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 2016  novembre 01 Martedì calendario

L’inganno di Bonaventura e il paradosso della barriera

Una partita di calcio racchiude sempre un inganno, e l’inganno si riconnette alla fede. Possono aggiungersi passione e delusione, farsa e tragedia, amore e odio, impegno e destino – una gamma di sentimenti shakespeariana. Ma se il calcio si risolve, come diceva Gianni Brera, in un “mistero agonistico”, l’inganno ne costituisce la quintessenza. Il dribbling è un raggiro elevato a forma d’arte. Un rigore è la sfida fra due menzogne: il tiratore vuol nascondere al portiere dove tirerà e il portiere vuol nascondere al tiratore dove si butterà. Nella punizione la sfida è meno impari, per via della barriera e della maggiore distanza, però l’inganno rimane: primo o secondo palo? Sopra la barriera o di lato? O addirittura sotto?
Giacomo Bonaventura, contro il Pescara, ha scelto l’ultima opzione. Bizzarri non si è mosso, sconfitto dall’inganno e, come vedremo, dalla fede. Il tiro era angolato, ma lento e rasoterra. Senza la barriera a impedire la visuale, Bizzarri avrebbe parato con facilità. Ma la barriera c’era, per giunta disposta da lui. Il paradosso esprime qui una sua forza innegabile. Quel muro, invece di proteggere il Pescara, ha lasciato entrare il nemico di soppiatto. Quasi riusciamo a figurarci Bonaventura che, subito prima dell’esecuzione, mormora un Apriti Sesamo; o magari pensa, in un lampo di geniale astuzia, al cavallo di Troia.
La barriera è uno dei fattori più poetici, nel senso di creativi, del gioco del calcio. Modifica lo spazio e il tempo – il tempo di battuta e reattività. Certi specialisti sanno calciare le punizioni sul cosiddetto primo palo, quello del portiere; sperano che lui si tuffi verso il lato coperto, che creda a un tiro sopra la barriera; quale oscuro groviglio. Degno del poker o di certi racconti di Henry James, dove i protagonisti ingaggiano sfide psicologiche a oltranza, smarrendo il filo del vero e del falso. Bonaventura ha scelto una strada ancora più audace. Calciando basso, ha confidato nel fatto che la barriera prevedesse una traiettoria alta e sarebbe di conseguenza saltata per respingerla. Bonaventura opera un piccolo atto di fede: credo che quei sei o sette uomini a pochi metri da me credano che io tiri alto e dunque solleveranno i piedi da terra; e credo che lo creda anche l’omino laggiù, fermo sulla linea di porta. Il gol di Bonaventura non è solo un bel gesto estetico; racchiude coraggio, furbizia e fede.
Il milanista gode d’ottima compagnia. Anni fa in Champions League, contro il Werder Brema, Ronaldinho – il Ronaldinho scintillante del Barça – trafisse di stupore avversari, compagni e spettatori con un rasoterra che scivolò sotto la barriera come un raggio di luce sotto un uscio chiuso. E anche Pirlo, sublime maestro di piazzati, col Parma s’inventò una truffa del genere. Ma la memoria ci spinge indietro al febbraio del 1978, quando Michel Platini si rivelò al mondo contro l’Italia di Bearzot. Beffò dal limite dell’area Zoff con una parabola all’incrocio, ma l’arbitro annullò. Pochi minuti dopo, dall’identica posizione, tirò di lato e al contempo sotto alla barriera, per giunta sul palo del portiere. Zoff steso sull’erba, con la palla oramai nel sacco, è l’immagine dell’uomo gabbato. Ogni fede trova nell’inganno il proprio crudele rovescio. Otello decide di credere a Iago: lo pagherà caro. Shakespeare avrebbe molto amato il folle teatro del calcio.
( L’autore ha pubblicato “Breve storia del talento”, Mondadori, 2015)