Corriere della Sera, 2 novembre 2016
«Noi pronti per il Big One. Da 30 anni si costruisce rispettando regole severe». Intervista a Tom Jordan
NEW YORK «Quella che si è verificata nell’Appennino tra Umbria e Marche da agosto in poi è una rara sequenza di terremoti violenti: eventi sismici drammatici, esasperanti per le popolazioni locali, ma anche circoscritti. Qualcosa di molto diverso dal “Big One” che ci aspettiamo in California e anche dal terremoto dell’Aquila che ho studiato personalmente: nel 2009 fui chiamato dal governo italiano a proporre, nell’ambito di una commissione internazionale, interventi preventivi per il futuro».
Direttore del Centro per i terremoti della University of Southern California, il sismologo Tom Jordan è una delle massime autorità mondiali quando si parla di scosse, faglie e movimenti tettonici delle placche. Sei mesi fa ha fatto trattenere il respiro a mezza West Coast americana quando, durante la Conferenza nazionale Usa sui terremoti di Long Beach ha detto che la Faglia di Sant’Andrea ha accumulato enorme energia negli scorsi decenni: è come una molla compressa che è pronta a scattare in qualsiasi momento. Preannuncio di «Big One».
Quali furono le sue conclusioni dopo L’Aquila?
«Consigliai di mettere in piedi un sistema di prevenzione, in vista di ulteriori eventi sismici: eravamo stati chiamati a occuparci del futuro, non del passato, anche se qualcuno voleva usare il nostro lavoro per formulare giudizi postumi».
Oggi proporrebbe la stessa cosa per le aree colpite? Vede analogie con altri casi simili?
«Sì, stessa terapia, anche se i due eventi sismici sono stati diversi. A L’Aquila una scossa forte, seguita da uno sciame sismico neanche lontanamente comparabile con le nuove scosse di questi giorni sull’Appennino. Episodi che mi ricordano, invece, una simile sequenza di scosse molto forti avvenuta in Nuova Zelanda nel 2011. Comunque le nuove tecnologie ci consentono, in tutti e due i casi, di calcolare le probabilità del ripetersi di un evento catastrofico sulla base dell’andamento degli “aftershock”. Attenzione: parlo di modelli matematici basati sull’attività in corso, di probabilità, non di previsioni. La scienza non è ancora in grado di prevedere quando un evento sismico si verificherà né di sapere in anticipo quanto sarà violento».
Nel caso della California, però, sono state fatte simulazioni per un terremoto di 7.8 gradi della scala Richter. Si è detto che, dopo decenni di tregua e con gli ultimi episodi sismici, quelli del 1989 e del ‘94, relativamente violenti (6.9 e 6.7 Richter) e di portata limitata, la faglia ha accumulato un’enorme tensione: è da più di un secolo, dal grande terremoto di San Francisco del 1906, che l’energia non viene scaricata in modo massiccio dal sottosuolo.
«Anche di più se parliamo del sud della Faglia di Sant’Andrea e della zona di Los Angeles. L’ultimo terremoto davvero violento nella California meridionale è stato nel 1857. Per questo temiamo il “Big One”, un evento molto distruttivo. Rispetto all’Italia la violenza sarà maggiore, ma abbiamo anche condizioni migliori in superficie. Quasi tutti gli edifici della California sono stati costruiti negli ultimi cento anni e sono stati rafforzati con severi criteri antisismici negli ultimi trenta. Questo ci consente di prevedere, anche con un terremoto esteso e di violenza impressionante, un numero relativamente limitato di perdite di vite umane».
Il sisma del ‘94 fece 57 morti. Nel caso di una catastrofe come un terremoto del 7.8 Richter che colpisce il sud della California, l’ipotesi peggiore indica la perdita di 1.800 vite, 53 mila feriti e la metà delle case di Los Angeles non più abitabile.
«Sì è così. Può sembrare cinico fare questi calcoli, ma la prevenzione è finalizzata a ridurre al massimo la perdita di vite, mentre contro i danni materiali si può fare ben poco. Le vittime potrebbero anche non essere moltissime considerata la violenza del cataclisma ipotizzato, ma i danni economici sarebbero enormi. Rimettere in piedi la California sarebbe assai difficile».
Le popolazioni, in America come in Italia, sono informate correttamente dei rischi? Non c’è il pericolo di provocare ansia o panico?
«Bisogna comunicare senza inutili allarmismi, non va creato panico. Ma non vanno nemmeno alimentare illusioni. Bisogna avvertire spiegando in modo dettagliato: la gente vuole sapere. Deve sapere a quali rischi è esposta per poi decidere in piena autonomia se correrli o no, ammesso che abbia una possibilità di scelta. È così qui in California e nella gente dell’Aquila ho trovato lo stesso tipo di sensibilità».