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 2016  ottobre 27 Giovedì calendario

Apple delude, aria di crisi globale

Nella sua pur breve storia, Apple ne ha viste di peggio. Eppure la deludente trimestrale del colosso di Cupertino, risultata indigesta a Wall Street (-2,5% il titolo), non è il semplice racconto in cifre delle crescenti difficoltà a piazzare in Cina gli iPhone, da cui derivano i due terzi del giro d’affari. Nè soltanto l’inevitabile prezzo da pagare per aver puntato quasi tutte le fiche su una strategia mono-prodotto. È molto di più, perchè le difficoltà della Mela sono le stesse patite da molte, anzi troppe, imprese. 
Ci sarà un motivo se da ben cinque trimestri la Corporate America accusa un afflosciamento degli utili che è l’antitesi dello smagliante stato di forma dello Standard&Poor’s, reso possibile da quell’anabolizzante chiamato buyback. Ma anche al di fuori degli Usa le cose non vanno molto meglio. Non appena cominciano a ridursi i ricchi margini di profitto garantiti dai Paesi emergenti, sono dolori. Nonostante quest’era di tassi appiattiti e di inflazione glaciale dovrebbe incoraggiare lo shopping, il dato di fatto, incontrovertibile, è uno: nei Paesi più industrializzati si consuma sempre di meno e, se possibile, si tende a risparmiare. Un mood da crisi cronica. O da pensionato. 
Il fenomeno è infatti per buona parte un effetto collaterale dell’invecchiamento della popolazione. L’Ocse ha calcolato che oggi gli over 60 sono 868 milioni, il 12% della popolazione mondiale: nel 2050 saranno 2,4 miliardi. Ma già ora il cambiamento demografico, determinato anche dal basso tasso di natalità, sta cambiando le abitudini di spesa. Non a caso, due sono i principali motori dei consumi: le entrate crescenti e la creazione di ricchezza. Due elementi che spesso mancano a chi è in quiescenza e anche a chi sta per andarci. Scattano invece meccanismi conservativi che tengono conto non solo del ridotto potere d’acquisto provocato dal ritiro dal lavoro, ma anche di potenziali fattori avversi. Come la perdita di diritti acquisiti (qualcuno ha detto Fornero?); il timore che un aumento del disavanzo pubblico si traduca in maggiori tasse da pagare; oppure gli accantonamenti ritenuti necessari per coprire future spese medico-sanitarie. Non giovano neppure i rendimenti negativi di molti titoli di Stato, un tempo lo strumento che salvava risparmio e potere d’acquisto. E cercare guadagni in Borsa è un rischio che molti non vogliono correre.
La scarsa attitudine degli anziani ad aprire il portafogli potrebbe essere in parte controbilanciata se le generazioni più giovani avessero quattrini da spendere. I tassi di disoccupazione stellari nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni in Italia e altrove, e pure le difficoltà a trovare un’occupazione anche tra coloro che ne hanno 30,40 o 50, raccontano però un’altra storia. L’America, patria di Apple, sbandiera ogni mese le migliaia di posti di lavoro creati, dimenticando spesso che si tratta perlopiù di commessi, baristi e camerieri con paghe basse e conseguente basso potere di spesa. D’altra parte, 46 milioni di americani sopravvivono grazie ai food stamp. E con i buoni pasto non si compra l’iPhone. E che dire del 35% della popolazione, oltre 108 milioni di persone, che non ha da parte neppure un decino ed è magari carica di debiti? 
La globalizzazione tanto voluta dalle multinazionali ha portato ricchi utili, al prezzo di una generalizzata deflazione salariale, di un impoverimento del ceto medio e di un’aumentata precarietà. Ma ora si sta rivelando un boomerang contro cui, finora, neppure le banche centrali hanno trovato un rimedio.