Corriere della Sera, 31 ottobre 2016
L’Italia cavalleresca, L’inflazione dei titoli
In questi giorni diversi presidenti emeriti della Corte costituzionale sono impegnati a sostenere le tesi del prossimo referendum; sono talmente tanti che mi sono chiesto: come mai? Capisco che non è «politically correct» parlarne, ma vediamo di capire qualcosa. Il quinto comma dell’ art. 135 della Costituzione dice che la Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il presidente, che rimane in carica per un triennio. Quindi, secondo la Costituzione, il presidente deve essere tale per tre anni. Valutando il tempo in cui i componenti della Consulta sono stati presidenti, ci accorgiamo che alcuni lo sono stati per 4 mesi e 19 giorni, 3 mesi e 10 giorni, 3 mesi e 4 giorni, 7 mesi e 16 giorni. Com’è potuto accadere? Possibile che i membri della Corte non hanno seguito la Costituzione? Oppure ci sono altre ragioni?
Sergio Guadagnolo
Caro Guadagnolo,
Gli italiani amano fregiarsi di un titolo aristocratico o di una onorificenza civile. Non sono i soli, beninteso. I francesi sono felici quando possono appuntare una rosetta (possibilmente della Legion d’Onore) al bavero della giacca. I cittadini della Gran Bretagna attendono con impazienza il giorno in cui viene data alle stampe, ogni anno, la lista delle persone a cui Sua Maestà la Regina ha deciso di elargire il titolo di lord, barone, baronetto o, più semplicemente, cavaliere. In Germania il titolo nobiliare è parte integrante del cognome e accompagna una persona nel corso della sua intera esistenza. Non basta. Ai tedeschi piace ostentare i titoli accademici e quelli che hanno due lauree sono, nei loro biglietti da visita, due volte dottori (Dr. Dr.).
Non siamo soli quindi. Ma siamo certamente figli di un Paese che soffre di un insaziabile «titolismo» e in cui il numero dei titolati è soggetto a una continua moltiplicazione. Ne abbiamo avuto la prova quando abbiamo letto la sentenza di un tribunale amministrativo che elargiva il titolo di dottore anche a coloro che avevano fatto la laurea «breve».
L’inflazione è evidente nel caso dei titoli nobiliari. Grazie alla sua lunga storia, l’Italia ha nobili di origine imperiale, nobili pontifici, nobili napoleonici, nobili asburgici e nobili dei regni che si sono susseguiti nella vita della Penisola, dai Borbone ai Savoia. Le norme araldiche vorrebbero che il titolo venisse generalmente trasmesso al primogenito, ma gli italiani sono generosi e non lo negano, nell’uso corrente, ai figli minori, agli zii e ai nipoti.
Lo stesso accade per le decorazioni civili. In epoca giolittiana si diceva scherzosamente che una croce di cavaliere e un sigaro non si negano a nessuno. Dopo qualche tempo si poté dire lo stesso per il titolo di commendatore e, se continueremo di questo passo, si potrà dire anche per quello di grande ufficiale.
Il caso degli «emeriti» è particolarmente curioso. In origine il titolo veniva riservato, alla fine della carriera, per i professori che si erano particolarmente distinti nel corso della loro vita accademica. Oggi mi sembra che il numero sia aumentato sino a comprendere, con qualche eccezione, l’intero corpo accademico. Da qualche tempo viene usato anche per i presidenti della Repubblica e per i giudici costituzionali alla fine dei rispettivi mandati. E in un caso molto particolare, infine, viene usato per un Pontefice. Capisco che le dimissioni di Benedetto XVI abbiano creato per la Santa Sede un complicato problema di cerimoniale e che non sarebbe stato decoroso definire Joseph Ratzinger un «Papa a riposo». Ma «emerito», per chi è stato Vicario di Cristo, mi sembra una inaccettabile diminuzione di status.
Quanto ai suoi quesiti sul numero degli emeriti, caro Guadagnolo, lascio ai giudici costituzionali il compito di tutelare la propria rispettabilità.