2 novembre 2016
In morte di Tina Anselmi
Marzio Breda per il Corriere della Sera
«M a chi te lo fa fare, Tina? Va a finire che sopra il tuo scranno ci mettiamo un fiore, lo capisci?» Così, scuotendo la testa con l’aria di chi non ammette tanta ostinazione, dice un giorno un parlamentare a Tina Anselmi, mentre le passa davanti a Montecitorio nel periodo più critico per i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, da lei presieduta. Sono in parecchi, allora, colleghi e non, a mostrarsi fintamente preoccupati quando la incrociano. Tentativi d’intimidirla all’insegna del «lascia perdere», che l’ex partigiana conosciuta a Castelfranco Veneto con il nome di battaglia di «Gabriella», appunta la sera nel diario. Li trascrive spesso senza commenti, come una sorta di memorandum a se stessa: ma è possibile che debba ancora far capire loro di che pasta sono fatta?
In realtà, se quegli interlocutori riflettessero sul percorso umano, politico e civile della Anselmi, si guarderebbero da qualsiasi obliqua minaccia o delegittimazione, scoprendola inutile. Infatti, da militante della Resistenza a insegnante, da sindacalista della Cisl a esponente politica, parlamentare e ministro della Dc, prima donna alla guida di un dicastero, lei aveva già dimostrato molte volte il suo senso del bene comune e dello Stato per consentire a chiunque l’idea che potesse essere condizionabile sulle questioni di principio. Non a caso, una sua «sentenza politica» cui resterà coerente suona così: «Basta una sola persona che ci governa ricattata o ricattabile, perché la democrazia sia a rischio».Il banco di prova definitivo, per lei, viene proprio quando la presidente della Camera, Nilde Iotti, le affida – con il sostegno di Sandro Pertini – l’indagine sulla P2. È il 23 settembre 1981 e l’Italia è sotto choc per la scoperta di una loggia massonica segreta, la «Propaganda Due», guidata da Licio Gelli. La lista degli iscritti conta 962 persone che formano «il nocciolo del potere fuori dalla scena del potere». Ci sono 12 generali dei carabinieri, 5 della finanza, 22 dell’esercito, 4 dell’aeronautica, 8 ammiragli, dirigenti dei servizi di sicurezza, 44 parlamentari, 2 ministri in carica, un segretario di partito, imprenditori, banchieri, faccendieri, magistrati. Dietro di loro occhieggiano perfino settori del Vaticano. Una sorta di «interpartito», infiltratosi anche al Corriere attraverso l’editore e alcuni giornalisti, dietro il quale s’intuiscono interventi in certe oscure vicende. Non si sarebbero limitati a business e tangenti, ma avrebbero a volte agito in connessione con mafia e stragisti, avendo avuto una parte anche in delitti eccellenti (Moro, Calvi, Ambrosoli, Pecorella) e pianificando un progetto antisistema: il Piano di Rinascita Democratica.Quando Tina Anselmi si mette al lavoro le fanno comprendere subito che cosa rischia. La pedinano per strada. Trova tre chili di tritolo sotto casa. E presto scatta la tenaglia dei boicottaggi per farla passare come una visionaria che «dà la caccia ai fantasmi». Lei resiste a tutto. Anche a un emissario del potente cardinale Marcinkus, che punta alla sua sensibilità di cattolica per frenarla e al quale replica: «Non ho fatto la staffetta partigiana per farmi intimidire da un monsignore». Tira dritto e, lo dimostra il diario, affronta il compito con freddezza. Il metodo che s’impone, e annota, è «fare presto, delimitare la materia, stare nei tempi della legge». E ce la fa. Con infinite audizioni, 147 sedute di Commissione, un certosino setaccio dei messaggi depistanti che le vengono recapitati e consegnando nell’85 al Parlamento il risultato dell’inchiesta: 120 volumi. Le cui conclusioni sono tutt’altro che fantapolitica: «La P2 è il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti d’eversione politica e morale».Sarà una coincidenza se la sua parabola politica comincia da quel momento a spezzarsi progressivamente? Sarà una fatalità se le sempre più rare volte in cui parla in pubblico, e i media ne rilanciano il messaggio, denuncia che le «solidarietà occulte» restano ancora attive? Sarà uno scherzo del destino se, tra le ultime pagine del suo memoriale di quel periodo convulso, avverte che «le P2 non nascono a caso, ma occupano spazi lasciati vuoti per insensibilità, e li occupano per creare la P3, la P4…»?Prima di entrare nel tunnel della malattia, la Anselmi si candida per l’ultima volta al Parlamento nel 1992, l’annus horribilis in cui il vento di Tangentopoli fa tabula rasa della Prima Repubblica. La Dc la inserisce in un collegio perdente (altro incrocio astrale?) e lei si trova battuta da un leghista ed esclusa dopo 6 legislature. Qualcuno, a intermittenza, evoca il suo nome per il Quirinale. Ma sono indicazioni poco convinte, platoniche. Sulla donna coraggiosa che ai tempi dello scandalo P2 era stata investita quasi di un ruolo da «pubblico ministero del popolo» scende un’amnesia provvidenziale.
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Simonetta Fiori per la Repubblica
La chiamavano la Tina Vagante, alludendo alla sua integrità esplosiva rispetto al gioco del potere. Da anni era chiusa nel silenzio dei giusti, il Parkinson e poi un ictus ne avevano consumato le energie intellettive. Ma in fondo parla per lei la sua morte, capitata per curioso destino in un duplice anniversario che ne puntella la biografia politica: il settantesimo del voto femminile e il quarantesimo d’un ministero assegnato per la prima volta a una donna. Quella ministra era lei, Tina Anselmi, una vita da primato vissuta con l’umiltà dei semplici.
A scorrere i quasi novant’anni di vita – era nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo del 1927 – ci si imbatte solo in una sequenza di primati, come rileva anche il bel ritratto apparso in un volume del Mulino, Donne della Repubblica.
Tutte le cose migliori della storia repubblicana portano la firma dell’Anselmi. Ma la Tina, come la chiamano dalle sue parti, era antropologicamente immune da qualsiasi vanità. Sorridente, faccia larga, la femminilità trattenuta, concretezza contadina, il rigore morale di chi sceglie di stare dalla parte dei più deboli. Per istinto naturale prima ancora che per coscienza politica. Divenne staffetta partigiana a 16 anni dopo aver assistito all’impiccagione del fratello d’una sua amica ad opera dei nazifascisti. Dopo pochi giorni, con il nome in codice di Gabriella, si lancia in sella a una bicicletta per portare notizie ai resistenti. Ma il carattere della Tina si rivela il giorno della Liberazione, quando nel buio della piazza punta la pistola sulle spalle di un uomo scambiato per un repubblichino: era suo padre, uscito per cercarla nelle ore del coprifuoco. Ne avrebbero riso per il resto della vita.
Tina la tosta. Tina che non si spaventa davanti a niente, specie se si tratta di difendere le altre donne. È iscritta a Lettere – alla Cattolica di Milano – quando comincia la militanza sindacale al fianco delle filandiere e più tardi delle maestre elementari. Poca teoria e molta pratica: per cominciare le bastò guardare le dita lessate delle operaie. Agli amici socialisti del padre preferisce i suoi compagni partigiani cattolici, e le sue stelle polari se le andrà a cercare dentro la Democrazia Cristiana, tra De Gasperi e Dossetti, Moro e Zaccagnini. Agli anni della guerra risale anche il suo grande amore, l’unico, morto precocemente a causa di una malattia. Ma la Tina preferiva non parlarne, sempre riservata sulla sua solitudine sentimentale. «No, non ho scelto io, ma è la vita che ha scelto per me», rispondeva alla biografa Anna Vinci. «Ha scelto la politica». Nel 1946 non può ancora votare, ma si dà da fare tra le contadine venete perché capiscano l’importanza delle urne. Negli anni Cinquanta la ritroviamo accanto alla socialista Lina Merlin contro le case di tolleranza: la difesa delle prostitute le avrebbe attirato molte critiche. Ma è solo l’inizio, agli attacchi e anche alle bombe si dovrà abituare col tempo.
In fondo è il destino di chi cambia la storia, o di chi ci prova e in parte ci riesce. Da ministra del Lavoro vara la legge di “parità di trattamento tra uomini e donne”: una vera rivoluzione per quei tempi, anche se è rimasta incompiuta. Nel 1978, da titolare del dicastero della Sanità, partecipa all’istituzione del Servizio sanitario nazionale, una conquista che oggi viene studiata dagli storici per spiegare il primato italiano di longevità. Sempre in quell’anno dà prova del suo senso delle istituzioni al di là di qualsiasi fede religiosa: pur avendo votato in Parlamento contro l’interruzione di gravidanza, in veste di ministra firma la legge sull’aborto, resistendo alle fortissime pressioni vaticane.
Non può piacere a tutti, Tina Anselmi. Troppo integra, e anche troppo attiva. Nel 1980 sfugge a una bomba – forse di mano neofascista – che fortunatamente non esplode. Solo a una donna del suo temperamento può essere assegnata nel 1981 la guida della commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. Prima di accettare, si consulta con il suo amico Leopoldo Elia. Un lavoro straordinario – 198 persone ascoltate, centinaia di migliaia di carte – per far luce sul sistema occulto che condiziona la vita nazionale. Il dossier conclusivo è una meticolosa controstoria d’Italia che denuncia gli intrecci fangosi tra politica, apparati militari, servizi segreti, finanza, perfino il Vaticano. «Non è che l’inizio», ammonisce l’Anselmi, che invita ad approfondire il marcio rivelato dalla loggia massonica. Esortazione lasciata clamorosamente cadere. Contro la Tina piovvero le accuse di ossessiva visionarietà, ma a farle più male furono quelle della sua stessa parte politica. «Io credo che sia ammalata dopo questa storia», confessa la sorella Maria Teresa a Eliana Di Caro ed Elena Doni, autrici del saggio del Mulino.
Il lavoro sulla P2 non le sarà perdonato. È sotto il governo Berlusconi che, nel 2004, viene promosso su iniziativa della Prestigiacomo un dizionario delle donne italiane. La voce “Tina Anselmi” è un’infilata di cattiverie, «improbabile guerriera», «furbizia contadina», anticipatrice della «futura demonologia politica, distruttiva e futile». Un attacco quanto mai ingiusto e sconsiderato.
Quando esce dalla scena politica, dopo essere stata proposta senza successo per il Quirinale, ritorna nella sua Castelfranco. Può contare su una famiglia affettuosa, tra molti nipoti e due sorelle che l’hanno seguita fino agli ultimi giorni, regalandole il meritato dono di morire in casa. Le amiche come la Vinci – curatrice dei suoi diari segreti sulla P2 – la ricordano ironica, mai scioccamente nostalgica («non è vero che eravamo meglio noi»), insofferente alle contorsioni della politica («ma chi l’ha detto che una persona semplice non sia un buon politico?»), allergica ai narcisismi e all’autoreferenzialità. Diceva sempre noi, la Tina, mai io. E anche ora, composta con una semplice veste blu, appare ieratica ed essenziale, come di chi s’accomiata sapendo di aver fatto la sua parte.
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Piero Colaprico per la Repubblica
L’intervista a Gherardo Colombo, ex magistrato a Milano
MILANO Gherardo Colombo, com’è giusto ricordare Tina Anselmi?
«Una persona determinata, senza paura, lineare, alla quale come magistrato e cittadino sono profondamente grato. Profondissima la stima che ho avuto per lei e per il suo lavoro alla Commissione parlamentare sulla loggia P 2. Ha indagato in modo onesto e indipendente, così tanto indipendente che poi è rimasta isolata».
Giudice istruttore, sostituto procuratore della Repubblica a Milano, Gherardo Colombo, 70 anni, ha attraversato da investigatore alcune vicende cruciali nel rapporto tra politica e malaffare. Dai fondi neri dell’Iri alla loggia P2, diretta da Licio Gelli, a Tangentopoli, che individuò il sistema della corruzione dei partiti nella Prima Repubblica. Sta partendo per il Brasile, dove ha un incontro pubblico con Sergio Moro, il quarantenne magistrato brasiliano che indaga su mazzette per i politici pari a tre miliardi di euro.
Lei. Colombo, sa bene che c’è ancora chi sostiene che il notevole tasso criminale dei piduisti sia stato “gonfiato” ad arte.
«Basta andare sul sito www.fontitaliarepubblicana. it e si trovano gratis tutti i volumi della commissione, indice compreso, anche se non è fatto bene, mentre la relazione finale del presidente Anselmi era e resta un documento essenziale per chi vuol comprendere la storia recente italiana».
Siccome la memoria è in Italia spesso fugace, possiamo ricapitolare i fatti alla luce del lavoro di Tina Anselmi?
«Io e il collega Giuliano Turone, mentre indagavano su Michele Sindona, mandiamo la Guardia di Finanza a perquisire la villa di Licio Gelli. Siamo nel marzo 1981 ed emerge questa associazione segreta, la P2, che di segreti ne aveva tanti. Sei mesi dopo la perquisizione, la Corte di Cassazione, sollecitata da un conflitto di competenza avanzato dalla procura di Roma, sposta le carte dell’indagine nella capitale e da quel momento le cose importanti sono svanite».
Svanite per la giustizia penale, intende?
«C’erano 37 buste sigillate, dedicate a politici, banchieri, imprenditori, e in una busta c’era la notizia che il segretario psi Bettino Craxi aveva ricevuto sette milioni di dollari sul “Conto Protezione”, in una banca svizzera. La nostra rogatoria finì in niente, perché la magistratura romana, titolare del fascicolo, non chiese mai la documentazione, tanto che un giudice istruttore di Lugano, quando andavamo in Svizzera per altre ragioni, ci ripeteva sempre: “Io i documenti li ho approntati, siete voi italiani che non li avete voluti”».
Insomma, se aveste lavorato voi di Milano...
«Credo che Tangentopoli sarebbe emer- sa una decina d’anni prima, almeno in alcuni aspetti. Ma al di là di Roma-Milano, che la P2 volesse, grazie ai suoi legami pericolosissimi, impossessarsi dei gangli dello Stato è un dato di fatto acclarato, ed è emerso con tutta la sua forza grazie ai lavori certosini e preziosi della Commissione Anselmi».
Era malafede o che cos’altro? Un tempo il palazzo di giustizia di Roma era chiamato “porto delle nebbie”...
«Non voglio parlare di malafede, ma in quegli anni era convinzione generale che dentro certi cassetti non si andava a guardare. E così, alla fine, il processo penale s’è occupato di aspetti poco rilevanti della questione, invece sul piano politico e culturale Tina Anselmi è riuscita ad “aprire i cassetti”, con una sorprendente capacità di andare avanti, tale da permettere a chiunque di vedere, al di là dei risultati giudiziari, la reale e inquietante pericolosità della P 2».
Lei si sentiva con l’onorevole Anselmi?
«All’epoca no, anni dopo sì, ci ho parlato. Una donna di enorme spessore, retta, seria. La sua perdita mi rende oggi più che altro triste. Era stata la prima donna a diventare ministro in Italia e la sua carriera s’è interrotta dopo che, in nome della trasparenza, aveva organizzato interrogatori pubblici dei politici. Sapeva che non l’avrebbero “perdonata”, e ha tirato diritto».
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Stefano Cappellini per la Repubblica
L’omaggio di Prodi “Una vera riformista la sinistra ha smarrito la sua idea di welfare”
ROMA Quando Romano Prodi fu nominato in corsa ministro dell’Industria nel quarto governo Andreotti, al posto di Carlo Donat Cattin, correva il novembre del 1978. Al tavolo del Consiglio dei ministri trovò ad attenderlo una sola donna, Tina Anselmi, che era già alla sua seconda esperienza di governo. «All’epoca – racconta Prodi a Repubblica – si parlò tantissimo della prima volta di una donna ministro. Ma quando entrai a Palazzo Chigi non ebbi tempo di pensarci troppo, anche perché in quel caso il novizio ero io…». Ieri, dopo aver appreso la notizia, Prodi ha subito comunicato pubblicamente il suo cordoglio: «Sono profondamente addolorato per la scomparsa di Tina Anselmi alla quale ero legato da grande stima e sincero affetto». Non sono parole di circostanza.
L’ex premier ammirava molto Anselmi: «Ho condiviso con lei alcuni degli anni politicamente più significativi della storia del Paese»
Il 1978 è l’anno di Moro assassinato dalle Brigate rosse. La crisi econonomica. La disoccupazione. Erano anche quelli tempi difficili.
«Ma era un periodo di grandissima spinta riformista e in quel governo a spingere più di tutti per il cambiamento era proprio lei, Tina».
La «signorina Tina», la chiamava Moro.
«Aveva una formazione religiosa che la ispirava profondamente nelle convinzioni e nel modo d’agire».
Firmò la legge sull’aborto, contro la quale aveva votato in Parlamento, affrontando le pressioni vaticane. Cattolica «adulta»?
Era una donna molto semplice e molto coraggiosa. Ma non voglio farne un santino astratto. Era anche capace di modi spicci. Le era rimasto un approccio popolare alle cose e alle persone. E alla fine otteneva quello che voleva».
Cosa ottenne dalla politica?
«Una delle più grandi riforme mai varate in Italia, quella del servizio sanitario universale. Ricordo ancora l’emozione profonda la mattina in cui ci vedemmo al Consiglio dei ministri con la certezza che ormai il consenso in Parlamento era larghissimo e quel provvedimento sarebbe diventato legge, con le sue importanti ricadute sulla vita delle persone».
Anselmi fu accusata di aver ceduto a una legge dei comunisti.
«Accusa sciocca, in quella riforma c’era un’impronta politica trasversale».
Ogni volta che si citano riforme davvero epocali bisogna tornare indietro almeno di trent’anni.
«C’era allora un’attenzione alla protezione dei cittadini, soprattutto quelli più esposti agli imprevisti della vita, che è andata scemando nel tempo. Il Paese coltivava la fiducia, e Anselmi la incarnava perfettamente, che si potesse avanzare nell’applicazione del welfare. Ancora nessuno pensava, come oggi, che la politica dovesse accettare come un fatale destino l’arretramento dei diritti universali».
Una critica alla nostra sinistra?
«Fosse solo un problema italiano, o di una parte politica, mi preoccuperei meno. Purtroppo è un fenomeno che attraversa tutta l’Europa. Quando Angela Merkel snocciola dati e percentuali per caldeggiare la riduzione del welfare non posso non misurare la distanza tra questa visione e quella di Tina».
Anselmi era il «volto buono» della Democrazia cristiana, ma il capo del governo era Giulio Andreotti.
«Certo, ma sulle sue riforme c’era anche la firma di Andreotti».
C’è speranza di rivedere una Anselmi in politica?
«Non ci credo molto, ma ci spero ancora».
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Carlo Bertini per la Stampa
Ho scoperto nel mio paese cosa è la dittatura e cosa il fascismo e il nazismo voleva importare. Quando ho scoperto i giovani impiccati, il nipote del medico ucciso, la morte barbara e disumana, ho capito che non potevo rimanere indifferente», ebbe a dire Tina Anselmi - morta ieri dopo una lunga malattia - a Enzo Biagi, raccontando l’episodio che fulminò la sua sensibilità. Costretta dai nazisti ad assistere all’impiccagione di trentuno prigionieri giustiziati per rappresaglia, la studentessa diciassettenne del liceo di Bassano del Grappa sceglie il nome di Gabriella e nel 1944 diventa staffetta partigiana per la brigata Cesare Battisti.
La tenacia e la passione
Il suo volto da luglio campeggia alla Camera, nei ritratti della sala delle Donne, orgoglio della Boldrini che ha voluto celebrare le figure femminili più significative della nazione. E da quello sguardo traspare la forza tenace con cui la Anselmi ha condotto le sue battaglie, imprimendo una svolta alla riforma che portò alla creazione del servizio sanitario nazionale, diventando la madrina della legge sulle pari opportunità. Seduta sugli scranni di Montecitorio per sei legislature, dal 1968 al 1992 eletta nella circoscrizione Venezia-Treviso; e più volte sulla scrivania di ministro, trent’anni dopo aver iniziato la sua avventura politica. Cominciata prima della fine della guerra: quando nel dicembre del ’44 si iscrive alla Dc, la sua scelta di vita l’ha già compiuta. Un anziano scudocrociato che la conosceva bene, Carlo Fracanzani, ministro ai tempi di Andreotti, le concede il tributo che si deve ai grandi della storia patria, perché «Tina Anselmi si dimostrò anticipatrice con le sue idee e le sue testimonianze coraggiose ancor prima dei significativi ruoli istituzionali assunti e svolti con intelligenza e coerenza». E non furono pochi quei ruoli, da quando cominciò nel primo dopoguerra a fare la sindacalista con la Cgil e poi con nel 1950 con la Cisl, dirigente del sindacato tessili e degli insegnanti, quindi per tre volte sottosegretario e poi primo ministro donna della Repubblica, al Lavoro e alla Previdenza sociale; dove promosse l’istituzione del Ssn, «evento epocale che determinò la fine della parcellizzazione degli enti previdenziali che erogavamo trattamenti differenti da persona a persona, dando così la possibilità di accesso ai servizi sanitari a tutti i cittadini italiani residenti, all’insegna della giustizia e della solidarietà», come ricorda l’associazione dei medici cattolici.
La poltrona che scotta
Alla fine degli anni ’70 è ancora ministro, alla Sanità, in altri due governi Andreotti, per poi essere nominata per la sua caratura alla presidenza della commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2 dal 1981 al 1985.
Incarico scomodo, di grande delicatezza per la portata delle vicende da chiarire e per le personalità coinvolte ai più alti livelli in quel «progetto eversivo in grande stile», come lo definì lei nei suoi appunti riservati. Chi oggi lavora sulle carte della Commissione P2, ovvero un altro ex Dc come Beppe Fioroni, titolare della commissione d’inchiesta sull’omicidio di Aldo Moro, parla di una persona «chiamata a percorrere un tunnel, che fece uno straordinario lavoro che ci ha consegnato fonti di approfondimenti utili a capire, scoprendo cose che oggi capiamo quanto siano importanti». Una donna che proveniva da una scuola politica «fondata sull’ ascolto come necessità per persuadere gli altri, nella convinzione che abbiano una parte di verità che dobbiamo inglobare».
Insomma, se la Resistenza per la Anselmi fu pure la radice del costruire assieme le fondamenta della Repubblica, i tributi bipartisan che arrivano alla sua morte - due per tutti, quello della Boschi e della Carfagna - mostrano come la sua figura rappresenti un simbolo nazionale. Accostato spesso a quello di Nilde Iotti, entrambe staffette partigiane, protagoniste della vita parlamentare e personalità di spicco dei due più grandi partiti, la Dc e il Pci, in cui dovettero farsi strada e imporsi con tenacia in tempi di maschilismo imperante. E non è un caso se per due volte, prima nel 1992 grazie ad una campagna del settimanale Cuore, e poi anche nel 2006, la Anselmi fu tra i candidati alla presidenza della Repubblica.
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Filippo Facci per Libero
Tina Anselmi spiegato a un ragazzino o a un bamboccione era la Rosy Bindi della Prima Repubblica, con tutte le fondamentali differenze che spesso ci fanno rimpiangere la Prima e guardare con sufficienza la Seconda.
Entrambe, la Anselmi e la Bin
di, hanno
avuto dei
ruoli non
per le caratteristiche che avevano ma per quelle che mancavano: per quella medietà grigia e contegnosa, cioè, che in Italia lascia passare indisturbati mentre gli altri si azzuffano e si dividono.
Poi, nel ping pong bipolare, ogni tanto sono finite anche loro, ma sempre facendo più che altro un gran fumo. Comunque: entrambe venete, entrambe democristiane, entrambe ostili a una femminilità che per ripicca le ha abbandonate anzitempo; entrambe un po’ suocere e un po’ perpetue del prete, scialbe soprattutto nel vestire, abbastanza bruttarelle da lasciar credere che dei meriti dovessero averli per forza: insomma il contrario di oggi, costretti come siamo a guardare con sospetto delle signore magari bravissime ma che hanno l’handicap di essere belle e agghindate da strafighe. Entrambe, poi, sono state ministre (la Anselmi è stata la prima della storia d’Italia) ed entrambe, quando sulla difensiva, sono parse intrise di un’arroganza legnosa che ha rappresentato un loro limite.
Naturalmente, nella più seriosa Prima Repubblica, una Tina Anselmi doveva avere un curriculum ben più solido di una qualsiasi Bindi. Non era fragile neppure fisicamente, essendo stata un ex campionessa di giavellotto e pallacanestro perlomeno a livello regionale, questo in un periodo in cui non solo la politica era un’attività prevalentemente maschile. Ragazzona provinciale, staffetta partigiana col come di Gabriella, figlia di un aiutofarmacista, socialista, anzi comunista, anzi cattocomunista, anzi democristiana, quindi insegnante, sindacalista, deputata nel 1968, infine primo ministro donna in 115 anni di storia (al ministero del Lavoro, nel 1976) peraltro su nomina di Giulio Andreotti. Un archetipo: matriarcale e concreta, dispersiva e consociativa, identitaria e casalinga, rassicurante e furba, moralistoide e icona dell’Anpi, impastata di retorica partigiano-sindacalista con parlata stampata a memoria. Nell’insieme, perfetta. Un santino da parabrezza nell’Italietta da strapaese: «La ventata di leggerezza che nella mia infanzia ha spazzato tante volte via la malinconia ha scritto di sè mi accompagnerà fino alla fine, e avrà sempre per me l’odore del cocomero di nonna Maria e del panetto con l’uva di nonno Ferruccio».
Ora è chiaro che un personaggio così, al di là dei coccodrilli preparati da tempo, diventa l’ideale per registrare anche degli epitaffi ben differenziati. Uno riguarda il periodo in cui guidò la Commissione parlamentare di inchiesta sulla P2 (ottobre 1981-maggio 1984) che in pratica si tradusse in una sfilata ininterrotta di ministri, generali, ambasciatori, segretari di partito, direttori di giornale, banchieri e magistrati: l’ex insegnante Anselmi ritrovò la bacchetta e divenne un’improbabile donna contro i poteri occulti, già oggetto di minacce, pedinamenti e manovre sottotraccia. Divenne la Giovanna D’Arco di un neo Comitato di Liberazione Nazionale in un periodo di delirio giornalistico e civile, ovviamente isolata nel suo partito e tuttavia guardata con un filo di diffidenza anche da parte comunista. Furono più che altro i giornali a dipingerla così, al di là delle intenzioni di lei. La Anselmi elaborò una poderosa relazione finale che restò, tuttavia, come un monumento di inconsistenza e di cultura del sospetto: vi si leggeva che la P2 aveva costituito «motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico» e che, ancora, le liste erano incomplete, la Loggia era responsabile di intere stragi «in termini non giudiziari ma storico-politici», in pratica traduzione nostra che la P2 si era comportata come una moderna lobby di potere. A ridimensionare il gran fumo della Commissione provvidero le successive inchieste giudiziarie: e la conclusione di varie sentenze fu che la Loggia P2 non cospirò contro lo Stato, punto. Anche personaggi come il radicale Massimo Teodori (presente ai lavori della Commissione) bollarono la Loggia come una patacca che celava soltanto la faccia nascosta della partitocrazia, mentre Indro Montanelli ne parlò più che altro come di una malfamata «cricca di affaristi». Tutto l’affare si risolse semmai con un gigantesco regolamento di conti in campo soprattutto editoriale, come ben sanno dalle parti del Corriere della Sera, ex Rizzoli.
Una gran fetta di Italia progressista, tuttavia, ormai considerava la Anselmi come la “non” politica perfetta, la moglie ideale del suo amico partigiano Sandro Pertini, il nonno della Repubblica. Per il Quirinale pensarono anche a lei: nel 1992 poteva essere un’alternativa a Oscar Luigi Scalfaro (la sua versione maschile) e il settimanale satirico Cuore, non da solo, fece una campagna serissima in suo favore. In realtà la stessa Anselmi si giudicava una signora che aveva già dato e che poteva discretamente levare le tende: in questo fu il contrario di Rosy Bindi, viceversa incollata alla poltrona per più legislature contro ogni rottamazione nuovista. La Anselmi fu relegata in commissioni un po’ vacue (sulle violenze italiane in Somalia e sui beni sequestrati agli italiani ebraici durante la Guerra) e divenne buona per premi e commemorazioni: da madrina del sito internet di Walter Veltroni a tributaria di un francobollo per l’anniversario della sua nomina a ministro. La morale è che si salvò dalla retorica protestataria della casta e dei vitalizi nonostante figurasse a pieno titolo assieme ad altri ministri tra i distruttori della previdenza italiana, per dirne una. Si dimentica spesso che Tina Anselmi è stata la prima donna alla guida delle pensioni italiane e che in questo anticipò Elsa Fornero. Da una parte. Dall’altra, qualsiasi ragazzino o bamboccione oggi potrebbe rimproverarle d’aver versato solo 362 mila euro di contributi e tuttavia di aver già incassato 1,6 milioni di euro (dati risalenti all’anno scorso) grazie a un vitalizio di 5.966 euro mensili. La Anselmi si è defilata per tempo, e ha fatto bene. Resta l’icona che era. Le urla e il parolaio della Seconda Repubblica l’ha lasciato tutto per noi.