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 2016  ottobre 31 Lunedì calendario

Piccolo sport antico, gli oggetti del passato che ancora vivono nel mondo digitale

CONTRO quei pivelli con le ali del Lipsia, il Darmstadt che ha i piedi ben piantati a terra da 118 anni l’ha fatto come una volta: stemmi antichi, locandine ciancicate, soprattutto il segnapunti manuale. Il calcio com’era e come dovrebbe essere, secondo i tedeschi dell’Assia che le hanno prese (0-2) dai connazionali di Sassonia ma non glielo hanno mandato a dire dove sta e rimane la differenza tra chi ha una storia e chi se la inventa. Ecco perché lo Stadion- am-Böllenfalltor era tutto come seppiato l’altro giorno, con i padroni di casa a celebrare il proprio passato contro la sospetta modernità dei loro ospiti da soli sette anni nel campionato maggiore grazie soprattuto ai soldi (austriaci) del loro sponsor (Red Bull). Lipsia vola in effetti, almeno al momento: imbattuta e seconda in classifica a due punti dal Bayern. Ma il pallone non è solo gol technology e bollicine, è anche una cosa seria ha voluto dire il vecchio club nella sua “giornata della tradizione” applaudita da molta Bundesliga che guarda sprezzante alla RB dalle iniziali della bibita energizzante. Si dice sia una squadra di plastica plasmata nei bassifondi della quinta divisione dov’era fino al 2009 col nome di SSV Markranstadt che neanche i locali conoscevano, e che sia stata portata in cielo a sorsate di euro. Club azienda, certo non l’unico, accolto ad agosto scorso dai tifosi della Dynamo Dresda da una testa di toro mozzata, vera e macabra incarnazione del logo della ditta proprietaria. Avranno perso quelli del Darmstadt, ma i due gol li hanno sfogliati lenti come petali sul loro tabellone, a mano. Lo sport evolve, non certi sentimenti e neanche gli oggetti per dirlo.
Il vintage resiste e anzi sembra insostituibile talvolta, non c’è hi-tech che sia altrettanto efficace del come una volta. Persino nel regno della tecnologia e dell’ingegneria della Formula 1 o della MotoGp. Tra tutte quelle lucine e quei rombi, davanti al volante che è un computer, eccoti che sbucano dal muretto sulla pista i pit board, quei cartelli appesi sul rettilineo d’arrivo per comunicare ai piloti la loro posizione e il distacco dagli altri, e quanti girano mancano. Si usano anche per farsi i dispetti, vedi Ferrari e Mercedes a Melbourne nel GP di inizio stagione: il cartello della Rossa che ha ritardato stranamente a rientrare coprendo quello del team di Rosberg. Milioni a sviluppare la più intelligente delle macchine, bruciati da un pezzo di plastica. Sui cartelli si scriveva anche “In” per far rientrare l’auto ai box, ma sono stati abbandonati per questioni di regolamento e soprattutto per tattica e sostituiti con la comunicazione via radio. Nelle moto li vogliono fare virtual, e cioè spedire le informazioni direttamente sul display del quadro di comando. Se Valentino Rossi le avesse ricevute sul cruscotto a luglio scorso al Sachsenring, la gara sarebbe andata diversamente visto che disse «ho ritardato il cambio gomme ma non ho letto in tempo i cartelli al box». Sul suo quadro comandi appaiono quattro bandierine (rossa per gara sospesa, nera per pilota squalificato, quella che obbliga dopo una partenza anticipata al rientro ai box entro 5 giri dalla segnalazione della penalità e infine quella che segnala un guasto), sei in meno di quelle che sventolano tra le mani dei commissari di percorso sui circuiti di F1.
Digitale mai. Nell’era dell’informazione il più letterario degli sport rimane appiccicato al suo immaginario. Il pugilato dei corpi, del sudore, della maledizione e della redenzione, ha cambiato tutto il suo racconto e i suoi eroi, ma non il contorno: le Ring Girls. Le ragazze del ring che salgono sul quadrato con un cartello che segnala il numero di round successivo sfilando molto poco vestite semmai l’attenzione dovesse calare. Anacronistico, maschilista e piuttosto triviale, eppure sebbene a volte contestato (specie dal pubblico musulmano) sopravvive come rito, anzi come fantasma del passato. Di cui, in atletica, rimangono le impronte. Nel salto in lungo e triplo alla fine della pedana di rincorsa, prima della buca di atterraggio con la sabbia, c’è l’asse di battuta che non deve essere oltrepassata sennò il salto è nullo. Come si vede? Sulla plastilina dove rimangono le prove inconfutabili della suola. Altro che laser. Rimasugli e retrò in ordine sparso: il carbonato di magnesio con cui i saltatori con l’asta e i ginnasti si spargono le mani, le bandierine triangolari sospese a 1,8 metri sulla piscina del nuoto per indicare che mancano cinque metri alla fine della vasca (per il dorso), i birilli rossi, gialli, verdi e bianchi che nella pallanuoto sui due lati del campo segnalano i 2, 4, 7 metri e il centro vasca. E poi la lavagnetta dei coach di volley e soprattutto del basket, che meraviglia: gli schemi disegnati e cancellati col pennarello, tutti a guardare sul foglio. «Semplice, più pratica e veloce di un iPad» dice Nando Gentile ex bandiera di Caserta sul parquet, poi allenatore. «E anche scenografica: la puoi scagliare a terra se sei arrabbiato e non si rompe». Il tablet è figo, ma non va così a canestro.