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 2016  ottobre 25 Martedì calendario

«Mia figlia morta per il vaccino ma glielo rifarei»

Silvia aveva gli occhi celesti e vivaci, un sorriso per tutti e diceva le prime sillabe, «maaaa», «paaaa». Come tutti i bambini di sette mesi. Poi, improvvisamente era il luglio del 1968 qualcosa è cambiato. Silvia è diventata sempre più grande, ma restando una bambina di sette mesi. Senza parlare e senza camminare. Un ritardo psicomotorio, prima lieve e poi più grave causato secondo tutti i medici interpellati nel corso degli anni dalla vaccinazione. Quella del luglio 1968, appunto. Che ha stravolto la sua vita e quella della sua famiglia e le cui conseguenze, a 29 anni, l’hanno uccisa. Eppure Giovanna Dell’Orto, sua madre, rifarebbe tutto. Rifarebbe quella maledetta puntura e ora vaccinerebbe senza nessun timore un nipote, un parente, il figlio di un amico. 
Signora Dell’Orto, perché tanta sicurezza? 
«Perché mi fido della medicina e della ricerca. Quello che è capitato a Silvia non mi condiziona ora e non mi ha condizionato mai. È successo e basta. Punto. Nel tempo mi sono sempre impegnata più a cercare i rimedi per fare star bene lei che a concentrarmi su quale fosse stata la causa». 
Però ora se ne parla molto. C’è è chi è contrario al vaccino e chi addirittura lo evita ai propri figli. 
«Forse è una questione di ignoranza, sicuramente di mancanza di fiducia. Mi è capitato di conoscere anche medici che la pensano così. Non li capisco». 
Torniamo indietro. Silvia nasce il 25 dicembre 1967. Bambina sana? 
«Certo. Fino a sette mesi è normale. Ogni settimana la faccio visitare dal pediatra dell’ONMI, l’Opera nazionale maternità e infanzia. Mai notato nulla di strano». 
Poi? 
«Il primo vaccino a Crema e dopo un paio di mesi, confrontandola con i progressi di una cugina coetanea, io e mio marito abbiamo i primi dubbi che qualcosa non vada bene». 
Perché? 
«Non inizia a camminare, sta sempre seduta. Ci rivolgiamo al pediatra e la risposta è: “È una pacioccona, è pigra”. Nel frattempo resto incinta e quando il 5 dicembre 1968 nasce il secondo figlio decidiamo di farla ricoverare per una serie di esami perché ci sembra peggiorata: oltre a non camminare e parlare sempre poco, piange se vede persone nuove». 
Che vi dicono? 
«Che non ha nulla, solo un lieve ritardo. E concludono: “La viziate troppo”». 
La situazione però non migliora. 
«Quando ha
un anno e mezzo ci rivolgiamo
a un altro pedia-
tra che ci apre
gli occhi: “Vostra figlia ha un ritardo psicomotorio”. Allora la facciamo ricoverare a Verona e lì ci confermano la diagnosi. Si informano sul parto e sui primi mesi per capire che non fosse un problema dalla nascita, ma appena mostriamo le fotografie di lei che interagisce, afferra oggetti, sta seduta da sola e sorride alla nonna, svanisce ogni dubbio: è nata sana. E per prima volta ci spiegano che la causa del ritardo è da ricondurre al vaccino». 
Ipotesi che vi confermano poi nel tempo? 
«Ogni medico cui ci rivolgiamo, in Italia e all’estero, arriva a quella conclusione: colpa del vaccino. Che ha causato una cerebropatia grave, una lesione cerebrale». 
Quindi quando c’è da vaccinare il secondo figlio sapete tutto? 
«Certo». 
E che fate? 
«Non abbiamo dubbi, lo vacciniamo. In quegli anni è obbligatorio e comunque non ci poniamo il problema: totale fiducia nella medicina e consapevolezze che con Silvia purtroppo è stato un tragico caso». 
Sua figlia è cresciuta ed è diventata adulta, senza camminare e parlare. Sempre come una bambina di sette mesi. La sua disabilità come vi ha condizionato la vita? 
«Io ho vissuto totalmente in simbiosi con lei, giorno e notte, per 29 anni. E mio marito ha fatte delle rinunce professionali per stare vicino a lei, a me e all’altro figlio. Ma questa esperienza mi ha anche dato l’opportunità di conoscere persone meravigliose tra dottori, fisioterapisti, infermieri». 
Silvia è morta nel 1996, a 29 anni. 
«Conseguenze della disabilità causata dal vaccino. Ma non è un buon motivo per aver paura delle vaccinazioni. Anzi. Io ogni anno faccio l’antifluenzale anche se c’è stato qualcuno che ha cercato di convincermi a non farla».