ricco turismo d’affari che ruota attorno alle attività fieristiche. E questa è peraltro la percezione che ne hanno gli abitanti». Ci sono però tante diverse motivazioni che incidono sugli stili di consumo. Cosa determina un’oscillazione così forte dei prezzi secondo la Franchi? «Il turismo, le abitudini diffuse, le eventuali difficoltà nel raggiungere gli approvvigionamenti, il tipo di lavoro prevalente nella città. Talvolta le voci entrano in competizione tra loro. Un esempio per tutti: il panino al bar è più caro a Milano perché è la città dove la pratica è più diffusa e obbligata dalle abitudini del terziario produttivo, e il conto diventa più salato anche rispetto alla esosa Venezia. Ovunque ci sia un tipo di abitudine sociale, che stressa un determinato tipo di consumo, questo schizza perché diventa in un certo senso obbligato». Non solo. Nelle città del sud dove l’approvvigionamento dei generi alimentari ha costi minori, la minore intermediazione nei generi alimentari riduce i costi. Conclude la Franchi: «Napoli e Palermo sono nettamente le città che stanno meglio perché l’alimentazione quotidiana ha minori costi. Credo che conti anche l’efficienza delle catene distributive: Genova soffre di costi di trasporto e di approvvigionamento dispendiosi. Bologna infine ha un costo della vita superiore, oltre che per le ragioni citate, perché gli abitanti sono abituati a spendere molto anche per una condizione di diffuso benessere dei ceti medi».