Affari & Finanza, 24 ottobre 2016
Il governo: «via centomila slot». Ma il taglio non placa lo scontro
Roma Gestiva le bische di zona, le partite di poker a cinque carte nei finti circoli ricreativi, la malavita di quartiere conviveva con la società civile quasi fosse una normale azienda operante sul territorio: siamo a metà degli anni novanta e il fatturato stimato dagli studi della guardia di finanza raccontava un giro d’affari da cento miliardi di lire l’anno. Quella microdelinquenza che poi faceva capo a organizzazioni ben più estese e violente, altro non era che l’ultimo capillare di un’organizzazione criminosa su vasta scala che trasformava l’azzardo nel suo personale portafoglio da reinvestire in attività lecite, a cominciare dall’edilizia. Sono gli anni in cui le scommesse sul calcio vengono interamente gestite dal banco del “Picchetto”. Piccoli fogli di carta con la serie di nove partite del campionato di A, affiancate da un secondo foglio con gli incontri di serie B e C1. Si giocava solo sull1, X 2. Il vantaggio percentuale del banco era spaventoso e lo Stato rimaneva consapevolmente a guardare. In meno di vent’anni, dal giugno del 1998 quando le agenzie di scommesse aprirono i battenti alle puntate lecite sul pallone (primo match Italia-Norvegia del Mondiale di Francia), lo stato, composto da Monopoli, Sogei per i protocolli tecnologici e forze dell’ordine, ha sottratto moneta dopo moneta, il gioco dalle mani della criminalità per traghettarlo verso una gestione trasparente e controllata delle società che oggi compongono questo settore. Da azzardo clandestino è stato trasformato in industria del gaming con regolamenti d’attuazione rigidi e soprattutto agilmente verificabili. I dati di fine 2015 parlano di un movimento complessivo da circa 85 miliardi di euro, con 15 miliardi netti giocati (70 miliardi sono stati restituiti in vincite) e 8 finiti attraverso un sistema di tasse dirette e indirette nelle casse dell’erario. Oggi si discute esclusivamente di quest’ultimo punto. A scioccare l’opinione pubblica è soprattutto il quantitativo di denaro in gioco. La politica, senza distinzione di colori, alza la voce per restringere il più possibile (alcuni parlano addirittura di azzeramento) il perimetro d’azione del settore gioco. Dimenticando in un istante il lavoro svolto per vent’anni dal medesimo Stato, per proteggere il settore dagli appetiti della malavita organizzata. A leggere i decreti comunali di Brescia, le arringhe di consiglieri regionali che intorno alla parola ludopatia stanno costruendo una carriera, le interrogazioni parlamentari che di volta in volta toccano orari d’apertura, richiesta di aumento del Preu e lotta costante al mercato di slot e vlt, sembra che il fenomeno dei giochi in denaro sia di recentissima nascita. «Il gioco – racconta Fabio Felici – direttore dell’agenzia Agimeg specializzata nel settore – ha fatto parte per decenni di un’area fuori controllo ed è incomprensibile che proprio ora che il settore è stato sostanzialmente strappato dalle mani della criminalità, si discuta in modo tanto violento da far presagire un possibile ritorno a quelle stagioni». Mai come in questi giorni tra conferenza Stato-Regioni e contenuti specifici della legge di stabilità, si è discusso tanto della necessità di ridurre il parco delle macchinette presenti sul territorio. Si parla di 420mila slot divise tra bar, tabacchi, ristoranti, circoli ricreativi, agenzie di scommesse, sale dedicate, e qualsiasi altro punto in grado di farsi rilasciare un’autorizzazione dal commissariato di zona, per accendere uno dei terminali funzionanti con monete da uno e due euro. Il piano del governo prevede una riduzione di centomila unità come culmine di una riorganizzazione del settore che si vuole fortemente ridimensionare, partendo anche dai divieti messi in atto in campo pubblicitario. Che si sia ecceduto nell’offerta e serva un riordino è oramai acclarato da tutti, a cominciare dal sottosegretario Baretta, ma il confronto che dovrebbe portare a questa soluzione assume spesso i connotati di una battaglia frontale contro operatori di gioco e filiera che il gaming lo gestisce. La camorra gestiva di fatto l’intero settore in tutto il paese, dai locali del Milanese che facevano capo a Turatello a fine anni Settanta, si passò velocemente a una gestione del gioco molto più scoperta. I videoterminali con le carte francesi a grandezza naturale riempivano migliaia di locali a fine anni Ottanta. Il suono sordo della combinazione perdente che accompagnava in modo incessante le normali attività commerciali di quegli anni, portava un fatturato da capogiro nelle tasche della camorra. Lo Stato che in assenza di una legge specifica (allora si parlava di illeciti amministrativi, non penali con rischi quindi minimi per i gestori) chiudeva gli occhi davanti a un fenomeno tanto evidente, decise a metà anni Novanta di cambiare strategia, legalizzando il settore, applicando tasse corpose e accompagnando l’attività a un costante controllo delle forze dell’ordine. Quella stessa criminalità abituata a gestire centinaia di migliaia di lire quotidianamente, si trovò improvvisamente messa all’angolo. E gli stessi tentativi di costringere con la violenza i gestori di bar e tabacchi del profondo sud a utilizzare macchine non collegate alla certificazione dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, rappresenta oggi una percentuale minima del settore nel suo complesso che, come altre forme di devianza in altri settori dell’economia, va combattuta con forza dallo Stato. Le scommesse sul calcio passano per lo più su terminali digitali dove è impossibile non registrare il flusso delle puntate. I gestori dello “Scassaquindici” di quartiere sono stati spazzati via dalle regolari licenze delle sale Bingo. Restano in piedi sale poker più o meno clandestine e solo perché non si è ancora provveduto a formulare il regolamento attuativo di una legge passata in Gazzetta ormai cinque anni fa. Vent’anni di sforzi per togliere il gioco dalle mani della criminalità: tutto rischia di essere dimenticato.