Il Messaggero, 26 ottobre 2016
Kafka, illustre sconosciuto
C’è un tale di nome Gregor, che di mestiere fa il commesso viaggiatore, che una mattina viene svegliato dai suoi stessi incubi, e si ritrova trasformato in un gigantesco insetto. Un altro, Josef K., viene arrestato e processato senza saperne i motivi. Un omonimo, K. appunto, finisce invece in un villaggio dominato dall’immagine misteriosa di un castello. E a parte i diari, le lettere d’amore, o rivolte a un padre tirannico, autoritario, troppo forte per un figlio così debole, si ha come l’impressione che Kafka coincida con i suoi personaggi, con le atmosfere dei suoi racconti, con le sue opere, che avrebbe voluto bruciare.Per fortuna che esistono i biografi, che si ricordano che l’uomo e lo scrittore, prima di incontrarsi e di convivere nello stesso corpo, vivevano in camere separate e distanti. Reiner Stach, preparando la sua biografia di Kafka, in tre volumi, ha isolato novantanove reperti e li ha raccolti in un libro intitolato Questo è Kafka?, appena pubblicato in Italia da Adelphi (360 pagine, 28 euro). Quasi facendo un dispetto ai critici e agli accademici, che hanno sempre immaginato un mondo popolato di libri senza respiro, Stach ci offre un Kafka inedito, inaspettato, inaudito, e restituisce carne, ossa, colori e una profonda umanità a un uomo che fino ad oggi sembrava fatto solo di carta. Ed eccoci all’esame di maturità, che Kafka ha superato grazie a un imbroglio. Un suo compagno di classe, con fama di seduttore, fa la corte alla governante del professore di greco, Lindner. Fanno una colletta, e lui la porta a cena fuori, a ballare, a teatro, e la convince a farsi consegnare il quaderno dove Lindner annotava tutti gli appunti sui brani che avrebbe fatto tradurre in classe. Kafka, solo dopo aver copiato gli appunti, era riuscito a superare l’esame di greco.
GINNASTICA
Dal 1910 in poi, anche dopo aver scoperto di avere la tubercolosi, faceva quotidianamente ginnastica, con la finestra aperta, seguendo il metodo di un atleta danese, che «non mirava tanto ad accrescere la massa muscolare, quanto piuttosto a migliorare nel complesso il tono fisico e l’agilità». Il titolo della sua canzone preferita era Addio piccola stradina, risalente alla prima metà dell’Ottocento, e raccontava di una vita incerta, precaria, sempre in bilico, fatta di nostalgia. Sarà per questo che gli occhi di Kafka, leggendo le testimonianze e dando un’occhiata al suo passaporto, alla fine risultavano di colore grigio-azzurro scuro, e che il più delle volte si riempivano di lacrime per i dolori degli altri, come se quelli «fossero per lui un modo per avvicinare la propria tristezza». Anche se sulla sua scrivania regnava un «indegno stato di cose», tra cui lo specchio per la rasatura e la spazzola per i vestiti, Kafka, oltre ai suoi romanzi, disegnava, ritraeva se stesso e la madre, e un giorno aveva scritto una poesia di cui andava molto fiero: «Piccola anima/ fai balzi nel ballo/ poni la testa nell’aria tiepida/ alza i piedi dall’erba lucente/ che il vento muove con dolcezza». E lì, in quel disordine, c’erano anche le lettere dei suoi lettori, una su tutte quella del dottor Siegfried Wolff, che aveva regalato La metamorfosi alle sue cugine e loro non avevano capito nulla: «Lei mi ha cacciato nei guai. Mi dica dunque, per favore, quale costrutto mia cugina debba ricavare dalla Metamorfosi». Nei suoi incubi, forse simili a quelli di Samsa, compariva la figlia del suo capo, Robert Marschner. Nella veglia, invece, s’innamorava dei dettagli, delle piccole cose, come quel giorno di novembre del 1915, quando si trovava in compagnia di due sorelle: «Esther e Tilka come un contrasto di luce che splende e si dilegua. Bella soprattutto Tilka, carnagione olivastra, palpebre arcuate e basse, Asia profonda». E capitava, ogni tanto, che frequentasse le strade di Milano, Parigi, Lipsia, Praga, dove c’erano le prostitute, anche solo per guardarle, fermo, immobile, attratto e impaurito, con quello stato d’animo a metà tra il desiderio e i sensi di colpa, proprio come fosse uno dei suoi personaggi.