La Stampa, 1 novembre 2016
L’anziano e i suoi 20 gatti da salvare
All’inviata che gli chiede se pensa di andar via, l’anziano abitante risponde che no, non può: lì ha gli animali. E l’amico, suo coetaneo: «Ma che animali ci hai? Due gatti!». E invece no, i gatti sono venti, vanno e vengono e qualcuno deve occuparsi di loro, dice l’intervistato, e ha pure due cani che stavano fuori con lui quando c’è stata la terribile scossa mattutina. E dove se li porta tutti questi animali? E dove va lui? Ha ragione.
Questo è l’attaccamento ai luoghi, che non sono solo la casa ma le piazze, i vicoli, le chiese, i cortili, le vie in cui le macchine non passano, insomma i paesi bellissimi e antichi dove gli anziani si conoscono tutti e si incontrano ogni giorno, vanno a passeggiare, hanno l’orto, si trovano in piazza.
E sono in tanti a non volersene andare, chi ha le aziende agricole e chi ha sempre vissuto lì senza mai spostarsi. In montagna, in campagna: «Al mare non ci vanno neanche d’estate, figuriamoci d’inverno», sento giustamente obiettare. Ma ci sono anche anziani che hanno bisogno di qualche ora tranquilla, con generi di conforto e letti più comodi delle brandine, e di stabilità, una pausa dopo i disagi patiti da molti già da mercoledì, peggiorati dopo domenica. Giorni brutti di paura, e poi panico, e poi sconforto, depressione e la terribile sensazione che non finisca mai, con tutto che crolla e si crepa. Le case, le chiese, le strade, la montagna stessa. E ora sgomberare subito, via tutti.
Le immagini dei pompieri che evacuano un ospizio a Maiolati con i pazienti allettati, operazione assai delicata, o le foto degli anziani della casa di riposo di Pieve Torina sotto una tenda della Protezione Civile, raccontano anche di un territorio molto dedito alla cura degli anziani. Da sempre: all’inizio con le monache e negli ultimi decenni anche con i servizi sociali dei Comuni. Sento di figli che arrivano da Roma, da Bologna, a prendere i genitori per portarseli via o sistemarli in luoghi più sicuri. Sembrerebbe da disgraziati lasciarli lì ma è umana e condivisibile anche l’esasperazione di chi via non vuole andare e si rivolta contro quella che sì, appare come una deportazione – la parola è questa – con decreti di sgombero, navette che partono verso la costa, ordinanze di zone rosse. Sono in molti a non credere che sarà solo per qualche tempo, per i mesi più freddi. Temono che, andandosene, la rovina avanzi. Diffidano su un eventuale ritorno perché se quei paesi sono ancora vivi è soprattutto grazie a loro, che lì sono rimasti, in pochi ma tenaci anche durante i mesi invernali. E se vanno via? Che succede?
La regione Marche vanta un primato di longevità, una aspettativa di vita fra le più alte in Europa. Il giornale dei pensionati americani Aarp, qualche anno fa, la segnalava ai propri abbonati come un posto ideale dove trascorrere la vecchiaia per cibo, paesaggi, socialità, offerta culturale, ritmi umani. C’è una miscela speciale, un equilibrio particolare nell’operosa vita di campagna, una comunione con il territorio che è propria di quel posto lì: spostare le persone senza una certezza granitica, ribadita, garantita di un ritorno a casa – case controllate e messe in sicurezza – sarebbe un crimine. Bene lo sanno i tanti che visitano le Marche e l’Umbria in estate: alla radio, in rete, fioccano i ricordi di tanti piccoli paesi e borghi dei Sibillini. Norcia, Preci, Castelluccio con la sua magica piana, Arquata, Acquasanta, Montemonaco, Montegallo, Visso, Ussita, Fiastra, San Ginesio. E Camerino, Tolentino, Macerata. Al mattino leggo che il sindaco di Castelsantangelo, già duramente colpito mercoledì, dice «Spero che in paese non ci sia più nessuno dei testoni». Ha ragione. Ma dobbiamo lavorare, tutti, perché non solo i testoni possano tornare a ripopolarli, presto.