la Repubblica, 1 novembre 2016
L’Opec non frena la produzione e il greggio ritorna sotto i 50 dollari
ROMA Il segretario generale dell’Opec, Mohammed Barkindo, assicurava ieri che è tutto a posto e che, a fine novembre, la favola dell’accordo fra i grandi esportatori per tagliare la produzione e riportare in alto il prezzo del petrolio diventerà realtà. Ma il tentativo di arrivare ad una prima definizione dei sacrifici che ognuno deve accettare si è sgonfiato nel weekend a Vienna in una serie di incontri tecnici finiti nel nulla e i mercati, ieri, hanno preso nota, senza curarsi troppo di Barkindo: le quotazioni sono cadute del 3 per cento e il barile è ripiombato sotto quota 50, fino a ridosso dei 48 dollari. Tutti i protagonisti continuano a dichiarare di essere pronti a fare la loro parte per riequilibrare i prezzi e i contatti continueranno nei prossimi giorni, ma l’accordo a cui si dovrebbe arrivare a fine mese appare sempre più complicato, fragile e di dubbio effetto concreto: grandi sorprese alla pompa, per i consumatori, appaiono, per ora, improbabili.
A Vienna, in questi giorni, a Iran, Nigeria, Libia, che chiedono di essere esentate dai tagli, si è aggiunto l’Iraq, gravato del peso della guerra all’Isis. L’Iraq è il secondo produttore Opec dopo l’Arabia saudita, l’Iran il terzo. Fuori dall’Opec, la Russia, il produttore numero uno in assoluto, in una ennesima giravolta, dichiara di essere pronta a congelare la produzione, non a tagliarla. Lasciar fuori tutti questi colossi significherebbe scaricare quasi solo su Riad e gli altri paesi del Golfo il peso delle riduzioni. Ma, ancor prima delle esenzioni, c’è da decidere da quale livello di produzione dovrebbero partire i tagli. I tecnici del cartello la ricavano dai dati del commercio internazionale. Ma non coincidono con quanto pensano i singoli paesi. L’Iraq, ad esempio, sostiene di estrarre 4,7 milioni di barili al giorno, mentre l’Opec giudica che ne pompi 500 mila di meno. Se, accettando formalmente l’accordo, Bagdad tagliasse la produzione a 4,2 milioni di barili, dichiarerebbe di aver diminuito di 500 mila, mentre per l’Opec non avrebbe toccato un rubinetto. Un discorso analogo vale per l’Iran e gli altri produttori. E, infatti, l’esperienza storica mostra che, ad ogni accordo, tutti i paesi hanno sistematicamente barato sulle proprie quote e, alla fine, gli unici a regolare la produzione sono stati quasi sempre i sauditi che, questa volta, hanno poca voglia di pagare per tutti. Anche se si arrivasse davvero, però, al taglio per 5-700 mila barili che è stato indicato, non sarebbe una rivoluzione. Tutti i grandi produttori – Arabia saudita, Iraq, Russia – arrivano al possibile accordo, avendo fatto arrivare l’estrazione a livelli record. A settembre, l’Opec ha toccato il massimo di 33,24 milioni di barili. Tagliare anche 700 mila barili riporterebbe la situazione all’inverno scorso, quando già c’era troppo greggio sul mercato. Senza contare, fanno notare gli analisti, che ci avviamo verso l’inverno, quando la produzione, tradizionalmente, viene ridimensionata, perché in Occidente si viaggia meno e in Medio Oriente si spengono i condizionatori. I sacrifici effettivi, insomma, sarebbero molto limitati.
Forse anche per questo, chi commercia materialmente nei barili veri e si confronta quotidianamente con la realtà di un mercato che nuota in una quantità eccessiva di greggio si è sempre mostrato assai scettico in questi mesi. L’effervescenza era tutta nel mondo finanziario che commercia nei futures e nei barili di carta. Anche qui, però, molti pensano che, svanito il primo effetto psicologico, la bolla del troppo greggio resterebbe quasi intatta. Gli investimenti degli anni grassi – quelli del greggio a 100 dollari – stanno giungendo a compimento e il mercato sconta comunque l’arrivo di nuovi barili, come i 300 mila al giorno di Kashagan, attesi dal Caspio ad inizio 2017. In più, la nuova realtà del mercato del petrolio presenta una tagliola a cui i sauditi e gli altri non possono sfuggire: se i depositi si svuotano un po’ e il prezzo torna vicino ai 60 dollari, come spera l’Opec, ripartono in massa gli americani dello shale e la bolla si rigonfia. Le statistiche Usa parlano di 5 mila pozzi che sono pronti e fermi, in attesa di prezzi migliori. Se il barile risale, un miniboom di produzione sarebbe questione di settimane.
Non è una situazione destinata a durare all’infinito. Gli investimenti nel settore, adesso, sono fermi e, presto, il mancato rimpiazzo dei pozzi esauriti si farà sentire. Ma non è detto che, nel prossimo decennio, il petrolio trovi più la domanda degli anni passati. Se, per ipotesi, fra 10 anni metà delle macchine in Europa fossero elettriche, avverte uno studio di Fitch Ratings, un quarto della domanda complessiva di benzina scomparirebbe. Magari non succederà, ma chi investe nel settore potrebbe spaventarsi già ora.